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I DISTRETTI INDUSTRIALI
Dalla complessità alla mesoeconomia
Obiettivo del presente studio è quello di esaminare la realtà dei distretti
industriali, non semplicemente tenendo conto delle caratteristiche e
dell’evoluzione degli stessi, ma ripercorrendo le varie linee di pensiero
che si sono susseguite nella loro trattazione. L’analisi, dopo un breve
inquadramento della dottrina classica, è condotta attraverso la visione
proposta dai teorici della complessità, per poi giungere alle piø moderne
concezioni proprie dei sostenitori dell’esistenza di un livello intermedio
di competizione tra il micro e il macro, il livello della mesoeconomia, di
cui il distretto industriale rappresenta un esempio significativo.
L’analisi dei distretti industriali nell’ottica della complessità e della
mesoeconomia viene affrontata ed articolata come segue.
Il primo capitolo di questo lavoro ricostruisce anzitutto la genesi storica
del concetto di distretto industriale concentrandosi sul pensiero di
Alfred Marshall, che può esserne considerato il formulatore. Si mostra
come il concetto derivi dalla felice confluenza dell’osservazione attenta
della realtà industriale britannica, con un tentativo di dare risposta alle
difficoltà della teoria classica ed insieme di rispondere alla sfida della
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lotta di classe. Ci si concentra successivamente sull’evoluzione del
fenomeno distrettuale e sulle fondamenta teoriche nell’economia
italiana. In particolare, viene studiato il nesso distretti-made in Italy
come chiave esplicativa dei vantaggi competitivi del prodotto italiano in
numerosi settori e si evidenzia come la forma distretto costituisca, per
certi tipi di produzione, un’alternativa valida alla forma impresa singola
(mono o pluri-stabilimento) e alla rete di imprese.
Il secondo capitolo affronta il tema delle interazioni locali nei distretti
industriali nell’ottica della complessità. Secondo questa logica, il
distretto è dato da due tipi di strutture: reti e impalcature. Le reti
trasportano le competenze attraverso le quali il distretto raccoglie ed
interpreta le informazioni circa prodotti, tecnologie di produzione e
mercati. I processi di trasformazione si basano, invece, su una serie di
strutture ad impalcatura, che possono essere considerate le istituzioni
che forniscono sia un’identità meta-stabile sia le possibilità di
rinnovamento e cambiamento del distretto. Si discutono e si illustrano
due tipi di struttura ad impalcatura particolarmente importanti:
l’interazione del locus e le regole ed i ruoli emergenti. Sono in seguito
analizzate le forme di coordinamento e di organizzazione proprie dei
distretti, il ruolo svolto dallo spazio geografico nella struttura e nel
funzionamento degli stessi e le modalità con cui avviene l’innovazione,
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delineando successivamente i tre fattori di modernità della formula
distrettuale.
Nel terzo capitolo si approfondisce la funzione svolta dal territorio e
l’influenza che il suo sviluppo può determinare sull’evoluzione che sta
interessando i distretti industriali. Il cambiamento in atto dei sistemi
produttivi locali coinvolge diversi livelli che ridefiniscono i confini dei
luoghi in rapporto alle esperienze plurime dei soggetti che li abitano o li
usano, spostandosi da un punto all’altro di un sistema, che ormai
sembra privo di confini ben tracciati. Nei distretti industriali, la società
locale partecipa a questa trasformazione mobilitando le sue tre anime:
quella del cluster geografico; quella dell’ecologia territoriale, sintesi di
società, tecnica, economia e natura emergente dalla storia passata; e
quella del sistema cognitivo costruito dalle persone e dalle imprese che,
progettando il loro futuro, collocano anche il territorio in una rete aperta
di possibilità da esplorare e valorizzare. Questi tre modi d’essere del
territorio coesistono nel presente, ma devono essere intrecciati
fruttuosamente l’uno con l’altro. I soggetti possono, infatti, davvero
plasmare lo spazio dei luoghi e le reti dei flussi in funzione delle loro
idee di futuro, solo se cessano di abitare un territorio ricevuto in eredità
da altri e cominciano a pensarlo come il risultato di una loro visione e di
un loro progetto condiviso.
