pensiero, tradizionalisti, modernisti e fondamentalisti, che
interpretano in maniera diversa la dottrina islamica.
L’interpretazione della dottrina islamica varia nel tempo e
nello spazio, in quanto diverse interpretazioni si sono
succedute nella storia e diverse interpretazioni caratterizzano
l’ opinione pubblica contemporanea nei vari paesi musulmani.
E’ quindi facile cadere in generalizzazioni estremamente
riduttive quando si parla di “una” condizione della donna nel
mondo musulmano. Essa è almeno tanto varia, quanti sono i
paesi musulmani. La dottrina islamica è complessa ed
altrettanto complessa ne è l’applicazione nel mondo
contemporaneo.
A proposito del secondo pregiudizio, che l’inferiorità della
donna sarebbe sancita dal Corano, osserviamo che nel ruolo
riconosciuto oggi alla donna nei paesi musulmani vi è ben
poco di specificatamente islamico.
Oltretutto, nel giudicare la condizione della donna nei paesi
musulmani occorre prendere atto del fatto che l’Islam
diffusosi in Asia e Africa si è sovrapposto a culture ed usanze
preislamiche che non si sono completamente estinte, ma anzi
sono sopravvissute all’Islam. Molti aspetti della condizione
femminile nei paesi asiatici e africani non sono quindi
direttamente riconducibili alla religione islamica. Non è
quindi al Corano che deve essere imputato il carattere
androcratico della società in cui la donna musulmana si trova
ad esistere, tanto più che i versetti coranici che garantiscono
parità tra i sessi sono di fatto raramente osservati. La
subordinazione della donna, nei paesi musulmani come
altrove, va piuttosto attribuita alle restrizioni sociali che la
perpetuano, effetto e causa di norme sociali androcratiche
indipendenti dall’osservanza dei precetti religiosi:
analfabetismo e mancata partecipazione femminile alle attività
economiche monetarizzate.
La donna araba costituisce il massimo della differenza, o
almeno così siamo stati abituati a credere. Abbiamo cioè
interiorizzato un modello di relazioni fra “noi” (Occidente) e
“loro” (Oriente) che esotizza gli arabi e/o musulmani. Per
molti aspetti, il mondo islamico costituisce un “altro
Occidente”, sviluppatosi parallelamente al nostro che,
peraltro, è già ampliamente diversificato al proprio interno:
Europa, Giappone, USA non sono evidentemente la stessa
cosa.
L’Islam è Occidente sia a causa delle sue origini (una sintesi
culturale straordinaria fra l’apporto arabo iniziale e, fra le
altre, la cultura greco-romana assimilata dai Bizantini), sia per
le vicende storiche degli ultimi due secoli: l’ esperienza
coloniale ha prodotto nel mondo arabo trasformazioni,
costringendo gli arabi a un meticciato culturale con l’ Europa.
Noi, però, continuiamo ad enfatizzare le differenze per
definire la nostra identità, quindi esotizziamo sempre e
comunque.
E ci immaginiamo povere donne musulmane schiave della
poligamia, ad esempio. Se andassimo però a verificare i fatti,
scopriremmo che, in media, negli anni ottanta nel mondo
arabo solo in due paesi, Arabia Saudita e Sudan, la
percentuale di poligami fra i maschi supera il 10%: Il che
significa che in tutti gli altri paesi arabi la percentuale è
inferiore a tale cifra, cioè che vi è almeno un 90% di maschi
monogami. Oppure le immaginiamo sempre e comunque
velate ( o meglio, con il chador: indumento solo iraniano che,
però, pensiamo essere indossato da ogni musulmana del
pianeta), anche contro la loro volontà repressa di
liberazione.Occorre quindi liberarsi dei pregiudizi, dei luoghi
comuni e cercare di scavare nella realtà della donna araba.
Il primo sforzo da compiere è precisare nello spazio e nel
tempo l’ oggetto del nostro discorso. Non esiste la “donna
araba”: esistono donne arabe estremamente diverse fra loro a
seconda del luogo in cui vivono e del periodo storico in cui si
trovano ad operare.
L’Islam come tutte le civiltà ha prodotto un proprio percorso
storico, e le donne del tempo del Profeta sono diverse da
quelle Abbasidi o dalle donne di oggi: a parte il fatto che non
tutte le arabe sono necessariamente musulmane. Nella
definizione della loro identità, entrano più elementi differenti:
di genere ma anche religioso, etnico, familiare e così via.
