9
Capitolo I
La pittura a Roma e nel Lazio dall’XI alla metà del XIII secolo
Lo scenario politico della Roma degli inizi dell‟XI secolo mostra una città dominata
dalla famiglia dei Crescenzi, soppiantati nel 1012 dai Conti di Tuscolo, che per circa un
secolo condizionò le elezioni papali facendo salire al soglio pontificio i propri esponenti.
Verso la fine del X secolo l‟imperatore salico Ottone III, con l‟intento di portare ordine
nella città fiaccata dalle rivolte promosse dal patricius Giovanni Crescenzi, decise di
stabilirsi a Roma, per dar vita al sogno di ricostituire un nuovo impero romano
1
.
Nella realizzazione dell‟ambizioso progetto, l‟imperatore fu affiancato da uno dei
maggiori intellettuali del Medioevo, Gerberto d‟Aurillac, poi divenuto papa col nome di
Silvestro II
2
.
Intorno all‟anno 936 si diffuse in città il movimento riformatore promosso da Oddone di
Cluny, fautore del ripristino della moralità e dei valori della Chiesa compromessi dai
1
Il 21 maggio del 996 Ottone III venne incoronato imperatore in San Pietro. L‟imperatore sognava di
realizzare una renovatio imperii con Roma come sede del potere imperiale e della Chiesa, per creare una
concordia fra potere civile e religioso. Cfr. R. Krautheimer, Roma. Profilo di una città, 312-1308, Roma
1981, pp. 179-183; F. Marazzi, Aristocrazia e società (secoli VI-XI), in A. Vauchez (a cura di) «Roma
medievale», Roma-Bari 2001, pp. 64-69;
2
Gerberto d‟Aurillac scelse il nome di Silvestro per consolidare il forte legame con l'Imperatore Ottone III,
del quale fu precettore e maestro. L'imperatore Ottone considerava se stesso un secondo Costantino e così, di
riflesso, Gerberto prese il nome del pontefice Silvestro I (314-335), che all'epoca aveva guarito Costantino
dalla lebbra e al quale le antiche leggende attribuivano il merito di aver convertito al cristianesimo
l‟imperatore. Cfr. A. Barbero, C. Frugoni, Medioevo. Storia di voci, racconto di immagini, Roma-Bari, 1999,
pp. 115-118; P. Supino Martini, Società e cultura scritta, in A. Vauchez (a cura di) «Roma medievale»,
Roma-Bari 2001 pp. 253-254.
10
favoritismi e dai modi spregiudicati attuati dalle nobili famiglie romane. La riforma
cluniacense
3
venne accolta prima nel monastero di Santa Maria de Aventino nel 940
4
e in
seguito da Ugo, abate di Farfa, nel 998
5
.
La regola cluniacense recuperò valori del primo cristianesimo cui ispirarsi per
restaurare una condotta morale che era stata messa in secondo piano dalla curia pontificia,
impegnata nel conservare il consenso del volubile popolo romano. A questa influenza si
sommava il desiderio di Ottone III di restaurare il Sacro Romano Impero, veicolando la sua
intenzione anche tramite la riproposizione di modelli dell‟ arte romana
6
.
I primi cicli in cui si possono apprezzare i risultati di tale intento sono i dipinti di Santa
Maria in Pallara e quelli in Sant‟Urbano alla Caffarella, entrambi di committenza laica
7
,
3
La riforma cluniacense fu un movimento di riforma ecclesiale che ebbe la sua origine nell‟abbazia
benedettina di Cluny, in Borgogna. Il primo abate, Berno, volle recuperare gli antichi ideali monastici, come
una stretta applicazione della regola benedettina e l‟attenzione per la devozione di ogni singolo monaco. Le
consuetudines cluniacenses si diffusero rapidamente in Francia e trovarono terreno fertile anche nell‟Italia
settentrionale e a Roma, dove contribuirono a combattere le interferenze del potere laico sulle elezioni papali
ed inoltre la simonia e il nicolaismo. Il pensiero cluniacense, portato avanti da personalità come Umberto di
Silvacandida, Anselmo da Lucca e Ildebrando di Soana, può dirsi alla base della Riforma Gregoriana.
Barbero-Frugoni, ivi, pp. 160-165.
4
Il monastero fu creato dal palazzo sull‟Aventino di Alberico II per farvi sorgere una nuova abbazia dedicata
alla Vergine.
5
C. Bertelli (a cura di), L‟Altomedioevo, Milano 1994, p. 225.
6
P. Supino Martini 2001, pp. 253-254.
7
I dipinti di Santa Maria in Pallara furono commissionati da un certo Petrus medicus e da sua moglie
Johanna (che compaiono raffigurati nell‟atto di offrire il modello della chiesa) e terminati entro il 998. Dei
dipinti medievali oggi sono visibili solo quelli che occupano la zona absidale, mentre la decorazione
comprendeva anche cicli dedicati al martirio di santi romani (S. Sebastiano, S. Zotico e altri otto santi non
identificati), lungo la navata ma andati perduti durante i rifacimenti seicenteschi. La composizione absidale
riprende dalla basilica dei Santi Cosma e Damiano lo schema compositivo della Majestas di Cristo. Sui
fianchi dell‟arco absidale compare un‟iconografia nuova, con i patriarchi che reggono sulle spalle gli
apostoli. La zona inferiore dell‟abside è occupata dal corteo delle sante martiri romane che confluiscono
verso il centro della scena, dove vi è la Vergine fra due angeli. In questi dipinti il colore ha un ruolo
predominante. Si può notare come i pomelli accesi delle sante e il disegno del manto d‟oro del Cristo siano
ormai lontani dalle sigle delle miniature e dei mosaici del IX secolo. Cfr. P. Fedele, Una chiesa del Palatino:
«S. Maria in Pallara», in « Archivio della Società Romana di Storia Patria », 26, Roma 1903, pp. 343-380;
