5
Sono 340.000 le coppie conviventi non coniugate in Italia, a
fronte delle 184.000 presenti nel 1990
2
.
Per anni le convivenze sono state caratterizzate da un alto tasso
di ricambio e da una durata breve, a conferma del fatto che la
convivenza è stata vissuta prevalentemente come una transizione
verso il matrimonio e non come un modello alternativo ad esso. Gli
ultimi dati evidenziano, però, l’aumento della durata delle unioni a
fianco ad una maggiore presenza di celibi e nubili (rispetto ai
divorziati e separati che caratterizzavano le unioni precedenti)
3
.
Questi aspetti possono far ritenere che anche nel nostro Paese,
come nel resto d’Europa, è in atto la tendenza al radicamento di
queste nuove forme familiari
4
.
Nei confronti di un fenomeno così importante, è stato per lungo
tempo dominante un atteggiamento di pregiudiziale chiusura,
avallato dalle stesse norme del codice civile e del codice penale. Le
2
Rappresentano il 2,3 % delle coppie, con punte del 3,7 % nel Nord-Est.
3
Prima degli anni Ottanta erano il 47,4 % le convivenze che duravano meno di un anno.
Sono passate al 23,2 % negli anni Novanta.
4
Dal rapporto ISTAT 2002, Modelli di formazione e organizzazione della famiglia, dati
reperiti con l’indagine Multiscopo, Famiglie, soggetti sociali, condizione dell’infanzia, del
1998.
6
prime discriminavano i figli nati fuori del matrimonio anche in
assenza di una famiglia e di figli legittimi, mostrando un chiaro
sfavore per le relazioni non formalizzate, considerate fenomeni da
scoraggiare; le seconde punivano l’adulterio addirittura come
reato.
Il passaggio da quest’iniziale sfavore sociale e giuridico verso
le convivenze fuori del matrimonio, all’attuale tendenza a
riconoscerne una rilevanza giuridica, tanto da indurre alcuni ad
auspicare una loro regolamentazione normativa, può essere rilevato
attraverso l’analisi dei termini stessi con cui nel tempo si è indicato
tale fenomeno.
La convivenza fuori del matrimonio era definita in passato
“concubinato”, ed è l’unico momento in cui trova un preciso
riscontro normativo, in quanto tale termine indicava anche un
delitto contro il matrimonio, una sorta di “adulterio continuato”,
espressamente regolato dall’art. 560 del codice penale, e costituiva
causa di separazione per colpa. Ciò avveniva in un momento
storico in cui l’unica organizzazione familiare degna di tutela era
7
rappresentata da quella fondata sul matrimonio, caratterizzata da
una rigida struttura gerarchica a favore del marito e
dall’indissolubilità del vincolo.
Al superamento di questa concezione hanno contribuito le
storiche sentenze della Corte costituzionale n. 126 e n. 128 del
1968, che hanno abrogato rispettivamente i reati di adulterio e di
concubinato.
Dal termine concubinato si passa, dunque, a quello di
“convivenza more uxorio”, con sui si fa riferimento alla
consuetudine di vita in comune, prescindendo dalla presenza di
figli, secondo modalità e comportamenti assimilabili a quelli propri
dei coniugi
5
.
5
G. DE LUCA, La famiglia non coniugale, Padova, 1996 p. 5.
8
Questa espressione ha trovato immediati consensi presso la
giurisprudenza, poiché indica un fenomeno improntato a criteri di
libertà e di volontà dei suoi componenti, che si esaurisce
nell’ambito dell’autonomia privata
6
: l’ordinamento, infatti, non la
regolamenta, né la Costituzione riconosce altri tipi di
organizzazione familiare oltre quella fondata sul matrimonio.
Nessun valore giuridico continua a darsi alla convivenza,
benché alcune pronunce giurisprudenziali comincino a
riconoscerne la rilevanza, ma solo limitatamente ad alcuni settori e
con fini limitati
7
. Il riconoscimento della convivenza non implica,
in ogni modo, una sua rilevanza nell’ambito della normativa
familiare in senso stretto.