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Il quarto capitolo del presente lavoro si sofferma sulla moderna visione
proposta dalla teoria mesoeconomica, che, andando oltre la logica della
complessità, risulta essere una risposta allo scetticismo riguardante la
capacità delle teorie tradizionali di analizzare le relazioni esistenti tra il
livello macro e il livello micro. Si introducono le basi per l’analisi
dell’esistenza di un livello intermedio o mesoeconomico, che
rappresenta, non solo il luogo fisico dove si organizza la produzione,
ma anche il nodo di una rete dove si creano e si sviluppano i sistemi di
relazioni o di interazione tra soggetti economici e si scambiano
conoscenze, informazioni ed esperienze. L’insieme degli asset rende il
territorio (livello meso) un fattore dello sviluppo e un bene pubblico in
quanto contribuisce a determinare il meccanismo di trasmissione tra la
singola impresa o gruppi di imprese (livello micro) e l’intero sistema
economico nazionale (livello macro) e si propone come luogo di
relazioni e di scambio di conoscenze tra soggetti pubblici e privati. Con
l’introduzione del livello intermedio di sviluppo, si individuano i primi
fondamenti di una teoria mesoeconomica, complementare e non
alternativa alle teorie micro e macroeconomiche e vengono introdotti
alcuni modelli empirici di riferimento.
Il quinto ed ultimo capitolo del presente lavoro, infine, mira a spiegare
le ragioni per le quali i distretti prosperano e si diffondono e i motivi del
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loro successo all’interno dei mercati odierni instabili ed in continuo
cambiamento. Ci si sofferma in particolare sulla tipologia dei distretti
produttivi delineandone gli elementi costitutivi. Sono in seguito
analizzati i caratteri del distretto produttivo come sistema-impresa a rete
e gli aspetti relativi alla fiscalità. Inoltre, alla luce di tutte le riflessioni
svolte precedentemente, sono presi in considerazione tre aspetti
particolarmente rilevanti dei cambiamenti in corso che stanno
interessando i distretti industriali: il processo di apertura internazionale
della catena del valore, le condizioni tecnologiche del vantaggio
competitivo, il rapporto tra strategie e performance economiche. In
conclusione, si svolgono osservazioni sul tema delle politiche, che
mettono in evidenza la necessità di ripensare le tradizionali formule di
governance locale dello sviluppo e richiedono di guardare alle nuove
economie esterne distrettuali, basate sull’economia dei servizi, su
investimenti molto piø consistenti in attività formative, tecnologiche e
culturali e, in definitiva, su azioni istituzionali piø consapevoli della
necessità di associazione delle imprese in progetti di innovazione.
Infine, analizzati i punti precedenti, allo scopo di comprendere quale
futuro attende i distretti industriali, ampio spazio è dedicato alle
considerazioni finali.
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Capitolo 1:
Dal distretto industriale marshalliano alla distrettualistica
italiana
1.1 Breve inquadramento del pensiero di Alfred Marshall
L’idea del distretto industriale comincia a farsi spazio nei manoscritti
marshalliani risalenti alla seconda metà del XIX secolo, nei quali si
riscontrano alcune affermazioni che delineano chiaramente una
posizione dell’autore diversa da quella allora prevalente fra gli
economisti, su alcuni temi cruciali della nascente teoria della
produzione. In particolare, Marshall contesta la conclusione standard
secondo cui il “sistema di fabbrica” (factory system), caratterizzato
dalla concentrazione di tutte le operazioni produttive in un unico luogo
con un elevato grado di integrazione verticale, sarebbe
sistematicamente superiore ai metodi di produzione piø dispersi e meno
integrati.
