Disabili nella Scuola e nel Mondo del Lavoro
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arrivare solo dopo essere state a lungo richieste,
riportando un notevole ritardo rispetto al manifestarsi
delle esigenze.
La storia del disabile grave sembra inevitabilmente
caratterizzata dall’urgenza e dalla persistenza di
aiuti, dalla necessità di dipendere dagli altri, avendo
poche o nulle capacità di dare.
Chiunque ha potuto conoscere direttamente o
indirettamente individui con deficit grave e anche
gravissimo (sensoriale, fisico, neuropsicologico,
comportamentale) i quali, pur manifestando un bisogno
di assistenza continua e la necessita di usufruire
delle protesi di vario genere, poiché muniti di buona
intelligenza, riescono a seguire proficuamente
l’attività scolastica o lavorativa.
Vi sono altri che, pur fortemente handicappati,
sono tuttavia così dotati, da saper esprimere modelli
di vita e di pensiero magistrali.
L’impegno ad investire in coraggio e fiducia non
riguarda solo il soggetto disabile, ma coinvolge tutti:
dalle figure genitoriali più da vicino investite, ai
parenti, amici, specialisti, professionisti che
incontrano la sua storia, al cittadino qualunque, che
condivide un’atmosfera culturale.
Dai risultati emersi in una ricerca scientifica ed
empirica, si è potuto dimostrare che i soggetti
diversabili se adeguatamente supportati con interventi
professionalmente, socialmente e organizzativamente
qualificati raggiungono buone capacità di maturazione,
buoni livelli di inserimento attivo nel mondo
scolastico, in quello sociale (culturale, sportivo,
ricreativo, ecc.), lavorativo, civico.
Ciò fa ribadire ancora una volta il significato
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varabile dell’attributo di “gravità”, che davvero non
sta solo nell’individuo ma spesso si origina
dall’interazione tra l’individuo e l’ambiente.
Da parecchio tempo l’handicappato fisico e mentale
ha ispirato di volta in volta rigetto, paura, vergogna,
disgusto o colpevolezza. Egli ha sempre saputo di
essere un uomo, anche quando gli altri vedevano in lui
solo il suo handicap. Ha dovuto imparare a convivere
con il suo handicap. Gli “altri”, i sani, hanno sempre
saputo che lui era un handicappato; ora essi devono
imparare a vederlo come una persona nella sua
integrità.
Nella Tesi, brevi note introduttive sono dedicate
alle definizioni di handicap che nel corso degli anni
hanno contribuito a mutare la terminologia e il modo
stesso di considerare l’handicap, passando dal termine
negativo e offensivo al temine diversabile, termine
positivo e propositivo, che ci suona bene, perché mette
in evidenza l’essere diversamente abili di molte
persone con problemi.
Nel secondo capitolo viene sinteticamente descritta
la tematica dell’integrazione scolastica dell’alunno
disabile nella scuola comune, presentandola come il
risultato di un’evoluzione legislativa verso una
maggiore integrazione che ha avuto il suo culmine nella
Legge Quadro n. 104 del 5 febbraio 1992. Affinché si
realizzi una vera e propria integrazione dell’alunno
disabile nella scuola bisogna che ci siano alcune
componenti. Innanzitutto la scuola si deve preparare
alla sua presenza, adattando i programmi ed attuando un
percorso educativo individualizzato rispondente ai suoi
bisogni particolari e che gli consenta di raggiungere
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gli obiettivi prefissati. Entra in campo allora la
figura dell’insegnante di sostegno, il cui ruolo
fondamentale è quello di fungere da punto di raccordo
fra il disabile, la classe e gli insegnanti, e fra la
scuola e la famiglia. Inoltre si sottolinea
l’importanza del supporto fornito dagli stessi compagni
di classe, grazie ai quali è possibile realizzare forme
di tutoring e di apprendimento cooperativo che creano
un clima favorevole all’apprendimento. Anche gli alunni
normodotati, d’altro canto, traggono degli enormi
benefici dal rapporto con un compagno disabile, a
partire da una maggiore consapevolezza della diversità.