6
In realtà nel linguaggio della giurisprudenza la definizione «famiglia di fatto» e
«convivenza more uxorio» vengono usate in modo indifferenziato. Nel definire tale
fenomeno, però, si tende a mettere in evidenza i caratteri che avvicinano la convivenza al
matrimonio. La Cassazione, ad esempio, nella sentenza del 13/12/1986, n. 7486, in Rep. Foro
it., 1986, voce Lavoro (rapporto), n. 445, definisce la convivenza «rapporto fra due persone
non legate tra di loro da vincoli matrimoniali, ed eventualmente con figli da esse procreati,
qualificata eventualmente dai connotati sostanziali tipici (ma non indefettibili) del rapporto
matrimoniale (salva la libera recedibilità ad nutum): coabitazione abituale, assistenza
reciproca, collaborazione e contributo ai bisogni comuni». Ed è proprio l’espressione
«convivenza more uxorio» ad indicare un confronto con la famiglia di diritto.
7
Cfr. per un primo riscontro, tra le altre, Pret. Genova, 16 luglio 1978, in Giur. civ., 1978,
III, c. 191 in tema di locazioni e in materia tributaria cfr. Cass., 10 luglio 1957, n. 2744 in
Giur. it., 1958, I, 1, c. 726.
9
Con il mutare della considerazione dei rapporti familiari e
coniugali, in seguito ad una rapida evoluzione della realtà sociale,
però, anche l’atteggiamento verso il fenomeno della convivenza
muta sostanzialmente e si inizia a porre in luce una netta
distinzione tra funzione e istituzione familiare; nel senso cioè di
attribuire anche alla famiglia non fondata sul matrimonio la
funzione di adempimento dei doveri di mantenimento, di
educazione e di istruzione della prole, nonché di sviluppo e
arricchimento della personalità all’interno di quella famiglia che,
seppur non istituzionalizzata, assolve pienamente la funzione che
le è propria
8
.
Significativa la legge n. 898 del 1970
9
, che disciplina lo
scioglimento del matrimonio, poiché testimonia la scelta del
legislatore verso una valorizzazione dell’effettività dell’esperienza
di vita nella famiglia. Determinanti, inoltre, sono state le aperture
8
Così Cass., 8 febbraio 1977, n. 556, in Giur. it. 1977, I 1, c. 833.
9
Sulla rilevanza della possibilità di scioglimento del vincolo nella famiglia legittima vedi M.
BESSONE, G. ALPA, A. D’ANGELO, G. FERRANDO, La famiglia nel nuovo diritto,
Bologna, 1977, p. 56.
10
verso la tutela dei figli naturali, che hanno trovato affermazione
definitiva nella riforma del diritto di famiglia del 1975
10
, portando
alla nascita di una nuova realtà familiare meno rigida e stabile di
quella affidata all’autorità del marito e basata, invece, sulla pari
dignità dei coniugi, con una forte rivalutazione dell’elemento
affettivo rispetto ai vincoli formali e coercitivi.
Sulla base di tali considerazioni si arriva ad una sorta di
equiparazione della convivenza alla famiglia legittima, sottolineata
dall’espressione “famiglia di fatto” che sostituisce man mano
quella di concubinato e di convivenza more uxorio. È evidente la
valenza ideologica insita nell’espressione.
10
Anche se la dottrina più sensibile denuncia la mancanza di un’effettiva equiparazione; cfr.
da ultimo C.M. BIANCA, Dove va il diritto di famiglia?, in Familia, 2002, pp. 3-10.
L’Autore mette in evidenza come non tutte le discriminazioni siano state cancellate con la
riforma. La più importante è quella a carico dei figli irriconoscibili, destinati a rimanere «figli
di nessuno». Una residuale discriminazione colpisce anche i figli naturali riconosciuti, che se
hanno uguali diritti e doveri verso i genitori, sono, invece, privati del diritto di parentela, non
sono, cioè, «parenti dei parenti dei loro genitori», cosa che si riflette soprattutto in tema di
successioni. La Corte costituzionale nella sentenza n. 55 del 4 luglio 1979 (in Foro it., 1980,
c. 908, con nota di M. DOGLIOTTI) ha, però, dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 565 c.c.
poiché non prevedeva la successione tra fratelli naturali. Ha, poi, cambiato orientamento in
una sentenza del 1990 e ribadito recentemente nella sentenza n. 532, 15 novembre 2000
l’esclusione della parentela naturale dalla successione legittima. L’Autore auspica,
ovviamente, una piena parificazione dei figli naturali ai legittimi.