P. Lugano, S. Benedetto sul Palatino e sul Foro Romano, in « Rivista storica benedettina», 1924, XV, pp.
201-229; E. Mâle, Rome et ses vieilles èglises, Parigi 1965, pp. 151-152; L. Gigli, S. Sebastiano al Palatino,
Roma 1975; J. Enckell Julliard, Il Palatino e i Benedettini: un unicum iconografico a S. Maria in Pallara, in
Rivista dell‟Istituto Nazionale d‟Archeologia e Storia dell‟Arte, 57, 2003, pp. 209-230.
Gli affreschi in S. Urbano alla Caffarella furono offerti dai facoltosi Beno de Rapiza e Maria Macellaria, e
sono datati al 1011. Lungo l‟ unica navata della chiesa, su due registri si svolgevano tre cicli distinti: il primo,
costituito da venti episodi cristologici; il secondo rappresentava i santi romani Urbano e Cecilia, infine
11
nei quali si riscontra un‟attenta, ma autonoma, rilettura del modelli paleocristiani cui si
ispirano. A questo gruppo di pitture possono essere aggiunti gli affreschi della parete
settentrionale e della controfacciata nella basilica inferiore di San Crisogono
8
. In questa
chiesa, in particolare, la ripresa dell‟antico si esplicita nella scelta di inquadrare gli episodi
con finte architetture, composte da colonne strigilate e mensole, di chiara derivazione
paleocristiana
9
.
Attorno alla metà dell‟XI secolo non è ancora maturato un percorso che possa
comprendere in sé elementi di continuità stilistica, questo anche a causa della perdita di
opere che avrebbero potuto convalidare l‟affermarsi di alcune soluzioni stilistiche. Per
questo motivo, Matthiae parla di questi cicli pittorici come appartenenti ad una generica
“scuola preromanica”
10
. Pur in assenza di certezze, tramite confronti stilistici, possono
essere comprese nel novero anche le pitture nel campanile dell‟abbazia di Farfa (1060 ca.) e
quattro raffigurazioni singole con il martirio di s. Lorenzo e di altri santi. Ciò che contraddistingue queste
pitture dalla produzione coeva è la vastità del programma e la volontà di rendere le singole scene diverse tra
loro. I pittori operanti in S. Urbano hanno voluto emanciparsi dalle tipologie tradizionali, attingendo ad
elementi bizantini e di carattere popolare nella narrazione dei martirii. Cfr. A. Busuioceanu, Un ciclo di
affreschi del secolo 11.: S. Urbano alla Caffarella, in «Ephemeris Dacoromana: annuario della Scuola
romena di Roma», 2, Roma 1924, pp. 1-65; G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo. Secoli XI-XIV.
Aggiornamento scientifico e bibliografia di Francesco Gandolfo, Roma 1988, pp. 15-20 e 251-253; K.
Noreen, Sant‟Urbano alla Caffarella: eleventh-century roman wall painting and the sanctity of martyrdom,
2001.
8
La chiesa di San Crisogono attualmente si presenta su due livelli. La decorazione pittorica della basilica
inferiore è stata recentemente ricondotta alla seconda metà dell‟ XI secolo, precisamente al cardinalato di
Federico di Lorena (1057-1058). Nell‟esecuzione del ciclo di Storie di s. Benedetto e di altri santi sulla
parete destra della navata si può riscontrare l‟avvento di un gruppo di maestri specializzati nel trattare le
figure, che utilizzano nuovi repertori iconografici e hanno un respiro stilistico più arioso. Nella maniera
pittorica guardano alla tradizione altomedievale romana, caratterizzata dall‟uso di pesanti segni neri per
definire le forme. I colori utilizzati prediligono i toni caldi. Probabilmente il ciclo fu dipinto prima del
Lezionario di Montecassino del 1071 (Vat. Lat. 1202), ma entrambi potrebbero rifarsi ad un prototipo
precedente e perduto. La decorazione di San Crisogono dovette essere conclusa entro il cardinalato di
Stefano, quindi prima della fine degli anni ‟70. Cfr. B. M. Apollonj-Ghetti, S. Crisogono, Roma 1966; B.
Brenk, Roma e Montecassino: gli affreschi della chiesa inferiore di S. Crisogono, in “Revue de l‟Art
Canadienne”, n. 2, 1985 pp. 227-234; S. Romano, I pittori e la tradizione in M. Andaloro, S. Romano, «Arte
e iconografia a Roma. Da Costantino a Cola di Rienzo» Milano 2001, pp. 141-145; E. Mazzocchi, Il cuore
antico della Riforma: le pitture della basilica di S. Crisogono, in S. Romano, J. Enckell Julliard, «Roma e la
Riforma gregoriana. Tradizioni e innovazioni artistiche (XI-XII secolo)», Roma 2007, pp. 247-274; S.
Romano, Riforma e tradizione: 1050-1198, Milano 2007, p. 22-25 e in particolare S. Romano, Storie di San
Benedetto ed altri santi sulla parete destra della navata, pp. 79-88.