Si tratta di elementi che affondano le proprie radici in
tradizioni, pratiche e culture precedenti l’arabizzazione e
l’ islamizzazione: ad esempio le mutilazioni genitali che molte
donne arabe sono costrette a subire e che, con l’ Islam, non
c’entrano davvero nulla. Semmai ai musulmani si può
rimproverare di non essere stati sufficientemente musulmani
da estirpare tali pratiche preislamiche e antiislamiche.
Affrontando un argomento molto vasto e complesso di certo
il mio lavoro non può essere esaustivo, quindi ho introdotto
l’argomento accennando nel primo capitolo al diritto islamico
che si basa soprattutto sulla sharia e sul Corano che regolano
la vita di ogni musulmano e introdotto anche il tema dei diritti
umani delle donne. Nel secondo capitolo ho affrontato e preso
in considerazione alcuni aspetti della donna quali il
matrimonio, il ripudio e le sue varie forme, la poligamia, il
velo e infine ho parlato più nello specifico della situazione
delle donne afgane. Nel terzo capitolo ho approfondito un
tema molto delicato che è quello delle mutilazioni genitali
femminili cercando anche di spiegare come mai pur non
essendo delle prescrizioni coraniche sono ancora praticate nei
paesi soprattutto musulmani. Ho approfondito anche i vari tipi
di mutilazioni., le sue conseguenze fisiche e psicologiche, le
proposte legislative a riguardo e la legge “Consolo” per ciò
che riguarda l’ Italia. Nel quarto capitolo partendo dai primi
cambiamenti sociali e culturali del XIX secolo prendendo in
considerazione soprattutto l’Egitto, ho parlato delle prime
due femministe islamiche mettendo a confronto le loro
differenze, per giungere a parlare anche di delitto d’ onore
perché purtroppo è una pratica ancora diffusa. Infine ho
indicato la situazione attuale in alcuni paesi musulmani, ma
tanto ancora ci sarebbe da dire. Spero di essere riuscita a
delineare un quadro semplice, in questo mio lavoro, su alcuni
aspetti della donna islamica ed essere riuscita a fare un po’ di
chiarezza su alcuni argomenti quali per esempio le mutilazioni
genitali femminili e il loro legame con l’ Islam. E’ difficile
descrivere un universo nel quale, dal Marocco al Pakistan, si
muovono da una parte donne in Chador, alle quali è perfino
proibito curarsi, dall’altra vestite all’Occidentale con
indumenti firmati. Tutto contribuisce a rendere un quadro
della donna araba variegato, difficilmente afferrabile.
CAPITOLO 1
IL DIRITTO NEI PAESI ISLAMICI E DIRITTI
UMANI DELLE DONNE.
1.1 Diritti umani delle donne.
Nell'evoluzione del movimento globale delle donne, il termine
"diritti umani delle donne" ha avuto un notevole impatto come
strumento per l'attivismo politico. Ha rappresentato, infatti, un
punto di convergenza, un terreno comune, al di là dei confini
geografici, per la realizzazione di concrete strategie politiche
volte al cambiamento ed ha facilitato la creazione di strategie
collaborative, formate dall'interazione tra spunti analitici e
pratiche politiche, per la promozione e la difesa dei diritti
umani in una dimensione specificatamente di genere.
Nel tracciare un breve cenno storico sulle origini dei networks
di solidarietà di genere su larga base internazionale e, quindi,
sull'idea di una prospettiva di genere dei diritti umani, si deve
risalire alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani,
adottata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel
1948.
Stante la polarizzazione delle posizioni avvenuta durante la
Guerra Fredda, i governi occidentali attribuirono priorità ai
diritti civili e politici mentre i diritti socio-economici, quali il
diritto al lavoro, alla casa ed alla salute, furono identificati con
il blocco socialista e, per questo, guardati con sospetto. Ciò
eclissò i modi in cui le donne spesso non godevano delle
condizioni sociali ed economiche necessarie per poter
partecipare alla vita pubblica ed essere partner a pieno
titolo e su un piede di uguaglianza con gli uomini per
i diritti di accesso a risorse e opportunità
1
.
Nel desiderio di limitare la giurisdizione degli stati, inoltre,
1
C. Bunch, S. Frost, I diritti umani delle donne, traduzione a cura di Maria G. Di Rienzo, Ed. Il
Mulino,Gennaio 2001, pag.12.
alla base della Dichiarazione è stata posta la divisione
tra pubblico e privato: le violazioni dei diritti umani
delle donne che avvengono tra "privati" cittadini sono state,
così, rese invisibili nonché considerate come al di là
della supervisione dello Stato. Sottolineare quest'ultimo
passaggio è rilevante ai fini del lavoro, poiché i gravi abusi
perpetrati alla donne in nome della religione e della cultura
sono stati occultati, e purtroppo lo sono spesso tuttora,
dalla santità della sfera cosiddetta "privata".