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L’argomentazione marshalliana anticipa qui l’impostazione coasiana secondo la quale, per
ogni fase distinguibile del processo produttivo, ci si pone la domanda se convenga
mantenerla all’interno del processo produttivo o estrernalizzarla, ricorrendo al mercato.
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Osservando la realtà dell’industria britannica del periodo, come la
coltelleria di Sheffield o i metal trades di Birmingham, ed elaborando le
sue considerazioni sui testi di economia piø diffusi, quali le opere di
Mill (1848), Cairnes (1874), Cliffe Leslie (1888) ed Hearn (1864),
Marshall giunge alla conclusione che, per alcuni tipi di prodotti,
esistono due modalità efficienti di produzione: quella nota, basata su
grandi unità produttive integrate verticalmente al loro interno, e una
seconda, basata sulla concentrazione di molte piccole fabbriche,
specializzate nelle diverse fasi di un unico processo produttivo, in una
località, o gruppo di località. L’autore è il primo ad utilizzare il termine
di distretto industriale e ne propone la seguente definizione: «Con il
termine distretto industriale si fa riferimento ad un'entità
socioeconomica costituita da un insieme di imprese, facenti
generalmente parte di uno stesso settore produttivo, localizzato in
un'area circoscritta, tra le quali vi è collaborazione ma anche
concorrenza» (Marshall, 1890). Egli sostiene, nei suoi scritti, che alcuni
vantaggi della divisione del lavoro possono essere ottenuti solo nelle
fabbriche di grandi dimensioni, ma che molti di essi possono essere
conseguiti da piccole fabbriche e laboratori, purchØ ve ne sia un numero
molto elevato. La fabbricazione di un prodotto, infatti, si compone
spesso di diversi stadi distinti, a ciascuno dei quali è riservato uno
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spazio separato nella fabbrica; se però il volume complessivo della
produzione è molto grande, può essere conveniente destinare piccole
fabbriche separate a ciascuna fase. Le piccole fabbriche, qualunque sia
il loro numero, si troveranno in forte svantaggio rispetto alle grandi, a
meno che non ve ne siano molte addensate nello stesso distretto
(Marshall M.P., 1975).
Sia le grandi che le piccole aziende, dunque, traggono beneficio dalla
localizzazione dell’industria, ma questi benefici sono piø importanti per
le piccole aziende, perchØ le liberano da molti svantaggi nei quali
dovrebbero operare altrimenti in concorrenza con le grandi aziende.
Oltre alla descrizione fenomenologica del distretto industriale, si ha già
quindi un suo primo inquadramento teorico che fa perno sui benefici,
che diverranno successivamente, le economie esterne.
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1.1.1 Il problema delle “nazioni economiche”
Nel periodo in cui Marshall ebbe il suo esordio come economista
(1871- 1873), non mancarono dibattiti economici volti ad analizzare la
nascita del concetto di distretto industriale, così come pensata
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Tra i vari studi che inquadrano il concetto marshalliano di distretto industriale ritroviamo:
Bellandi (1982), Loasby (1998), Raffaelli (2002).
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dall’autore; in particolare vi furono discussioni risalenti a subito dopo la
pubblicazione dei Principles of Political Economy di J.S. Mill (1848),
ad opera di J.E. Cairnes e T. Cliffe Leslie. Questi autori avevano notato
che la mobilità professionale e territoriale presupposta dalla teoria
classica, sia per il lavoro che per il capitale, non esistevano neppure in
Inghilterra, nonostante quest’ultima fosse la terra promessa delle leggi
economiche classiche. La realtà sociale britannica si presentava infatti
segmentata in tanti compartimenti regionali, settoriali, oltrechØ sociali,
che impedivano la libera circolazione dei fattori di capitale e lavoro,
presupposta dalla teoria. Sorgeva dunque il problema di individuare
aree o gruppi di agenti tali da permettere l’interscambio tra i fenomeni e
la teoria richiesta da una scienza empirica come l’economia. Senza
quella esplorazione metodologica, la teoria economica classica restava
come sospesa a mezz’aria. Da ciò proviene la centralità della tematica
marshalliana della nazione economica derivata da quella dei gruppi non
concorrenti, che nel giovane Marshall ci si presenta in due versioni
distinte.