9
Brenk 1985, pp. 337-234; Romano 2001, pp. 141-142.
10
Matthiae 1988, p. 12.
12
il pannello votivo con i santi Benedetto, Sebastiano e Zotico, aggiunto alla base della
decorazione absidale di Santa Maria in Pallara dopo che questa, nel 1061, era divenuta
possedimento cassinese
11
.
Studi recenti, inoltre, riconducono al periodo fra il 1050-1075 anche le pitture romane
di Sant‟Andrea al Celio
12
e di Santa Maria in via Lata
13
. Questi dipinti sono accomunati da
affinità e analogie espressive, ma presentano anche aspetti che li distinguono.
Queste differenze nella maniera pittorica sono tipiche della pittura di scuola romana
nella fase che precede l‟affermazione dello stile presente in San Clemente, avvenuta tra la
fine dell‟XI- inizio XII secolo.
In questi anni si osserva un ritorno all‟antico e al mondo paleocristiano, sia nella ripresa
della struttura della chiesa a pianta basilicale, che nei temi dei cicli e nelle decorazioni
14
.
11
J. Enckell Julliard, Il pannello con tre figure a mezzo busto nell‟abside di Santa Maria in Pallara, in S.
Romano, «Riforma e tradizione: 1050-1198», Milano 2007, pp. 196-198.
12
Le pitture medievali rinvenute nel sottotetto dell‟Oratorio di Sant‟Andrea al Celio sono state pubblicate nel
1968. Si è conservato solo il timpano, che comprende un clipeo con il busto di un Cristo benedicente
affiancato da figure di angeli curvi in venerazione. Poco più in basso, si conserva una fascia con riquadri
all‟interno dei quali si alternano motivi decorativi geometrici e due profeti con cartiglio. Gli affreschi
presentano una datazione controversa. Salerno, che per primo ne ha parlato, le riconduce ai lavori promossi
da Pasquale II nel 1108. Toubert (H. Toubert, Pittura murale romanica. Le scoperte degli ultimi dieci anni,
nuovi affreschi, vecchi problemi, nuove discussioni, in H. Toubert, Un‟arte orientata: riforma gregoriana e
iconografia, a cura di Lucinia Speciale, Milano1992 [2001], p. 339) si mostra in disaccordo, poiché le
sembra che lo stile degli affreschi non trovi corrispondenze nella pittura romana del XII secolo. Ma vi si
trova qualche affinità nel volto del profeta e nelle mani di Cristo, col Giudizio particolare in San Clemente
dell‟ XI secolo. Bertelli (Id. 1994, p. 226) riconduce l‟attribuzione delle pitture dell‟oratorio a maestri
lombardi di epoca carolingia e ottoniana, come è provato dalla cornice a meandro intervallato dai busti di
patriarchi e dall‟uso dell‟affresco a calce, utilizzato dal IX all‟ XI secolo. Gandolfo (Matthiae 1988, pp. 261-
262) infine, associa la fascia decorativa al fregio della Tavola Vaticana e la composizione sovrastante al
maestro dell‟abside di San Pietro in Tuscania, inquadrando queste pitture nella corrente parallela e
indipendente della pittura romana della prima metà del XII secolo.
13
La chiesa di Santa Maria in via Lata è stata sottoposta ad una campagna di rinnovamento sotto il
pontificato di Leone IX (1049-1054). Gli affreschi dell‟abside verosimilmente sono da ricondurre agli anni
1050-1055, o poco più tardi. Non è possibile averne un riscontro certo perché sono perduti il nome del
committente e l‟anno di esecuzione. Sono comunque da intendersi come precursori dello stile sviluppato
negli affreschi di San Clemente. Cfr. Bertelli 1994, pp. 227-228; G. Bordi, Le figure di sante nella chiesa
sotterranea di Santa Maria in via Lata, in Romano 2007a, pp. 37-39.
14
F. Gandolfo, La pittura romana tra XI e XII secolo e l‟Antico, in «Roma, centro ideale della cultura
dell‟Antico nei secoli XV e XVI: da Martino V al Sacco di Roma. 1417-1527» Atti del convegno
internazionale di studi su Umanesimo e Rinascimento (Roma, 25-30 novembre 1985), a cura di Silvia Danesi
Squarzina, Milano 1989, pp. 21-32; H. Toubert, La rinascita paleocristiana a Roma all‟inizio del XII secolo,
in Toubert, 1992 [2001], pp. 177-178; Romano 2001, pp. 138-141.
13
Inoltre le botteghe di pittori usano un preciso repertorio di motivi decorativi di origine
tardoantica e paleocristiana, al fine di richiamare, attraverso l‟immagine, l‟idea della
Chiesa primitiva. Ogni bottega poi, cercava di sviluppare un‟autonoma rilettura dei modelli
e degli spunti forniti dal periodo paleocristiano con personali capacità di attualizzazione
15
.
Oltre l‟imperante gusto tardoantico, si afferma la devozione verso i santi, espressa in
cicli nei quali si raccontano i martirii dei santi titolari (come in Santa Maria in Pallara, in
Sant‟Urbano alla Caffarella, nell‟Oratorio di San Sebastiano al Laterano o in San Lorenzo
f. l. m.), oppure gli episodi desunti dalle agiografie, come nella basilica inferiore di San
Crisogono e di quella di San Clemente. Si nota una certa frequenza nell‟utilizzo delle storie
di s. Benedetto, forse sotto la spinta delle committenze benedettine
16
.
