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Capitolo II
La giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo e la
situazione delle carceri italiane: il caso Sulejmanovic c. Italia
1. Premessa.
In ambito europeo, la tutela della dignità umana contro la tortura e altri
trattamenti degradanti è garantita principalmente dalla Corte europea dei Diritti
dell'Uomo, istituita nel 1959 per assicurare il rispetto della Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell'Uomo e delle libertà fondamentali.
La Corte, attraverso la sua giurisprudenza, ha più volte sottolineato come l'art.
3 consacri uno dei valori fondamentali delle società democratiche, un principio
assoluto e inviolabile anche in presenza di circostanze molto difficili quali la lotta al
terrorismo e alla criminalità organizzata
1
. Sugli Stati membri incombono obblighi
negativi, di astensione: non sottomettere i detenuti a condizioni di detenzione che
costituiscano trattamento contrario all'art. 3; ed obblighi positivi, di azione:
assicurare condizioni di detenzione conformi alla dignità umana.
2. La giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
La Corte, attraverso la sua giurisprudenza, ha applicato l’art. 3 sviluppando dei
criteri specifici di interpretazione, quali il criterio della “soglia minima di gravità (o
di sofferenza)” e il criterio della “valutazione relativa”
2
:
Il criterio della soglia minima di gravità è stato definito chiaramente per la prima
volta dalla Corte nel caso Irlanda c. Regno Unito del 1978
3
. Nella fattispecie, la
Corte era stata chiamata a giudicare alcuni episodi di violenza subiti da presunti
appartenenti all’organizzazione indipendentista nord-irlandese dell’IRA (Irish
Republican Army), in alcuni centri speciali per la conduzione degli interrogatori,
istituiti in Gran Bretagna a seguito dell’emanazione della legislazione
1 Sentenza Aksoy c. Turchia, 18 dicembre 1996, ricorso n. 21987/93, in Recueil 1996-VI ; sentenza
Chahal c. Regno Unito, 15 novembre 1996, ricorso n. 22414/93, in Reports of Judgments and
Decisions 1996-V; sentenza Khashiyev e Akayeva c. Russia, 24 maggio 2005, ricorso n. 57942/00 and
57945/00.
2
M. FORNARI, L’art. 3 della Convenzione europea sui diritti umani, in L. PINESCHI (a cura di), La
tutela internazionale dei diritti umani. Norme, garanzie, prassi, Giuffrè editore, Milano, 2006, p.355.
3
Sentenza Irlanda c. Regno Unito, 18 gennaio 1978, ricorso n. 5310/71, in Series A. n. 25.
25
antiterrorismo allora vigente. La polizia, in quell’occasione, aveva estorto delle
confessioni dai detenuti tramite le c.d. cinque tecniche di privazioni sensoriale,
consistenti nell’incappucciamento, nell’assoggettamento a continuo rumore,
nella privazione del sonno e nella negazione di cibo e bevande, nonché
nell’obbligo di rimanere in piedi per lunghi periodi di tempo. Inoltre, alcuni di
essi nel corso degli interrogatori erano stati percossi e sbattuti violentemente
contro un muro. Per valutare i fatti in questione la Corte si è basata su un livello
minimo di gravità che il maltrattamento deve raggiungere (al di sotto del quale
non è possibile evidentemente parlare di violazione dell’art.3). Nella fattispecie
la Corte ha stabilito che le tecniche di privazione sensoriale, eseguite con
premeditazione e simultaneamente, costituivano trattamenti inumani e
degradanti
4
.
“Più precisamente: erano trattamenti “inumani”, in quanto avevano causato
ai detenuti, se non delle vere e proprie lesioni, quanto meno delle acute
sofferenze fisiche e morali, oltre a intensi disturbi psichici; erano trattamenti
“degradanti”, poiché avevano provocato nelle vittime sentimenti di paura,
angoscia e inferiorità tali da umiliarli e spezzare la loro resistenza fisica e
morale”
5
.
Da ciò si può dedurre che la Corte, nel valutare un trattamento o pena disumana,
consideri maggiormente rilevanti le sofferenze fisiche, mentre nel valutare un
trattamento o pena degradante ponga maggiore intenzione alle sofferenze psichiche e
morali. La Corte ha così definito una sorta di gerarchia tra i trattamenti vietati
dall’art. 3: - il livello inferiore è costituito dalle pene o trattamenti degradanti; - il
livello intermedio dai trattamenti e dalle pene inumane: - il terzo livello dalla tortura.