11
Il cambiamento della terminologia segue, dunque, una
sostanziale evoluzione del modo di considerare la famiglia dopo la
riforma del 1975.
2- Configurabilità e rilevanza della famiglia di fatto
L’espressione “famiglia di fatto” non è solo una definizione più
puntuale del fenomeno, ma è anche il segno di un profondo
cambiamento nell’orientamento dottrinario; non ha trovato, quindi,
un unanime consenso in dottrina.
Vi è chi ritiene il termine utilizzato in quanto «neutro sia
emotivamente che moralmente»
11
, altri, invece, sottolineano la
valenza ideologica, insita nell’espressione: «famiglia di fatto non è
solo il convivere come coniugi, è prima di tutto “famiglia”,
portatrice di valori di stretta solidarietà, allo scopo di arricchimento
e sviluppo della personalità di ogni componente, e di educazione
11
Così G. FERRANDO, Sul problema della «famiglia di fatto», in Giur. mer., 1975, II, p.
134.
12
ed istruzione della prole, che erano finora considerati esclusivi
della famiglia fondata sul matrimonio»
12
. Una posizione criticata
da chi ritiene che in questo modo si assegna ad un gruppo, a priori,
una funzione ed un valore che esso ha solo in ipotesi,
etichettandolo col nome di un altro gruppo, cui quella funzione è
tradizionalmente assegnata
13
.
Troviamo anche chi, invece, rileva come sia l’espressione
“convivenza more uxorio” ad indicare i requisiti di somiglianza
della convivenza, con la famiglia legittima
14
.
Contrari all’uso dell’espressione famiglia di fatto anche chi
ritiene che con essa «si vuole sottolineare l’esigenza di una precisa
regolamentazione della fattispecie, che sia totalizzante, organica e
12
M. DOGLIOTTI, La Corte Costituzionale attribuisce (ma solo a metà) rilevanza giuridica
alla famiglia di fatto, in Dir. fam. pers., 1990, I, p. 767-795.
13
M. BERNARDINI, La convivenza fuori del matrimonio, Padova, 1992, p. 156, nota n. 4.
14
F. BILE, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione, in Riv. dir.
civ., 1996, II, p. 641.
13
tipica, in perfetto parallelismo con quanto avviene per la famiglia
legittima…»
15
.
Una parte autorevole della dottrina, d’altronde, non riconosce
affatto una rilevanza giuridica del fenomeno, considerato una
minaccia per la famiglia legittima e una delle cause della crisi che
questa istituzione sta attraversando ormai da qualche tempo
16
.
Quella che è stata definita «morte della famiglia», viene fatta
derivare, oltre che dalla mancanza di una disciplina valida della
famiglia fondata sul matrimonio, nella «equiparazione nel mondo
delle valutazioni sociali con le altre più facili unioni, con la
conseguenza di togliere il senso specifico di quella formazione
sociale che è sempre stata pietra d’angolo della comunità», anche
se si riconosce che «nessuno oggi, naturalmente, arriva all’assurdo
15
Così F. GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 6. L’Autore
non condivide tale posizione, anche ammettendo la ormai indiscutibile rilevanza giuridica del
fenomeno in esame, come la maggioranza della dottrina.
16
Per tale orientamento, con motivazioni diverse, vedi F. BRIGNOLA, La famiglia di fatto e
diritto, in La famiglia di fatto, Atti del convegno di Pontremoli, 1976, pp. 157-158; G.
STELLA RICHTER, Appunti sulla nozione di matrimonio di fatto, ivi, p. 106; E. BAGNOLI,
Osservazioni di un notaio, ivi, p. 128; A. TRABUCCHI, Il ritorno all’anno zero: il
matrimonio come fonte di disparità, in Riv. dir. civ., 1975, II, p. 488 ss.; ibidem, Pas par cette
voie s’il vous plait!, in Riv. dir. civ., 1981, I, p. 329 ss.; ibidem, Morte della famiglia o
famiglie senza famiglia?, in Riv. dir. civ., 1988, I, p. 19 ss.
14
di negare l’esistenza, per l’uomo e per la donna, di possibili forme
di vita in rapporto, più o meno duraturo, con altri», il problema è,
dunque, «nel riconoscere un valore costruttivo che si affermi in un
ambito tradizionalmente proprio all’istituzione famiglia»
17
. Il
timore è, poi, quello di estendere l’apertura ad altre forme di
convivenza, con scarsa corrispondenza nella coscienza sociale,
come relazioni adulterine od omosessuali.