Il monastero benedettino di Montecassino, sotto la gestione dell‟abate Desiderio ebbe
importanza crescente, e negli anni 1066-1071 venne integralmente ricostruito
17
. Desiderio
si prodigò affinché l‟abbazia si affermasse come centro propulsore di nuove influenze
culturali e artistiche (in parte desunte dal mondo bizantino), che si realizzarono nella
decorazione dell‟abbazia e nella creazione di uno scriptorium con annessa una scuola di
miniaturisti
18
.
La critica ha riconosciuto in varie opere romane commissionate nel terzo quarto dell‟ XI
secolo la filiazione di temi e stili di diretta influenza cassinese, rintracciabili nelle porte
bronzee di San Paolo f. l. m. o ancora in alcuni cicli pittorici, come nei pannelli della
15
Bertelli 1994, pp. 229-230; Toubert, Ivi, pp. 180-187; Romano, ibidem.
16
I monasteri benedettini erano diffusi capillarmente in città, spesso dislocati in punti nevralgici per la
spiritualità romana. Ai monasteri lateranensi e a quello di Sant‟Andrea al Celio si aggiunsero durante i secoli
X-XI quelli che dipendevano da Montecassino (coma il complesso di Santa Maria in Pallara o quello di Santa
Maria Nova) e quelli obbedienti alla regola cluniacense. Cfr. P. Lugano, S. Benedetto sul Palatino e sul Foro
Romano, in «Rivista storica benedettina», 1924, XV, pp. 201-229; C. Cecchelli, Di alcune memorie
benedettine in Roma, in «Bullettino dell‟Istituto Storico Italiano e Archivio Muratoriano», n. 47, Torino 1932
[1970], pp. 88-95; G. Ferrari, Early Roman Monasteries, Roma 1957; H. Toubert, Roma e Montecassino.
Nuove osservazioni sugli affreschi della basilica inferiore di S. Clemente a Roma, in Toubert 1992 [2001],
pp. 143-175.
17
M. D‟Onofrio, V. Pace, Italia romanica. La Campania, Milano 1981, pp. 41-73
18
Ibidem; Brenk 1985, pp. 227-234.
14
basilica inferiore di San Clemente. Questi influssi più o meno dichiarati sono stati oggetto
di studio sul rapporto che intercorre tra Roma e Montecassino, che continua ad essere
investigato per la portata dei suoi influssi
19
.
Negli anni del pontificato di Leone IX (1049-1054), si distinse il monaco cluniacense
Ildebrando di Soana, autentico rinnovatore della curia pontificia, incaricato di amministrare
l‟abbazia di San Paolo ma, al contempo, di svolgere la funzione di ministro plenipotenziario di
Leone IX e dei papi successivi, fino a salire egli stesso al soglio pontificio nel 1073 col nome di
Gregorio VII
20
. Dal nome di questo papa deriva la Riforma Gregoriana, che si attuò in una
politica di rigore morale per la Chiesa che da circa centocinquant‟anni stava attraversando
un periodo oscuro, a causa delle nomine papali determinate dalle famiglie patrizie romane
o dai regnanti tedeschi
21
. La Riforma rimodellò le strutture della vita spirituale, personale e
collettiva, in tutti gli strati della società. In campo artistico fu il momento in cui la ripresa
di programmi e schemi iconografici antichi divenne mirata, in funzione di un‟ideologia che
si ispirava al passato per esprimersi nel presente
22
. Le botteghe si impegnarono a
19
Per quanto riguarda la questione su chi tra Montecassino e Roma abbia avuto la funzione di guida nel
recupero dell'antico, la critica ha assunto posizioni molto diverse. Demus (O. Demus, Pittura murale
romanica, Milano 1969, p. 54) rifiuta questo riconoscimento al cantiere cassinese. Nei suoi primi studi sul
Renouveau Paléochretién pubblicati dal 1970 la Toubert (ora in Toubert, 1992 [2001]) considera la
Montecassino desideriana come il centro di diffusione dei modelli e delle maestranze impiegati nell‟arte
riformata. Kitzinger (E. Kitzinger, The Gregorian Reform and the visual arts: a problem of method, in
«Transactions of the Royal Historical Society», V serie 22 1972, pp. 87-102) si mostra in piena sintonia con
la Toubert per quanto riguarda l‟influenza dell‟arte cassinese nella decorazione del catino absidale di S.
Clemente.
Nella relazione presentata durante un congresso del 1980, Bertelli pone l‟accento sulla convergenza dei
risultati delle avanguardie di matrice riformista che si erano formate a seguito della movimentata temperie
politica di quegli anni. Bertelli propone di valutarle indipendentemente dal territorio di provenienza,
sottolineando che Roma, come fonte di immagini e pratiche antiche, era favorita. Cfr. C. Bertelli, San
Benedetto e le arti in Roma: la pittura, in «Atti del VII congresso internazionale di studi sull‟Alto
Medioevo: San Benedetto nel suo tempo. (Norcia, Subiaco, Cassino, Montecassino, 29 settembre- 5 ottobre
1980)», Spoleto 1982, pp. 271-302.
20
Il programma di riforma che Ildebrando di Soana intendeva attuare cominciò proprio dal restauro della
basilica di San Paolo, non appena ne divenne abate nel 1059. Krautheimer 1981, p. 431.
21
Ivi, pp. 181-191.