La tortura è quindi considerata nel contempo un trattamento disumano e degradante
6
.
4
Ibid., p. 356.
5
Ibid.
“The five techniques were applied in combination, with premeditation and for hours at a stretch; they
caused, if not actual bodily injury, at least intense physical and mental suffering to the persons
subjected thereto and also led to acute psychiatric disturbances during interrogation. They
accordingly fell into the category of inhuman treatment within the meaning of Article 3. The
techniques were also degrading since they were such as to arouse in their victims feelings of fear,
anguish and inferiority capable of humiliating and debasing them and possibly breaking their physical
or moral resistance”. Sentenza Irlanda c. Regno Unito.
6
Ibid., pp. 355 e ss.
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La Corte ha osservato che la valutazione della soglia minima di gravità è
necessariamente relativa: l’accertamento del raggiungimento di questo limite
deve perciò essere effettuato in modo empirico, tenendo conto sia del
comportamento materiale, sia delle condizioni soggettive della vittima. La
determinazione della soglia di gravità dipende da vari fattori, quali le modalità di
esecuzione del trattamento o della pena, la sua durata, l’età, il sesso e lo stato di
salute della vittima: un soggetto debole (un anziano o un bambino) subirà
sofferenze fisiche e mentali più acute. Il criterio della valutazione relativa, come
sottolineato dalla Corte, non è un criterio statico. Essa, attraverso la sua
giurisprudenza, ha chiarito come la Convenzione sia uno strumento vivente, che
deve essere interpretato alla luce delle condizioni e delle circostanze attuali. Nel
caso Tyrer c. Regno Unito, sentenza del 25 aprile 1978
7
, la Corte afferma:
“The Court must also recall that the Convention is a living instrument which,
as the Commission rightly stressed, must be interpreted in the light of
present-day conditions”.
La valutazione della soglia minima di gravità quindi è basata su due fattori: i
“parametri interni” riferiti al caso in esame, tengono conto di natura e durata del
trattamento, conseguenze fisiche e psichiche prodotte, condizione personale della
vittima; i “parametri esterni” considerano elementi statici nel medio - lungo termine,
come la sensibilità giuridica e morale delle società degli Stati parti alla Convenzione
e le condizioni socio-politiche in cui il caso si inserisce
8
.
L'art. 3, nonostante si focalizzi sul divieto di tortura o altri trattamenti inumani o
degradanti, non contempla solo questi divieti. Numerose sentenze della Corte hanno
infatti ampliato la portata dello stesso: nella sentenza H.L.R c. Francia, del 29 aprile
1997
9
, la Corte ha sancito che la violazione dell'art. 3 esiste anche quando il rischio
di subire torture o altri trattamenti inumani proviene da un’entità non statale; nella
7
Sentenza Tyrer c. Regno Unito, 25 aprile 1978, ricorso n. 5856/72, in Series A. n. 26.
8
Ibid., pp. 359 e ss.
9
Sentenza H.L.R c. Francia, 29 aprile 1997, ricorso n. 24573/94, in Reports of Judgments and
Decisions, 1997- III.
27
sentenza Salah Sheekh c. Paesi Bassi, dell'1 gennaio 2007
10
, la Corte ha riconosciuto
la violazione dell'art. 3 nel caso in cui un intero gruppo etnico sia sottoposto a
maltrattamenti e il singolo, nella fattispecie, mostri un rischio ulteriore; con la
sentenza N. c. Regno Unito del 15 Maggio 2008
11
, inoltre il divieto alla tortura o altri
trattamenti degradanti risulta essere violato quando uno straniero malato viene
rinviato in un paese dove non può ricevere le cure adeguate.
Anche il principio di non-refoulement rientra tra le violazioni dell'art. 3 della
Convenzione: con la sentenza Saadi c. Italia, del 28 febbraio 2008
12
, la Corte ha
riaffermato il carattere assoluto del divieto di estradizione nel Paese di origine. Nella
fattispecie in esame la Corte, considerando la mancanza di assicurazioni
diplomatiche da parte delle autorità tunisine di adeguata protezione dal rischio di
maltrattamento irrispettoso delle previsioni dell'art. 3 della CEDU, ha affermato che
la sua espulsione avrebbe costituito una violazione dello stesso. Nell'ambito della
lotta al terrorismo, il principio di non-refoulement è stato spesso violato
13
. Gli Stati
hanno addotto a sostegno dei loro comportamenti la necessità di bilanciare il rischio
che una persona possa essere sottoposta a trattamenti contrari all'art. 3 con
considerazioni inerenti alla pericolosità che la stessa rappresenta per la comunità:
motivazione rigettata dalla Corte che ancora una volta ha sancito l'inderogabilità del
divieto alla tortura.