L’attività di studio, riportata nei successivi
capitoli affronta:
☯ il problema dell’integrazione lavorativa del
diversabile facendo riferimento al “collocamento
mirato” introdotto con il D.L. n.68 del 99;
☯ brevi note sull’art. 14 della legge Biagi;
☯ l’integrazione nel contesto sociale del diversabile
con riferimento a fattori che molto spesso
ostacolano l’integrazione quali le barriere
architettoniche e quelle psicologiche.
Nell’ultima parte della tesi viene riportata una
valutazione dei dati emersi da un’indagine dell’Istat
condotta nel 2004 sulle persone con disabilità.
Mi sento di affermare che oggi sono cambiate molte
cose, c’è un’apertura maggiore verso il problema
disabilità, un interesse più profondo verso quelli che
sono i sogni delle persone in cerca di una Vita
Indipendente, anche se il lavoro che deve esser fatto è
ancora tantissimo.
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Una strada verso la realizzazione di questo sogno
risiede negli ausili, nel poter mettere a disposizione
di ogni persona l’opportunità di esprimersi e
realizzarsi al di la dei propri limiti facendo uso
anche della tecnologia; nel riuscire ad eliminare o
almeno arginare quel deficit che impedisce al disabile
di rapportarsi con la società e quindi restituirgli
quella vita che gli era stata distorta dal destino.
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CAPITOLO I
GLI ASPETTI GENERALI DELL’HANDICAP
HANDICAP DALLE ORIGINI PIÙ REMOTE
Nell’illuminismo l’anormale non era inteso più come
mostro ma come “diverso da me”.
Nella rappresentazione religiosa la malattia e la
malformazione sono segni ambivalenti: allo stesso tempo
segni del peccato e della giusta espiazione.
Volendo risalire alle origini più remote si
possono addirittura citare esempi celebri come
l'assassinio sistematico dei bambini deformi nella
Sparta del IX secolo avanti Cristo, o la "selezione
naturale" attuata nell'antico Egitto, dove i malati
cronici venivano fatti arrampicare su di un albero in
attesa che i più deboli, una volta venute meno le
loro forze, lasciassero la presa schiantandosi al
suolo. Anche la Roma imperiale privava i disabili dei
diritti più elementari, non essendo essi in grado di
contribuire alla forza bellica dell'impero.
La posizione della chiesa è stata per secoli fonte
di emarginazione ed esclusione, fin da quando, nel
Vecchio Testamento, la lebbra viene riconosciuta come
castigo divino. Negli anni bui dell'inquisizione si
fa strada l'immagine del disabile o del "pazzo" come
di un uomo sotto il controllo del demonio, con tutte
le conseguenze che questo poteva comportare al tempo.
Ma è il profondo cambiamento del processo produttivo,
e l'affermarsi di quei valori che saranno all'origine
del successo sociale della borghesia, che determina
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la definitiva collocazione del portatore di handicap
al di fuori della società. Nel momento in cui i
valori della ragione e del profitto prendono il
sopravvento, chi non è in grado di partecipare con
efficienza al progresso economico e sociale viene
visto come ostacolo, come oppositore da cui
difendersi attraverso la pratica consueta
dell'esclusione, e dell’emarginazione, non solo a
livello sociale, ma anche a livello fisico.
Per la rappresentazione pietistica che la chiesa ha
dell’handicappato esso diventa il segno della disgrazia
e del peccato che solo la chiesa, come salvatrice
universale può curare.
Scatta in questa prospettiva una sorta di
accettazione condizionata dell’handicappato che si
esprime anche attraverso la creazione di contenitori
specifici. Pensiamo a tutte le esperienze di
accoglienza che la chiesa ha contribuito a far nascere
con le grandi istituzioni religiose a favore degli
handicappati.
Comunque l’influenza di un’impostazione pietistico
religiosa con la sua visione dell’handicappato come
segno del peccato e, al tempo stesso della redenzione
dal peccato attraverso la sua cura, è ancora
intensamente presente.
Alla rappresentazione pietistico religiosa si
sovrappone poco a poco una nuova rappresentazione
quella prodotta dalla cultura positivista.