22
Gandolfo non avvalora l‟equazione che vede le attitudini antiquariali coincidere con l‟ideologia della
Riforma (F. Gandolfo, La pittura romana tra XI e XII secolo e l‟Antico, in «Roma. Centro ideale della
cultura dell‟Antico nei secoli XV e XVI. Da Martino V al sacco di Roma. 1417- 1527», Milano 1988, pp. 21-
32. Pace (V. Pace, La Riforma e i suoi programmi figurativi: il caso romano, fra realtà storica e mito
storiografico, in Romano, Enckell Julliard, «Roma e la Riforma gregoriana. Tradizioni e innovazioni
15
riorganizzare i modelli, tenendo in considerazione la volontà dei committenti, sempre più
prestigiosi, cercando di creare un corretto equilibrio fra l‟autorità della tradizione romana e
le innovazioni stilistiche desunte in special modo dal mondo bizantino
23
. L‟opera di
riforma di Gregorio VII, che indubbiamente ebbe una grande influenza sulle arti, non è
confortata dalla conservazione di un ciclo pittorico riferibile con certezza al suo
pontificato. Difatti non si hanno testimonianze inconfutabili di un legame tra programma
ideologico e artistico, come invece è stato ravvisato nell‟abbazia di Montecassino voluta
dall‟abate Desiderio.
Generalmente il ciclo di dipinti murali conservato nella basilica inferiore di San
Clemente viene visto come l‟esempio più alto della pittura di quegli anni
24
. La datazione
della decorazione in San Clemente resta ancora un enigma: gli studiosi l‟hanno posta in
relazione con l‟erezione di muri nell‟intercolumnio, a sostegno all‟edificio soprastante
25
.
Ciò sarebbe da ricondurre all‟incendio appiccato dai soldati di Roberto il Guiscardo (1084)
o al terremoto del 1091
26
. Di recente, invece, si è affermata la tesi che vede le pitture
collegate alle ideologie che erano alla base del sinodo del 1078, svolto proprio in questa
basilica
27
. Il titolo clementino fu a lungo conteso tra la fazione riformista, di cui facevano
artistiche (XI-XII secolo)», Roma 2007, pp. 26-37 ), accogliendo alcune osservazioni di Gandolfo nel suo
aggiornamento scientifico al volume di Matthiae, La pittura romana, 1988 e dalla Romano (S. Romano, I
pittori.., in Andaloro, Romano, 2001, pp. 133-173), ritiene che per la Roma riformata contavano solo i
programmi, mentre le innovazioni o la ripresa di modelli antichi non erano strettamente necessari. Inoltre,
Pace ritiene secondario -per veicolare il messaggio della Riforma- il ricorso a procedimenti scenici o
decorativi, che attenevano unicamente alle pratiche di bottega, e alle quali i committenti erano certamente
estranei.
23
Romano 2001, pp. 151-157.
24
Demus 1969, p. 54; Romano 2007a, p. 26.
25
A. M. Romanini, Il Medioevo, Firenze 1988, p. 220; Bertelli 1994, p. 228; Toubert 1992 [2001], pp. 146-
147.
26
Bertelli, ibidem. L‟opera sicuramente fu terminata prima della decisione di interrare la basilica per motivi
di sicurezza e di costruirne una nuova che insisteva sulla struttura sottostante (il cantiere interessò gli anni dal
1102 al 1125, stando al riscontro delle firme sulle bolle pontificie).
27
La Romano non è d‟accordo con la tradizionale datazione che riconduce i pannelli al 1078-1084; nota
piuttosto una raffinatezza nella concezione del programma che lo accosta al clima in cui matura il sinodo del
1078 e, di conseguenza, li ritiene eseguiti poco prima. Inoltre, la studiosa avvicina le pitture di San Clemente
a quelle del portico meridionale di San Lorenzo f. l. m., anch‟esse contraddistinte da un programma
complesso; ne deduce che il committente è quasi certamente il medesimo. Cfr. Romano 2007a, p. 26-28.
16
parte Gregorio VII e Ranieri di Bieda prima di diventare Pasquale II, e quella antipapale,
sostenuta dal cardinale di San Clemente Ugo Candido e da Guiberto di Ravenna, che, come
antipapa, prese il nome Clemente III. Nei riquadri con le Storie di s. Clemente e in quello
con la Storia di s. Alessio, eseguiti fra il 1102-25, durante gli interventi di recupero a
seguito dei danni riportati dall‟incendio ordinato da Roberto il Guiscardo nel 1084, si
identifica il momento di avvio nell‟elaborazione di apparati decorativi antichizzanti
28
.