Recentemente la Corte si è pronunciata, sempre in merito alla presunta
violazione dell'art. 3, su ricorsi presentati da detenuti, che ritengono violata la loro
dignità umana, durante l'arco della permanenza in carcere a causa delle crisi di
sovraffollamento
14
.
10
Sentenza Salah Seekh c. Paesi Bassi, 1 gennaio 2007, ricorso n. 1984/04, selected for publication
in Reports of Judgments and Decisions.
11
Sentenza N. c. Regno Unito, 15 maggio 2008, ricorso n. 26565/05, in Reports of Judgments and
Decisions.
12
Sentenza Saadi c. Italia, 28 febbraio 2008, ricorso n. 37201/06, selected of publication in Reports of
Judgments and Decisions.
13
Il ricorso, sempre più frequente, di ordini di espulsione senza revisione giudiziale, privi di
protezione contro il respingimento verso Paesi che praticano la tortura, ha allarmato anche il Comitato
delle Nazioni Unite contro la Tortura, il quale ha espresso la sua preoccupazione. United Nations
Committee against Torture, Italia: Conclusions and Recommendations, CAT/C/ITA/CO/4, May 18,
2007.
14
Sul punto vedi, sentenza Aleksandr Makarov c. Russia, 12 marzo 2009, ricorso n. 15217/07;
sentenza Lind c. Russia, 6 dicembre 2007, ricorso n. 25664/05; sentenza Sulejmanovic c. Italia, 6
novembre 2009, ricorso n. 22635/03.
28
Infatti, “Dagli anni Ottanta del Novecento si è registrato in quasi tutte le
democrazie avanzate un aumento della popolazione penitenziaria. Alcuni
sostengono, a partire dai dati delle Nazioni Unite sulla detenzione nel mondo, che il
fenomeno della crescita della popolazione reclusa ha una dimensione globale”
15
.
3. Il sovraffollamento delle carceri italiane: il caso Sulejmanovic c. Italia.
La situazione disastrosa delle carceri italiane, caratterizzate dalla piaga del
sovraffollamento, è stata motivo di una condanna da parte della Corte europea dei
diritti dell’uomo: con la sentenza definitiva del 6 Novembre 2009 (ricorso n.
22635/03)
16
, l'Italia è stata infatti condannata dalla Corte di Strasburgo al
risarcimento dei trattamenti degradanti subiti dal detenuto bosniaco Sulejmanovic,
durante la permanenza nel carcere di Rebibbia dal novembre 2002 all'aprile 2003.
Alla base della condanna, così come emerso dalle dichiarazioni del ricorrente
(detenuto per furto aggravato, tentato furto, ricettazione e falsità in atti), si collocano
le gravissime condizioni in cui versava (e versa tutt'oggi) il sistema carcerario
italiano. Nello specifico, il carcere di Rebibbia previsto per 1.271 detenuti, all'epoca
della reclusione del ricorrente ospitava tra 1.450 e 1.660 persone: il detenuto fu così
costretto, seppur per un periodo relativamente breve di due mesi e mezzo, a dividere
la cella con altre sei persone, in uno spazio che non risulta conforme agli standards
stabiliti dal Comitato per la prevenzione della tortura. Inoltre, stando a quanto
dichiarato dal ricorrente, questi trascorreva più di diciotto ore e trenta minuti ogni
giorno chiuso nella cella, con la possibilità quindi di potervi uscire limitata a quattro
ore e trenta minuti. Il Sulejmanovic, durante la detenzione, chiese due volte di poter
lavorare e questa possibilità gli fu negata, in violazione delle regole penitenziarie
europee approvate dal Consiglio d'Europa (Raccomandazione R(2006)2 del Comitato
dei Ministri agli Stati membri) e degli articoli 15 e 20 della legge n. 354 del 1975
17
15
M. PA VARINI, Uno sguardo ai processi di carcerazione nel mondo: dalla “ronda dei carcerati” al
“giromondo penitenziario”, Rassegna penitenziaria e criminologica, 1-3 (2002).