Con lo sviluppo del processo di industrializzazione
e con l’affermazione dei nuovi valori espressi dalla
nascente borghesia si sostituì nell’immaginario
collettivo la rappresentazione dell’handicappato come
persona segnata e bisognosa di pietà con quella di
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persona malata bisognosa di essere curata e
normalizzata.
Sorgono in questo periodo sempre più numerose le
istituzioni che, nel rispondere ad un compito di cura e
normalizzazione diventano in effetti sempre più
autosufficienti ed escludenti: orfanotrofi, manicomi,
istituti. In questa opera di normalizzazione lo stato
affianca e, in alcune situazioni, sostituisce l’opera
della chiesa. Sarà questa una delle rappresentazioni
che porteranno ad acuire la sensibilità per i problemi
educativi dei minorati psichici e fisici che apriranno
un nuovo periodo nella rappresentazione collettiva
della figura dell’handicappato.
Per cogliere questa nuova fase dobbiamo giungere a
profondi mutamenti socio economici successivi alla
seconda guerra mondiale. Assistiamo in questo periodo
anche a un profondo cambiamento dell’atteggiamento
delle famiglie dei portatori di handicap.
Le maggiori disponibilità economiche, i fenomeni di
inurbamento, la scuola pubblica obbligatoria, un
diffuso programma di assistenza sociale, sono alcune
delle condizioni che consentono alle famiglie di
acquisire un ruolo attivo attraverso le associazioni.
Le famiglie rivendicano interventi specialistici,
nascono infatti in questo periodo le grandi
associazioni in difesa degli handicappati e si assiste
ad una nuova modalità di intervento fatta
sostanzialmente di cure e protezione.
La cultura protettivo familiare contribuisce a
costituire una nuova immagine dell’ handicappato: non
più il mostro da eliminare, l’idiota da osservare, il
peccatore da salvare o il malato da normalizzare, ma
piuttosto il bambino da proteggere.
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La cultura dell’infantilizzazione dell’handicappato
diventa una sorta di attitudine collettiva che si
trascina ancora come rappresentazione prevalente
nell’immaginario collettivo odierno.
L’infantilizzazione della persona con handicap, o
meglio, la rappresentazione collettiva
dell’handicappato come eterno bambino, è coerente con
un’organizzazione sociale che, non prevedendo ruoli
sociali attivi nel mondo degli adulti per le persone
disabili, non può prevederne neppure la crescita e lo
sviluppo. L’infantilizzazione è l’eccesso di protezione
della famiglia verso un figlio handicappato.
Necessita uno spostamento di attenzione da quelli
che sono i problemi della persona con handicap a quelli
che sono i suoi bisogni “di normalità”; occorre
sostanzialmente uno spostamento dell’attenzione dalle
parti malate o immature dell’handicappato alle parti
sane della persona.
Questa nuova rappresentazione della persona con
handicap, è il risultato di tutta l’azione di
inserimento nella scuola dell’obbligo.
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EVOLUZIONE NELL’USO DEI TERMINI: DA HANDICAPPATI A PERSONE
CON DISABILITÀ
Da molti anni ormai, nel linguaggio quotidiano i
termini handicappato, disabile, portatore di handicap,
sono diventati vocaboli di uso comune, sinonimi di meno
bello, meno abile, meno intelligente, meno produttivo,
meno capace, meno competitivo, quasi sempre riferito ad
un qualcosa da evitare, ignorare, o da assistere,
accudire, spesso viene utilizzato come termine
offensivo nei confronti di qualcuno che non ce la fa.
La genesi della parola handicap è inglese e si
traduce in italiano con svantaggio. Termine utilizzato
nel mondo dell’equitazione per svantaggiare un fantino
abile e veloce dando anche agli altri concorrenti la
possibilità di vincere la gara.
Dal significato della parola emerge che le
difficoltà, le carenze non sono presenti nella persona
ma vi è una imposizione di carenze e difficoltà da
parte della società quando essa nega alla persona con
disabilità la possibilità di competere alla pari o di
vivere alla pari.