In una prima versione la nazione economica è un luogo, o un sistema di
luoghi, caratterizzato da una tale omogeneità culturale, facilità di
circolazione delle informazioni e congruità territoriale, da far sì che i
movimenti dei capitali e dei lavoratori livellino rapidamente i saggi di
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profitto e di salario. Ogni area territoriale così costituita, rappresenta
quindi una sorta di nazione economica, anche se non ha maturato una
precisa coscienza della sua autonomia e non esprime un suo unitario
meccanismo di governo. L’ordinario stato-nazione, quindi, sarà
composto di tante nazioni economiche e non si può escludere che una
nazione economica possa collocarsi a cavallo dei confini di piø nazioni
politiche (Becattini, 1994).
Nella sua seconda versione, la nazione economica è invece un “blocco
di soggetti” racchiusi in uno stato-nazione (ad es. i minatori e i
proprietari delle miniere di carbone), oppure a cavallo di diversi stati-
nazione (ad es. la classe operaia), i quali riconoscono come coincidenti i
propri interessi economici fondamentali, in contrapposizione agli
interessi di analoghi blocchi del medesimo paese, o del mondo intero.
Questo secondo tipo di nazione economica ha sempre, a diversità del
primo, un suo governo, piø o meno esplicito, ed una sua politica estera,
piø o meno completa e coerente, che decide le alleanze con gruppi
analoghi e decreta la lotta. Ciò vuol dire che, in una relazione dialettica,
ci sarebbe per ogni nazione economica del secondo tipo, insieme al
contrasto di interessi tra masters e men, anche un “collante” comune,
che contrappone entrambi solidalmente, al resto della società. Tale
collante non è detto che sia lo stesso che lega gli abitanti di una stessa
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area, nØ quello che si suppone tenga insieme la classe operaia
internazionale, ma è certamente di quel genere (Steedman, 1986). Dalle
considerazioni precedenti, sembra opportuno chiedersi quale sia il senso
generale della ricerca marshalliana di una nazione economica distinta
dallo stato-nazione. Secondo Giacomo Becattini (2002), essa sembra
esprimere il rifiuto marshalliano di far derivare l’unità della ricerca
economica dalle entità del mondo reale quali gli stati-nazione e le
banali ripartizioni amministrative. In tal senso risulta difficile, infatti,
definire una nazione come una entità empirica. E’ il movimento
complessivo delle forze socio-economiche che definisce e ridefinisce in
continuazione l’unità di analisi, la quale è comunque una nazione
economica, ossia una pluralità di individui piø strettamente connessi
rispetto alla media, in una combinazione che resta imprecisata tra la
prima e la seconda versione data dallo stesso Marshall. Becattini
sostiene ancora che nel processo di classificazione, grande importanza
sia attribuita all’autopercezione individuale, ossia il modo di pensare
storico-relativo degli individui appartenenti a diversi paesi e strati
sociali. Si affaccia qui la possibilità di un ribaltamento della chiave di
lettura tipica dell’economista: dallo studio del comportamento
individuale sui mercati delle merci, l’identificazione delle quali
condiziona pesantemente le conclusioni derivabili dalla teoria
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economica, allo studio di comportamenti tipici di soggetti
rappresentativi nello spazio dei bisogni o dei desideri. Ovviamente,
questo approccio rinvia a raggruppamenti umani rappresentati da un
limitato numero di agenti, come gli abitanti di una determinata città, o
un certo numero di imprese, nel caso si parli di una popolazione di
imprese.