16
Sentenza Sulejmanovic c. Italia, 6 novembre 2009, ricorso n. 22635/03.
17
Legge 26 luglio 1975 n. 354, pubblicata in GURI, 9 agosto 1975, n. 212, S.O., art. 15: “Il
trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del
lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti
con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di
impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro. Gli imputati sono ammessi, a loro
richiesta, a partecipare ad attività educative, culturali e ricreative e, salvo giustificati motivi o
contrarie disposizioni dell’autorità giudiziaria, a svolgere attività lavorativa o di formazione
29
che sanciscono il diritto al lavoro, in assenza di impossibilità oggettive. Risultano
quindi molteplici le violazioni perpetrate all'interno del carcere.
Facendo riferimento al diritto interno italiano e in particolare all'art. 6 della
legge n. 354 del 26 luglio 1975, cosiddetta legge sull'ordinamento penitenziario, e
agli art. 6 e 7 del decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 30 giugno 2000
18
(recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative
della libertà), e ai documenti internazionali, quali la raccomandazione Rec(2006)2
19
del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri sulle regole
penitenziarie europee, adottata l'11 Gennaio 2006, la Corte rammenta che l'art. 3
rappresenta uno dei valori fondamentali delle società democratiche, e che esso
impone allo Stato di assicurarsi che i detenuti siano custoditi in condizioni
compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della
misura non sottopongano l'interessato a difficoltà o a prove di intensità tale da
professionale, possibilmente di loro scelta e, comunque, in condizioni adeguate alla loro posizione
giuridica”.
Ai sensi dell’art. 20: “Negli istituti penitenziari devono essere favorite in ogni modo la destinazione
dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro partecipazione a corsi di formazione professionale. A
tal fine, possono essere istituite lavorazioni organizzate e gestite direttamente da imprese pubbliche o
private e possono essere istituiti corsi di formazione professionale organizzati e svolti da aziende
pubbliche, o anche da aziende private convenzionate con la regione. Il lavoro penitenziario non ha
carattere afflittivo ed è remunerato. [..] L’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono
riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di fare acquisire ai soggetti una preparazione
professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale.
[…]”.
18
L'art. 6 della legge n. 354 del 26 luglio 1975 recita: “I locali nei quali si svolge la vita dei detenuti
devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con la luce naturale e artificiale in modo da
permettere il lavoro e la lettura: areati, riscaldati ove le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di
servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale [..]”.
L'art. 6 del decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 30 giugno 2000, in GURI 22 agosto
2000, n. 195, S.O. n. 131, prevede: “I locali in cui si svolge la vita dei detenuti [..] devono essere
igienicamente adeguati. Le finestre delle camere devono consentire il passaggio diretto di luce e aria
naturali. Non sono consentite schermature che impediscano tale passaggio. Solo in casi eccezionali e
per dimostrate ragioni di sicurezza, possono utilizzarsi schermature […]”.
L'art. 7 del decreto del Presidente della Repubblica n. 230 del 30 giugno del 2000, ivì pubblicato,
recita: “I servizi igienici sono collocati in un vano annesso alla camera. I vani in cui sono collocati i
servizi igienici forniti di acqua corrente, calda e fredda, sono dotati di lavabo, di doccia e, in
particolare negli istituti o sezioni femminili, anche di bidet, per le esigenze igieniche dei detenuti
[..]”.
19
La seconda parte della Raccomandazione Rec(2006)2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri
sulle regole penitenziarie europee è dedicata alle condizioni detentive. “[...] 18.1 I locali di detenzione
e,in particolare, quelli destinati ad accogliere i detenuti durante la notte, devono soddisfare le
esigenze di rispetto della dignità umana e, per quanto possibile, della vita privata,e rispondere alle
condizioni minime richieste in materia di sanità e di igiene, tenuto conto delle condizioni climatiche,
in particolare per quanto riguarda la superficie, la cubatura d'aria, l'illuminazione, il riscaldamento e
l'aerazione. [..] 18.3 La legislazione nazionale deve definire le condizioni minime […]. 18.4 Il diritto
interno deve prevedere dei meccanismi che garantiscano il rispetto di queste condizioni minime,
anche in caso di sovraffollamento carcerario [..]”.