Oltre al costante riferimento all‟arte tardoantica, fu determinante l‟apporto degli influssi di
arte nordica che accompagnarono il pontificato di Leone IX (papa germanico e cugino
dell‟imperatore Enrico III) e che in questo ciclo decorativo raggiunsero l‟apice. Difatti
risulta che nessun ciclo coevo li abbia eguagliati in completezza e profondità di trattazione
di temi vitali per la politica ecclesiastica di quegli anni
29
. Per rappresentare questi temi, ci
si avvalse dell‟opera di una bottega di artisti di altissima levatura, che interpretarono gli
apporti bizantini e le maniere precedenti, producendo uno stile innovativo
30
. Il quadro del
programma è al tempo stesso ecclesiologico e martiriale, in quanto si assiste alla
celebrazione di uno dei principali luoghi di culto e di memoria di Roma, nel quale si
conservano le reliquie di un santo cui viene riconosciuta l‟azione salvifica a vantaggio del
fedele
31
, come sembra dimostrare il pannello votivo con i committenti Beno de Rapiza e
Maria Macellaria, accompagnati dal figlio Clemente. Forse per rievocare una guarigione da
una grave malattia o uno scampato pericolo che interessò il fanciullo, è stato scelto il
Claussen e Pace invece sostengono l‟esistenza di un‟arte ghibertiana (riferita alla figura di Guiberto da
Ravenna, antipapa col nome di Clemente III nel periodo tra il 1080-1100), poi cancellata dalla censura, una
volta che il partito riformista riacquistò il potere nel 1093. Cfr. V. Pace, La Riforma e i suoi programmi
figurativi: il caso romano, in Romano-Enkell Julliard, 2007, pp. 49-59; P. C. Claussen, Un nuovo campo
della storia dell‟arte. Il secolo XI a Roma, in,Romano-Enckell Julliard 2007, pp. 61-84.
28
S. Romano, Le pareti e i pilastri con storie di san Clemente e sant‟Alessio nella chiesa inferiore di San
Clemente, in Romano 2007, pp. 129-130.
29
Romano 2007a, p. 26
30
Ibidem.
31
Questo riconoscimento del presunto potere taumaturgico delle reliquie di alcuni santi si ritrova anche nelle
chiese di San Lorenzo f. l. m., San Sisto e, fuori Roma, nella chiesa dell‟Immacolata a Ceri. Ibidem.
17
sovrastante episodio del Miracolo del Tempio, dipinto sul tramezzo murario a destra
dell‟ingresso
32
.
In San Clemente, inoltre, viene affrontata anche la recente questione orientale, legata
allo scisma di Michele Cerulario del 1054, tramite la scelta di impiegare le storie dei santi
Clemente e Alessio, che trascorsero parte della loro vita in Oriente, e il richiamo alle
missioni slave dei santi Cirillo e Metodio
33
. Gli episodi con una trattazione più favolistica
sono ambientati in Oriente, mentre ritmi più solenni caratterizzano le scene ambientate a
Roma.
Come accennato, i committenti del ciclo sono laici: preponderante il ruolo della moglie,
Maria Macellaria. Forse Maria era imparentata con i Frangipane, appartenenti alla fazione
dei filopapali; mentre sembra che suo marito Beno provenisse da una famiglia del partito
cadaliano (antipapali). Beno quindi, alla caduta di Cadalo, probabilmente tentò di dare il
messaggio di volersi collocare dalla “parte giusta” tramite l‟influenza dei familiari della
moglie
34
.
L‟aspetto della narrazione continua, che era estranea alle abitudini romane, offre nel
pannello con la Storia di s. Alessio la sua prima prova: i pittori di San Clemente non
ricorsero al formato quadrotto o rettangolare che inquadrava le scene dei cicli testamentari
medievali, come nel caso delle grandi basiliche paleocristiane e, più vicino nel tempo, di
Sant‟Urbano alla Caffarella; scelsero invece una superficie ampia e lunga in cui far
svolgere la storia in più episodi consequenziali. L‟aspetto di questo nuovo sviluppo
compositivo, probabilmente opera di un artista raffinatissimo, si rende evidente nel
confronto con la Tavola Vaticana raffigurante il Giudizio Finale
35
, nella quale invece non
32
Romano 2007c, p. 134.
33
Ivi, p. 27.
34
Ibidem.
35
La Tavola Vaticana, proveniente dal complesso di S. Maria in Campo Marzio, può essere definita un
unicum per il soggetto, lo svolgimento delle scene e per il singolare formato a disco sostenuto da una
predella, dove sono raffigurate le figure delle due monache committenti. La critica continua a discutere la sua
18
si assiste ad un vero intento narrativo. Ogni fascia, ulteriormente divisa da episodi
impostati in blocchi, ha valore di immagine iconica in sé conchiusa. L‟armonia
complessiva dell‟opera non è alla base della composizione, ma la grande arte dei pittori
che vi lavorano fa raggiungere una certa unitarietà d‟intenti.
A San Clemente quindi nasce una nuova pittura, che viene preferita alle tendenze degli
anni precedenti.
Decorazioni affini si trovano nei resti di dipinti murali dell‟abside della chiesa dei Santi
Quattro Coronati, forse eseguiti durante i restauri del 1099 ad opera di Pasquale II (1099-
1118)
36
. Questo stile si diffuse anche al di fuori della città, come nelle pitture dell‟inizio
del XII secolo nella chiesa di Santa Maria Immacolata a Ceri, ravvisabile nei repertori
ornamentali e nell‟eleganza morbida e sinuosa dei corpi, e in quelle di San Pietro in
Tuscania del 1093, nello stile impiegato nelle Storie di s. Pietro e s. Paolo
37
. In maniera
meno esplicita, si aggiungono all‟elenco anche le pitture dell‟oratorio di Santa Pudenziana
e di Castel Sant‟Elia
38
.
datazione e la provenienza dei pittori. Inoltre, l‟omonimia dei pittori che si firmano sulla tavola con quelli
che decorarono la chiesa di S. Anastasio a Castel Sant‟Elia (Nepi) ha indotto alcuni studiosi a ritenere che le
due opere fossero state eseguite nella seconda metà dell‟XI secolo. Cfr. O. Montenovesi, Nella chiesa di San
Gregorio Nazianzeno a Campo Marzio. Nuove scoperte e studi, in «Capitolium», n. 25 1950, pp. 219-227; E.