L’unione libera viene, quindi, sì riconosciuta, «ma alla libertà
dei vincoli corrisponda per ognuno l’esclusione di ogni
conseguenza che si possa far dipendere da un impegno che per
definizione resta affidato alla sola discrezione degli interessati»
18
. I
rapporti che non nascono con il matrimonio potranno anche essere
regolati «ma non perché rapporti di famiglia, bensì solo perché
esistono»
19
, per evitare di dare rilevanza giuridica ai fattori di
17
A. TRABUCCHI, op. ult. cit., p. 20.
18
A. TRABUCHI, op. loc. ult. cit.
19
A. TRABUCCHI, Pas par cette voie s’il vous plait! , cit., p. 355. L’Autore sostiene,
infatti, che «indubbiamente esistono nella società moderna fattori di erosione della famiglia
(…) se il diritto segue la strada di assecondare questi fattori di erosione, ne viene che la strada
imboccata è senza possibilità di ritorno», p. 556.
15
erosione della famiglia fondata sul matrimonio.
Gran parte della dottrina critica questa tesi, rifuggendo l’idea
che dare una qualche regolamentazione alle convivenze senza
matrimonio peggiorerebbe la situazione della famiglia legittima, né
d’altra parte avrebbe ripercussioni sull’evoluzione sociale del
costume
20
. Le convivenza more uxorio, infatti, non è più
condannata in quanto «condizione di peccato»
21
o «deviant
phenomenom»
22
e negare una sua rilevanza nel nostro ordinamento
sembra ormai non giustificabile, in considerazione della
trasformazione sociale del Paese.
Un’evoluzione sociale che è possibile riscontrare anche nel
mutato atteggiamento della giurisprudenza, che nel dare rilevanza
alle convivenze fuori del matrimonio usa indifferentemente le
locuzioni “convivenza more uxorio” e “famiglia di fatto”, che
20
F. GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 10. L’Autore individua nel
divorzio il vero pericolo per l’istituzione familiare e non le convivenze fuori del matrimonio.
21
M. DOGLIOTTI, Famiglia di fatto: condizione di peccato o formazione meritevole di
tutela? in Dir. fam. pers., 1978, p. 1462 ss.
22
V. FRANCESCHELLI, La famiglia di fatto da «deviant phenomenom» a istituzione
sociale (a proposito di un recente convegno), in Dir. fam. pers., 1980, p. 1275 ss.
16
viene distinta dalla semplice convivenza occasionale, per il
carattere di stabilità che conferisce grado di certezza al rapporto
23
.
Non è risolto, dunque, il problema terminologico
24
; ma anche
senza voler “etichettare” le unioni libere come “famiglia di fatto”
(terminologia comunque entrata nell’uso comune di dottrina e
giurisprudenza), la dottrina sembra ormai orientata per un
riconoscimento giuridico di tale fenomeno
25
.
Acceso resta, invece, il dibattito per la ricerca di soluzioni volte
a determinare i limiti e la forma di tale rilevanza.
Una parte della dottrina propone di assimilare la disciplina della
famiglia legittima e quella della c.d. famiglia di fatto, attraverso
l’applicazione in via analogica delle norme dettate per i coniugi,
oppure mediante una disciplina organica della convivenza.
23
Cfr. Cass., 4 aprile 1998, n. 3503: «Nel caso in cui alla convivenza more uxorio siano
riconnesse conseguenze giuridiche, al fine di distinguere rapporto occasionale e famiglia di
fatto, deve tenersi soprattutto conto del carattere di stabilità che conferisce grado di certezza al
rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderla rilevante sotto il profilo
giuridico..».
24
Vedi G. GIACOBBE, Intervento, in Una legislazione per la famiglia di fatto? Napoli,
1988, p.161-165, che considera inadeguato individuare il fenomeno con l’espressione famiglia
di fatto, poiché unificherebbe situazioni diverse, non sempre riconducibili ad unità; propone,
allora, di definirle «famiglie non fondate sul matrimonio».
25
Così S. PATTI, Intervento, in Una legislazione per la famiglia di fatto? cit., p. 173.