Solo con l'irruzione sulla scena del movimento femminista
negli anni '70, questa visione tradizionale è posta in
discussione grazie alla definizione di un nuovo approccio noto
come "Women in Development" (WID) che sottolinea
come non si possa parlare di sviluppo escludendo
l'ottica di una partecipazione piena della donna
che, finalmente, cessa di essere vista solo come passiva
beneficiaria di politiche di aiuto e di assistenza.
È sostanzialmente su questo orientamento che si incardina
la sequenza delle quattro conferenze sulla donna
convocate dall'Onu nel ventennio 1975-95
e, soprattutto, il lancio da parte dell'Assemblea Generale
dell'Onu del Decennio delle Donne 1976-1985.
Si è trattato di importanti momenti di svolta in cui le donne si
sono incontrate, hanno discusso le proprie differenze, hanno
scoperto i problemi in comune e gradualmente cominciato a
tenere insieme le differenze con la creazione di un movimento
globale.
Nei tardi anni '80 e nei primi anni '90, donne di diversi paesi
hanno interrogato la cornice dei diritti umani e sviluppato
D. De Lorenzi e S. Saccaridi, Dizionario- Atlante dello sviluppo umano, pubblicazione dell’
associazione “differenze culturali e non violenza” finanziata dall’ Unione Europea nell’ ambito del
progetto “archivio e sviluppo”.Litografia IP, Firenze, settembre 2003, pag.98.
strumenti analitici e politici che, assieme, costituiscono l'idea
e la pratica dei diritti umani delle donne in un'ottica nuova
definita di "Genere e sviluppo": l'obiettivo non è più
semplicemente la partecipazione delle donne allo sviluppo,
ma l'inclusione di prospettive di genere nello sviluppo e
nell'implementazione della politica dei diritti umani
.
La definizione degli abusi perpetrati alle donne nell'ambito dei
diritti umani stabilisce inequivocabilmente che gli stati sono
responsabili della loro cessazione e il concetto di universalità
degli stessi sfida la pretesa che la denuncia delle violenze
contro le donne possa essere limitata da specifiche definizioni
culturali o religiose sul ruolo femminile nella società.
La dichiarazione di Vienna (1993) e il Programma d'Azione
che fu il prodotto della Conferenza quale segnale d'accordo
della comunità internazionale sullo stato dei diritti
umani, attesta inequivocabilmente che: “I diritti umani
delle donne e delle bambine sono un'inalienabile,
integrale ed indivisibile parte dei diritti umani
universali” (Dichiarazione di Vienna. I,18,1993).
È importante precisare che gli accordi che le conferenze sopra
citate hanno prodotto, non hanno valore giuridico vincolante,
ma molti di essi hanno rappresentato rilevanti strumenti
politici, utilizzati sia dai governi che dai movimenti delle
donne di tutto il mondo, sia a livello internazionale
che nelle proposte politiche a livello nazionale e locale.
Ad esempio, questi documenti sono stati utilizzati
per rinforzare ed interpretare i trattati internazionali
che, sottoscritti da uno Stato, assumono lo status di
legge internazionale. Il trattato internazionale più
importante che si interessa dei diritti umani delle
C. Bunch e S. Frost ,I diritti umani delle donne, traduzione a cura di Maria G. Di Rienzo, Ed. Il
Mulino, Gennaio 2001, pag.17
donne è la “Convenzione sull'eliminazione di ogni forma di
discriminazione verso le donne” (CEDAW)
che è stata ratificata da 130 paesi.
Per concludere, ripercorrere brevemente la storia dei diritti
umani delle donne è indispensabile per chiarire le origini di un
movimento di genere divenuto globale. I princìpi
fondamentali dei diritti umani, che accordano a ciascuna
persona la dignità umana, forniscono alle donne un
vocabolario per descrivere le violazioni ai loro diritti umani e
gli impedimenti che esse incontrano per esercitarli; è un
linguaggio che le mette in grado di articolare la specificità
delle esperienze nelle loro vite, di condividere tali esperienze
con altre donne nel mondo e di lavorare collaborativamente
per il cambiamento
.