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Se tale modo di individuare i fenomeni sociali, prospettato nel giovane
Marshall, si fosse affermato pienamente, ne sarebbero seguite
importanti conseguenze, sia nella divisione del lavoro scientifico
relativo ai fenomeni sociali, quali la divisione degli studi sulla società in
economia, sociologia, antropologia e così via, sia negli ulteriori sviluppi
del pensiero strettamente economico.
1.1.2 L’uomo come entità variabile
La capacità marshalliana di vedere distretti, dove gli altri vedevano solo
banali agglomerazioni industriali, o di applicare il concetto smithiano di
divisione del lavoro ad entità diverse dal mondo nel suo insieme, si
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Un diretto riferimento a questa impostazione marshalliana è realizzato da A.C. Pigou, che
pone alla base della sua economia del benessere, la possibilità di concepire «componenti
rappresentativi di gruppi di individui come i cittadini di Birmingham o di Leeds» (1956).
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innesta profondamente nelle categorizzazioni del capitalismo esistente
al tempo del giovane Marshall. Almeno due sono i nuclei problematici
teorici che si incontrano nel concetto di distretto industriale: quello già
menzionato delle nazioni economiche e un secondo, piø profondo, che
proviene dagli studi sull’analisi della mente umana. Nella cosiddetta
“anomalia distrettuale”, così come affermato da Becattini
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, c’è un
richiamo trasparente alla concezione sociale e dinamica del processo di
crescita delle capacità intellettuali dell’individuo, quale motore
specifico della parte propriamente umana della storia naturale.
L’uomo, per Marshall, dunque si trasforma lavorando e si trasforma
diversamente in contesti organizzativi e sociali diversi. L’atmosfera
industriale, oltre ad essere il risultato di una osservazione disinibita dei
fatti, è dunque un simbolo della concezione marshalliana della
“coralità” e del radicamento storico del processo sociale di produzione-
educazione. Quest’ultimo altro non sarebbe che un aspetto della vita
sociale, localizzato nel tempo e nello spazio, considerato dal punto di
vista del soddisfacimento degli altri bisogni umani storicamente
percepiti (Becattini, 2002).
Di fronte agli economisti conservatori del tempo, che da un lato si
concentrano sul fondo salari e dall’altro sono accecati dalle economie di
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G. Becattini definisce “anomalia distrettuale” il complesso di idee che ruota attorno al
concetto di distretto industriale, in Anomalie Marhalliane, 2000.
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scala e dal sistema di fabbrica, Marshall mostra così, con un esempio
concreto – la formula distrettuale, appunto – che esiste una alternativa o
un completamento al potenziamento esosomatico del lavoratore: il suo
potenziamento produttivo endosomatico. In altri termini l’autore
sostiene che sia possibile completare l’insieme degli strumenti tangibili,
che il lavoratore possiede, affiancandovi gli strumenti intangibili di cui
lo stesso dispone, attraverso una azione, sui valori e sui saperi,
funzionale alla competitività del luogo con cui il lavoratore stesso si
identifica.
Altro aspetto caratteristico dell’analisi marshalliana è dato dal “gioco
dialettico” tra routines e innovazioni organizzative. La società, in modo
non molto dissimile dalla mente umana, alterna comportamenti
routinari a comportamenti innovativi; questi ultimi, se realizzati con
successo, tendono ad entrare nel patrimonio delle routines, liberando
nuove energie per l’innovazione (Raffaelli, 1994).
Marshall sposta così il fulcro dell’analisi economica dagli strumenti
esosomatici della produzione (macchine, impianti, ferrovie, ecc.), che
incorporano routines, e che sono appropriabili e cumulabili, a strumenti
endosomatici individuali, come le potenzialità intellettuali dell’uomo,
continuamente aperte all’innovazione ed inseparabili dal loro portatore,
o a beni collettivi come il capitale sociale, intrinsecamente non