Per meglio capire cosa si intende per handicap è
molto utile fare riferimento alla definizione fornita
nel 1980 dall’O.M.S. che definisce l’handicap come una
condizione di svantaggio che in un certo soggetto
limita o impedisce lo svolgimento di una funzione
ritenuta normale per tale individuo in rapporto al
sesso, età e condizioni socio culturali.
La definizione fornita dall’O.M.S. è stata
criticata da molte organizzazioni di persone con
disabilità per il suo carattere troppo medico e troppo
concentrato sull’individuo, ignorando le imperfezioni e
le deficienze del contesto sociale e ambientale.
Per questo motivo l’O.N.U. nel 1993 ha emanato
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nuove definizioni sull’handicap e la disabilità che
tenevano conto delle critiche.
Handicap: perdita o limitazione delle opportunità
di partecipare alla vita della comunità allo stesso
livello degli altri.
Ponendo cosi l’accento sull’importanza
dell’ambiente e delle attività organizzate nella
società, come l’informazione, la comunicazione e
l’educazione, che possono permettere o impedire alle
persone con disabilità di partecipare in termini
paritari.
Disabilità: il termine disabilità riunisce un gran
numero di diverse limitazioni funzionali. Le persone
possono essere disabili a causa di menomazioni fisiche,
intellettive o sensoriali, condizioni mediche o
malattia mentale. Tali menomazioni, condizioni o
malattie possono essere permanenti o transitorie.
Diversi sono i termini utilizzati per sottolineare
la presenza di un deficit:
¾ in-abile
¾ disabile
¾ portatore, ecc.
Questi termini hanno il pregio di rendere l’idea ma
ne lasciano trasparire un’altra poco corretta a tratti
negativa della persona. Sicuramente la presenza di un
deficit può ledere alcune abilità del soggetto ma con
un adeguato programma educativo e la disponibilità di
ausili, una persona con deficit può essere abile in
modo diverso, raggiungendo in parte o totalmente gli
stessi obiettivi della persona normale.
Per questo motivo l’O.N.U. non parla più di
handicappato ma di persona con disabilità.
Persona con disabilità (al posto del bruttissimo e
purtroppo ancora troppo spesso usato portatore) sta ad
indicare che al di là di una o più disabilità, anche
gravi, esiste la persona, con il suo bagaglio di limiti
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ed ombre, ma anche di splendori, desideri, volontà, e
con tutti i diritti che, almeno a parole, il sistema
sociale garantisce alle persone, ai cittadini, per il
solo fatto di esistere, essere nati.
Per questo il termine giusto da utilizzare per
indicare una persona con deficit è Diversabile.
Diversabile è un termine propositivo e positivo,
che ci suona bene, perché mette in evidenza “l’essere
diversamente abili” di molte persone con deficit,
rispetto al termine inabile, invalido che parla
espressamente di mancanza di validità, di mancanza di
valori.
Il termine diversabile non mira a discriminare
nessuno, anzi ha come fine quello di riconoscere ad
ogni individuo la possibilità di esistere, di evolversi
e di contribuire al processo di crescita collettiva
nonostante la disabilità.
Giustamente si potrà obiettare che le persone con
disabilità sono molte di più di quanto normalmente si
immagini.
Una persona con disabilità è:
un bambino
un anziano
una donna in attesa di un figlio
un obeso
è insomma chiunque non possiede una o più delle
caratteristiche riconosciute come indispensabili per
formare quel insieme di qualità potenziali (forza,
velocità, autonomia, ecc.) che identificano la persona
“media”.
La situazione di handicap non può essere
considerata come concetto statico e assoluto ma
dev’essere valutata anche in relazione alla situazione
culturale e all’ambiente sociale in cui il soggetto
vive.
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Esempio: una disabilità motoria in una società
tecnologicamente avanzata non ha lo stesso peso che
potrebbe avere in una società fondata sul lavoro
agricolo dove al contrario un lieve ritardo
intellettivo potrebbe passare quasi totalmente
inosservato.
L’handicap d’altra parte non va confuso con il
cosiddetto svantaggio socio-culturale o disadattamento
cioè con una situazione che deriva prettamente da
fattori sociali.