La mappa delle diverse società presenta una grandissima
varietà di situazioni, di ordinamenti, di culture. In ognuna di
esse le donne hanno una posizione ed un ruolo diversi, a
seconda delle tradizioni e dei costumi, dei modi di vita e delle
religioni che le sono proprie, del grado di sviluppo economico
e tecnologico. Al di là di tale molteplicità e a volte di
opposizioni inconciliabili, al di là dei miti e dei pregiudizi, un
primo punto di accordo importantissimo è ormai
incontroverso: alla donna e cioè ad ogni donna, spettano tutti i
diritti e tutte le libertà che sono riconosciute ad ogni
individuo.
1.1.1 Le discriminazioni di genere.
C. Buch e S. Frost, I diritti umani delle donne, traduzione a cura di Maria G. Di Rienzo, Ed. Il
Mulino,Gennaio 2001, pag. 24.
A. Donnarumma, Diritti umani sono anche diritti delle donne, Ed. Palombi, Roma, 2000, pag.6.
Nel corso degli ultimi anni il termine genere è entrato
prepotentemente nel vocabolario di tutti coloro che si
occupano di tematiche femminili, affiancandosi al vecchio
criterio di differenziazione degli essere umani in base al sesso.
La distinzione concettuale dei termini genere e sesso fu
proposta per la prima volta da Anne Oakley nel suo libro
“Sesso, genere e società” pubblicato nel 1972. Nell’ ottica
della studiosa britannica, il concetto di genere non risulta
contrapposto ma complementare a quello di sesso. Per sesso si
intende la connotazione biologica che distingue uomini e
donne; le differenze determinate dal sesso sono genetiche e,
solitamente, invariabili.
Con il termine genere invece si fa riferimento a tutti quei
comportamenti sociali che si determinano a partire dalla
differenziazione sessuale maschio/femmina. Il genere non ha
un’ origine genetica ma è prodotto dai condizionamenti sociali
che attribuiscono a uomo e donna ruoli stereotipati, tanto che
oggi è universalmente accettato che la femminilità e la
mascolinità sono soprattutto frutto di un processo di
socializzazione. I rapporti di genere, e non l’ appartenenza a
un determinato sesso, sono quelli che regolano la vita nella
società. Essi, dipendenti dal contesto culturale in cui
l’ individuo si trova ad interagire fin dalla nascita, sono per
questo variabili nel tempo e nello spazio.
Nel tempo perché, con il trascorrere degli anni, all’ interno di
una stessa comunità i ruoli sociali assegnati per sesso possono
subire variazioni. Nello spazio, in quanto un comportamento
considerato “femminile” in un contesto può essere inteso
come “maschile” o “neutro” in un altro. Ad esempio, la cura
dei bambini, compito generalmente assegnato all’ universo
femminile, in molte comunità aborigene è affidata ad
entrambi i genitori, senza preferenze .Sono gli uomini e le
donne attraverso una continua interazione, a dar vita e mutare
i rapporti di genere. In un mondo ideale la convivenza di
uomini e donne dovrebbe fondarsi su un sistema di istituzioni
capaci di assicurare ad entrambi i generi un pari trattamento.
Le relazioni tra i due sessi, però, pur variabili all’ interno dei
diversi contesti sociali, hanno sempre finito con il determinare
un grave squilibrio che, discriminando le donne, ha dato vita a
modelli di sviluppo patriarcale. I due generi hanno così finito
per ricoprire, all’ interno della società, ruoli completamente
diversi: l’ uomo si è riservato tutte le posizioni di potere, in
primo luogo attraverso il controllo e la gestione delle risorse
economiche, mentre la funzione sociale della donna si è
spesso circoscritta alla riproduzione e alla cura del focolare
domestico. La tradizionale divisione dei ruoli sessuali che
dalla famiglia ha finito per trasferirsi in ogni ambito del
sociale, ha relegato la donna in una condizione subordinata ed
emarginata. Le disuguaglianze in base al genere si radicano
nelle funzioni di produzione e riproduzione e risultano
rafforzate dai sistemi culturali, religiosi e ideologici che
vigono nella società.
Queste premesse giustificano la scelta di
analizzare i rapporti tra uomo e donna all’ interno della
società privilegiando lo studio dei rapporti di genere, che più
delle cause genetiche contribuiscono a creare le
discriminazioni tra i due sessi.