T. Prehn, Le opere di Giovanni, Stefano e Niccolò, pittori dell‟undicesimo secolo, in «Antichità Viva», n. 8,
1969, pp. 19-25; P. Boccardi Storoni, La chiesa di S. Gregorio Nazianzeno, in «S. Maria in Campo Marzio»,
Roma 1987; S. Romano, F. Dos Santos, La tavola del Giudizio Universale già in San Gregorio Nazianzeno
(Pinacoteca Vaticana), in Romano 2007, pp. 45-55.
36
Di questi affreschi rimane solo la fascia decorativa nascosta fra il catino absidale e il sottotetto. La
decorazione rimanda al gusto antiquario che connota i velari della chiesa inferiore di San Clemente. E.
Parlato, S. Romano, Roma e il Lazio. Il Romanico, Milano 2001, pp. 127-131; A. Draghi, I frammenti di un
fregio con uccelli della decorazione absidale dei Santi Quattro Coronati, in Romano 2007, pp. 207-208.
37
Romano, ivi, p. 31.
38
Il ciclo di affreschi nella chiesa di Santa Maria Immacolata di Ceri è conservato nella parete absidale, sulla
parete destra della navata centrale e in controfacciata. È da ricondurre al secondo quarto del XII secolo,
precisamente sotto il cardinalato del vescovo di Porto, Pietro (1102-1133). Sulla parete destra si svolge il
ciclo veterotestamentario in venticinque scene, un terzo registro è diviso in quattro pannelli con scene di
santi; infine, nello zoccolo, appaiono tre raffigurazioni intese come scene di genere o come rappresentazioni
simboliche. In controfacciata sono conservati frammenti di un Giudizio Universale che comprende le Opere
di Misericordia (rara rappresentazione monumentale dell‟analogo soggetto della Tavola Vaticana). Le
maestranze operanti a Ceri mostrano stretti legami con i pittori della basilica inferiore di S. Clemente, visibile
nella somiglianza delle soluzioni narrative e nella concezione delle quinte architettoniche, mentre il
trattamento delle figure è meno raffinato. Cfr. A. Cadei, S. Maria Immacolata di Ceri e i suoi affreschi
19
La ripresa della tradizione figurativa di matrice tardoantica e paleocristiana fu impiegata
per celebrare la Chiesa in seguito al Concordato di Worms (23 settembre 1122), che mise
fine alla lotta per le investiture. Il medium utilizzato per dar corpo ai programmi decorativi
è ancora, in prevalenza, la pittura murale, anche se si assiste alla ripresa della tecnica
musiva per la decorazione del catino absidale
39
. Il recupero dell‟arte del mosaico era già
era avvenuto a Montecassino quasi mezzo secolo prima, stabilendo un precedente al quale
potrebbero aver fatto riferimento le maestranze romane
40
. Tramite queste tecniche vengono
medievali, in «Storia dell‟Arte», 44, 1982, pp. 13-29; Matthiae 1988, p. 256; N. Zchomelidse, Santa Maria
Immacolata in Ceri: pittura sacra al tempo della Riforma Gregoriana, Roma 1996; Parlato- Romano, 1992
[2001], pp. 159-165.
La cattedrale di S. Pietro in Tuscania ha subito nei secoli lunghi periodi di abbandono che hanno
compromesso irrimediabilmente, insieme ai danni del sisma del 1971, i dipinti della zona presbiteriale. Il
catino absidale ospita l‟Ascensione di Cristo, molto rovinata, sovrastata dal tema apocalittico (che si è
conservato pressoché integro). È opera del Maestro dell‟abside di S. Pietro, che si distingue per un linearismo
forte e concitato, forse di ascendenza bizantina desunta dall‟arte campana. Questi affreschi sono stati eseguiti
contemporaneamente a quelli nella parete destra del presbiterio, con le Storie apostoliche che si svolgono su
due registri sovrapposti, ma da pittori diversi dal Maestro dell‟abside, poiché attingono a precedenti
esperienze romane, sia per la scenotecnica che nell‟organizzazione del racconto. Solo le figure, nella loro
gestualità, hanno perso lo slancio, risultando piuttosto formali. Cfr. Matthiae 1988, pp. 29-34 e 256-258;
Parlato- Romano 1992 [2001], pp. 103-136.
Nella chiesa di S. Anastasio a Castel S. Elia (Nepi) si conserva ancora in buono stato un vasto ciclo di
affreschi che occupano l‟abside ed il transetto. La rappresentazione della teofania nel catino absidale riprende
lo schema dei SS. Cosma e Damiano. Nel cilindro absidale compare una probabile Vergine in trono (perduta)
affiancata da due arcangeli e da una teoria di sante vergini. Nel transetto, in perfetta prosecuzione con la
rappresentazione absidale, si sviluppa il tema apocalittico in otto riquadri, annunciato dalla processione dei
ventiquattro vegliardi che offrono le coppe e da una teoria di profeti in abiti militari. Ancora più in basso, si
svolgeva un ciclo andato quasi completamente perduto. La scena maggiormente leggibile è da ricondurre ad
un episodio della vita di S. Anastasio. Nella fascia che separa il catino dal cilindro absidale sono riportati i
nomi dei tre pittori che lavorarono al ciclo (Giovanni, Nicola e Stefano), sulla cui identità e sull‟apporto di
ciascun artista all‟interno delle scene si sono formulate varie ipotesi. Anche se le mani dei pittori sono
distinguibili fra loro, preme piuttosto sottolineare che il ciclo appare unitario. Cfr. Y. Batard, Les fresques de
Castel Sant‟Elia et le „Jugement dernier‟ de la Pinacothèque Vaticane, in «Cahiers de civilisation
médiévale», 1, 1958, pp. 171-178; G. Matthiae, Gli affreschi di Castel Sant‟Elia, in «Rivista dell‟Istituto
Nazionale di archeologia e di Storia dell‟Arte», 10, 1961, pp. 181-226; Matthiae 1988, pp. 34-37 e 257-258;
Parlato-Romano 1992 [2001], pp. 167-178.