In particolare negli ultimi anni si è assistito ad
un fortissimo mutamento sociale e culturale del modo di
percepire la disabilità. Un cambiamento profondo che si
è verificato sia all’interno che all’esterno di questo
mondo.
All’interno è cambiato il modo in cui i disabili
percepiscono e vivono la propria condizione, le proprie
relazioni sociali, le possibilità di realizzarsi e
costruirsi un futuro.
All’esterno, sradicando pregiudizi e paure e
creando una società più aperta, più disponibile, in
grado di riconoscere diritti e bisogni una volta
impensabili per i portatori di handicap. Esiste però
ancora una parte di società che non la pensa cosi e che
ancora non ha molta fiducia in queste persone.
C’è una tendenza ad etichettare la gente diversa
come “malata”, ed in quanto malata non deve lavorare ed
è esentata dai normali obblighi della vita. Finché i
disabili sono considerati malati ci sarà poca
comprensione verso di loro.
Fino a quando la società continua a credere che il
problema risiede nel disabile non sarà accessibile, a
misura di questi ultimi.
La disabilità quindi è un problema politico, una
questione d’ineguale distribuzione del potere non un
problema medico o tecnico.
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L’ INTEGRAZIONE SOCIALE DEI DISABILI – (CARATTERISTICHE GENERALI)
In molti paesi del mondo l’integrazione delle
persone handicappate nella società e nella cultura è
viva e articolata.
Essa non può essere pensata come un processo statico
ma come una tensione continua. L’integrazione è un
processo attivo che coinvolge a vario titolo tutti i
componenti di un gruppo e tutti gli elementi di un
contesto.
Per integrazione si intende un processo attivo,
dinamico da costruire ed attuare nel tempo poiché in
continua prospettiva di cambiamento, in cui sono
coinvolte la famiglia, la scuola, l’AUSL, gli enti
locali, i costituiti ambiti territoriali e le
associazioni di volontariato.
L’integrazione permette alla persona con handicap di
poter vivere con autonomia la propria vita. Questo è
reso possibile grazie alla formazione professionale,
all’inserimento lavorativo protetto e ai percorsi
scuola-lavoro, dove la persona oltre ad aumentare la
sua autonomia impara un mestiere che gli permette di
entrare nella società rivestendo un ruolo.
Sembra opportuno chiarire il significato di
integrazione che è concetto inclusivo, di inserimento
(dal latino inserire = innestare), ma significa anche
completamento, arricchimento e si caratterizza, in
termini qualitativi, in relazione alle opportunità di
sviluppo umano, sociale, intellettuale e anche
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riabilitativo e terapeutico, che vengono offerte dall’
ambiente ossia scuola, società e mondo del lavoro.
Integrazione significa anche avere le opportunità di
passare attraverso normali esperienze evolutive del
ciclo di vita: nell’ infanzia, con il bisogno di
sicurezza ed il susseguirsi delle fasi dello sviluppo;
nell’età scolare con l’esplorazione e l’aumento di
abilità e di esperienze; nell’adolescenza con la
maturazione delle scelte della vita adulta.
L’ integrazione nella scuola e oltre la scuola come
nella famiglia, nella società e poi nel mondo del
lavoro richiede di essere considerata in maniera
contestualizzata poiché è la persona al centro
dell’attenzione.
Il portatore di handicap viene considerato ben
integrato quando viene visto come una persona
socialmente competente, attiva, capace nei vari aspetti
del comportamento adattativo (comportamentale, sociale,
personale) e nelle varie abilità funzionali
raggiungendo cosi un buon livello di qualità di vita.
Molto importante per l’integrazione del soggetto
portatore è l’abbattimento delle barriere
architettoniche. Abitualmente parlando di barriere
pensiamo ad ostacoli di tipo fisico (le barriere
architettoniche); a tali ostacoli se ne aggiungono
altri, le barriere psicologiche e le barriere sociali.
Le barriere psicologiche hanno a che fare con l’impatto
che la disabilità ha sul soggetto stesso e sulle
persone che lo circondano.
Le limitazioni che la menomazione comporta possono
essere accettate in diversa misura dai soggetti
interessati. Nel corso di tutto l’arco di vita,
l’individuo si trova a far fronte ad eventi critici.