All’ interno di un’ ottica di genere si rende necessaria la
realizzazione di un sistema sociale che, tutelando finalmente i
diritti umani anche per le donne, garantisca quella parità tra i
sessi ribadita dalla Dichiarazione Universale dei diritti umani
D. Leyh, The construction and application of gender, in “Connections”, n° 22/1996
A. Donnarumma,Guardando il mondo con occhi di donna, Editrice Missionaria Italiana, Bologna,1998,
pag.67.
del 1948 ma rimasta ancora oggi, nella maggior parte delle
società, lettera morta.
1.1.2 CEDAW: la convenzione delle donne.
Dalla Dichiarazione del 1948 ad oggi,molti passi sono stati
fatti per pervenire ad una reale applicazione dei diritti che
assicurino la parità dei sessi. In ambito internazionale, le
Nazioni Unite hanno pubblicato una serie di Convenzioni e
Dichiarazioni a favore delle donne. Tra esse merita particolare
menzione la Convenzione sull’ eliminazione di tutte le forme
di discriminazione contro le Donne (CEDAW), stipulata il 18
dicembre del 1979. Essa rappresenta il più ampio trattato
internazionale sui diritti delle donne, spaziando dalle
tematiche sui diritti in materia di lavoro a quelle relative alla
maternità, alla salute, all’istruzione, alla parità tra i coniugi.
Diversamente da altri importanti documenti prodotti dalle
conferenze internazionali, che rappresentano impegni di tipo
politico, essa ha carattere vincolante per gli Stati che la
sottoscrivono. Dalla sua approvazione, ci sono voluti
vent’anni di attesa e cinque di lavoro, il gruppo fu costituito
nel 1994, perché venisse conclusa la redazione del Protocollo
facoltativo, che consente alle donne, nei casi di violazioni
gravi, di ricorrere e far valere in campo internazionale i diritti
affermati dalla Convenzione. La Convenzione CEDAW
ribadisce la norma della Dichiarazione universale contro le
discriminazioni in base al sesso, e integra in un testo organico
tutti gli standard relativi alle donne, già contenuti nei trattati
internazionali esistenti all’ epoca; essa però si spinge oltre.
Nel suo preambolo, si riconosce in primo luogo che
nonostante i numerosi sforzi delle Nazioni Unite per
promuovere i diritti umani delle donne e l’ uguaglianza fra
donne e uomini, “ le donne continuano ad essere oggetto di
gravi discriminazioni”. Si afferma inoltre, sempre nel
preambolo, che “ la discriminazione contro le donne viola i
principi dell’ eguaglianza dei diritti e del rispetto della
dignità umana, ostacola la partecipazione delle donne alla
vita politica, sociale, economica e culturale del loro paese in
condizioni di parità con gli uomini, intralcia la crescita del
benessere della società e della famiglia e rende più difficile
un pieno dispiegarsi delle potenzialità delle donne per il bene
del proprio paese e dell’ umanità”.
1
La Convenzione, insomma, richiede agli stati di eliminare
tutte le forme di discriminazione contro le donne,
nell’ esercizio di tutti i diritti civili, politici, economici, sociali
e culturali. Essa indica anche le misure programmatiche che
gli stati devono attuare per raggiungere l’ uguaglianza fra
donne e uomini. Secondo la Cedaw, gli stati sono tenuti ad
operare per il raggiungimento dell’ uguaglianza non solo nella
vita pubblica, ma anche in quella privata, e in particolar modo
nella famiglia. Nel portare avanti gli obiettivi della
Convenzione, gli stati sono autorizzati ad adottare misure
temporanee, le cosiddette “azioni positive”, da mantenere in
vigore fino a che non si sarà ottenuta una piena uguaglianza
fra donne e uomini. La Cedaw consta di 30 articoli, i primi 16
riguardano le azioni specifiche che devono essere intraprese
dagli stati che hanno ratificato la Convenzione per rendere
attivi i principi enunciati nella Convenzione all’ interno delle
legislazioni nazionali. Dalla lettura di questi articoli emerge la
volontà di garantire le donne da ogni forma di discriminazione
in tutti i campi del sociale: vita politica e pubblica (art.7);
1
Ministero delle Pari Opportunità, CEDAW: la convenzione delle donne, Presidenza del Consiglio
dei Ministri, Roma 2002, pag.44
rappresentanza (art 8); nazionalità (art 9); educazione
(art 10); occupazione (art 11); salute (art 12); benefici
economici e culturali (art 13); diritti delle donne rurali
(art 14); uguaglianza di fronte alla legge ( art 15 ); matrimonio
e famiglia ( art 16). Gli articoli 17-30 descrivono invece le
procedure per implementare i contenuti della Convenzione.
Dopo la sua adozione nel 1979, il processo di ratifica della