39
In precedenza, dopo il periodo paleocristiano, i mosaicisti avevano operato sotto Pasquale I (inizio IX
secolo). G. Matthiae, Mosaici medievali delle chiese di Roma, Roma 1967, pp. 264-267.
40
Romano (in Id. 2007a, pp. 163-179) non ritiene verosimile che l‟unica fonte d‟ispirazione tecnica e
stilistica sia stata, per la bottega operante a San Clemente, l‟esempio cassinese e quello della cattedrale
salernitana. Kitzinger sostiene che dopo Montecassino, i mosaici di San Clemente si siano ispirati a quelli
della cattedrale di Salerno, ma lo stile delle figure è profondamente diverso e l‟esperienza clementina coniuga
elementi bizantineggianti con richiami all‟antico. Uniscono l‟elemento antico dei girali d‟acanto (che si
ispira, tra l‟altro, ad opere come l‟Ara Pacis) alla Crocifissione centrale, che guarda alle opere della
stauroteca smaltata ottoniana. Mentre le figure della Vergine e del s. Giovanni possono derivare dall‟arte
bizantina (cfr. il mantello del s. Giovanni). L‟idea di inserire figurine tra i girali rimanda alla soluzione
20
veicolati i temi delicatissimi della rappresentazione del divino. Inoltre si vuole riproporre
l‟ideologia della “Chiesa trionfante”, fortemente ancorata alla Chiesa delle origini, che è
capace di accogliere qualsiasi variazione e libertà interpretativa dal punto di vista visivo,
ma che si fonda sul mondo ideologico e visuale dei temi, dei siti e delle immagini che
l‟hanno costituita nei primi secoli della sua vita.
In termini storiografici questo interesse per gli aspetti che rimandano alle origini è stata
definita Renouveau Paléochrétien
41
. Come sottolinea la Romano
42
, il fenomeno si articolò
in molti aspetti, ma fra questi la critica ha incluso anche elementi che sono stati utilizzati
per le arti figurative del periodo e che hanno avuto una lunga fortuna indipendentemente
dal Renouveau. Il riferimento è alla ripresa dei cicli testamentari desunti dalle basiliche
paleocristiane di S. Pietro e S. Paolo e le loro architetture illusive
43
. Ne sono una
testimonianza i dipinti della navata di Santa Maria in Cosmedin (ante 1123), quelli della
cripta di San Nicola in Carcere ora al Vaticano (1128), il mosaico absidale di San
Clemente (1130 ca.) e quello di Santa Maria in Trastevere (1140-1143); infine, il mosaico
di Santa Maria Nova (ante 1161)
44
.
Lo scenario del XII secolo non presenta committenti laici, ma tutti gli interventi di
restauro sono commissionati dai pontefici o dai cardinali.
analoga utilizzata nei contemporanei capitelli di Cluny. La decorazione della basilica superiore di San
Clemente sente l‟esigenza di tenere alta la qualità artistica che già aveva contraddistinto le pitture della chiesa
inferiore. S. Riccioni, Il mosaico absidale di S. Clemente a Roma. Exemplum della Chiesa riformata, Spoleto
2006, J. Croisier, I mosaici dell‟abside e dell‟arco absidale della chiesa superiore di S. Clemente, in Romano
ivi, pp. 209-218.
41
P er una lettura approfondita dell‟argomento, si vedano i saggi già citati, ancora oggi sono di capitale
importanza per comprendere il fenomeno del Renuveu Paléochrétien: Toubert 1992 [2001]; E. Kitzinger The
Gregorian Reform and the visual arts: a problem of method, in «Transactions of the Royal Historical
Society», V serie 22 1972, pp. 87-102.
42
Romano 2007a, pp. 163-164.
43
Romano sottolinea come questo problema sia stato notato e chiarito più volte da H. Kessler. Cfr. H. L.
Kessler, L‟antica basilica di San Pietro come fonte e ispirazione per la decorazione delle chiese medievali,
in «Fragmenta picta. Affreschi e mosaici staccati del Medioevo romano» (Roma, Castel S. Angelo 15
dicembre 1989- 18 febbraio 1990), Roma 1989, pp. 45-64; H. L. Kessler, L‟oratorio di San Tommaso Becket
in G. Gianmaria (a cura di), «Un universo di simboli: gli affreschi della cripta nella cattedrale di Anagni»,
Roma 2001, pp. 93-103; H.L. Kessler, Il ciclo di San Pietro in Valle: fonti e significato, in G. Tamanti (a
cura di), «Gli affreschi di San Pietro in Valle a Ferentillo», Napoli 2003, pp. 77-116.
44
Romanini 1988, p. 221.