INTRODUZIONE
Questo lavoro nasce dall’esigenza di stabilire una connessione tra le
conoscenze teoriche acquisite nel corso della formazione universitaria e i
possibili risvolti pratici che, a partire da queste, potrebbero condurre
all’attuazione di interventi preventivi rivolti al mondo dell’infanzia e non solo
ad esso; filo conduttore dell’intero lavoro sarà la Teoria dell’Attaccamento di
John Bowlby, che si è dimostrata una delle teorie dello sviluppo più
accreditate e validate degli ultimi anni.
Il campo della prevenzione in psicologia è un ambito di intervento che
solo da qualche anno si sta ponendo all’attenzione degli operatori del settore, i
quali, impegnati a svolgere il loro lavoro perlopiù in contesti terapeutici,
hanno compreso che investire in progetti di carattere preventivo vorrebbe dire
ottenere numerosi benefici per la salute pubblica. Attualmente anche
l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha riconosciuto tale settore come
quello in cui concentrare gli sforzi e gli interventi futuri e, trattandosi di un
campo in forte espansione, si è ritenuto importante nel corso del primo
capitolo, soffermarsi brevemente sulla sua storia.
Verrà pertanto ritrascorsa l’evoluzione del concetto di prevenzione,
concetto nato principalmente in campo medico e successivamente esteso
anche al campo dei disturbi psichici, con non poche difficoltà connesse alla
sua definizione. Ci si soffermerà inoltre sulla recente inversione di rotta che ha
portato ad un’ulteriore modifica della nozione di prevenzione secondo
un’ottica maggiormente positiva quale quella della Promozione della Salute e
del Benessere e si farà riferimento quindi ad alcuni macro-obbiettivi senza i
quali una vera promozione della salute psichica non potrà avere luogo: in
particolare verrà trattato il tema dello stigma e dei limiti che esso comporta
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nella possibilità di realizzare una piena accettazione della malattia psichica da
parte della comunità, ci si soffermerà in seguito sul ruolo della famiglia e della
scuola, coinvolte nell’importante compito di promuovere una vera educazione
alla salute tra i bambini ed i ragazzi, ed infine sui contributi delle teorie della
resilienza, che hanno conferito un’impronta di positività, centrale nel
ridimensionare la visione negativistica dello sviluppo ereditata dalle teorie del
passato. Verranno quindi riportati i dati sulla diffusione delle malattie mentali
nel mondo anche attraverso riferimenti ai costi sociali, familiari e individuali
che tale situazione comporta; infine si farà riferimento ad un report del
Surgeon General of United States e al Progetto PRISMA (Progetto Italiano
Salute Mentale) attraverso i quali è stato possibile delineare il quadro circa la
diffusione dei disturbi mentali in infanzia negli Stati Uniti, e nei
preadolescenti in Italia.
Due requisiti fondamentali che la concreta attuazione di un progetto di
carattere preventivo richiede sono:
1. l’essere sostenuto da ricerche che ne individuino gli strumenti ai quali
ricorrere e i possibili obbiettivi da raggiungere;
2. fondarsi su di una solida teoria di riferimento.
Rispetto a questo secondo punto, si è scelto di partire da una delle teorie
dello sviluppo che attualmente soddisfa entrambe le richieste di validità e di
solidità, ovvero la Teoria dell’Attaccamento.
Nel corso del secondo capitolo si aprirà una trattazione sui concetti
basilari della teoria sviluppata da John Bowlby, in particolare verrà enfatizzato
il contenuto di innovazione teorica e metodologica, rispetto alle concezioni
sino ad allora diffuse in ambito psicoanalitico sul mondo dell’infanzia. Non si
potrà non fare riferimento in proposito, al lavoro di Mary Ainsworth, ideatrice
della procedura osservativa nota con il nome di Strange Situation, che ha
permesso l’individuazione dei diversi pattern di attaccamento del bambino, e
al successivo contributo di Mary Main nel creare uno strumento di valutazione
dell’attaccamento adulto, l’Adult Attachment Interview, deducibile dagli stili
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narrativi impiegati dagli stessi adulti per descrivere le loro esperienze infantili
di attaccamento; il lavoro di quest’ultima autrice condurrà infine a dare
sostegno alla realtà della trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento tra
adulto e bambino.
La Teoria dell’Attaccamento può godere oggi del contributo di numerosi
ricercatori che hanno sentito l’esigenza di espandere i concetti teorici proposti
da Bowlby, attraverso ricerche longitudinali sugli esiti psicopatologici di stili
di attaccamento distorti. Il terzo capitolo si incentrerà quindi sugli studi
condotti nell’ambito di una disciplina oggi in forte espansione, la
Developmental Psychopathology, la quale è riuscita a dimostrare quanto le
categorie di attaccamento insicuro e attaccamento disorganizzato possano
oggi essere considerate dei centrali fattori di rischio per il futuro sviluppo di
disturbi psichici di diversa natura tra cui il disturbo borderline di personalità.
L’importante elemento di innovazione presente in queste teorie è
rappresentato da una nuova concezione dello sviluppo individuale inteso in
termini evolutivi e dinamici, in cui il mondo dell’infanzia e quello dell’età
adulta non sono più viste come fasi della vita distanti e separate bensì
strettamente collegate da una serie di meccanismi psichici complessi che ne
mediano la continuità. All’interno di tale teoria l’individuo verrà sempre
considerato in costante interazione con il suo ambiente di vita; in particolare
verrà attribuita alla dimensione relazionale il ruolo di principale responsabile
nelle molteplici traiettorie di sviluppo che il soggetto potrà intraprendere, e tra
queste verrà inserito il legame di attaccamento.
Una volta portati dati a sostegno del fondamentale ruolo svolto dalle
precoci esperienze con le figure significative nel determinare il futuro sviluppo
psichico dell’individuo, nell’ultimo capitolo ci si interrogherà sulle reali
applicazione delle teorie di John Bowlby nell’ambito di una prevenzione di
tipo universale (primaria) e selettiva (secondaria). Verranno considerati in
particolar modo due diverse aree di intervento: la prima è quella della
genitorialità e della maternità, nella quale, dal confronto con le politiche
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preventive attuate in altri paesi Europei, emergerà una situazione di
arretratezza del sistema italiano nel promuovere interventi atti a favorire lo
sviluppo di una sana relazione madre-bambino; l’altra area sarà quella dei
contesti educativi, in particolar modo degli asili nido e delle scuole
dell’infanzia, in cui i la conoscenza teorica dei contributi di John Bolwby e
l’impiego di strumenti di valutazione idonei da parte delle stesse educatrici,
consentirebbero l’individuazione precoce dei disagi emotivi e sociali
direttamente riconducibili a legami di attaccamento distorti con la principale
figura di accudimento.
La convinzione che guida tutto il lavoro si racchiude nell’idea secondo la
quale non esista un’epoca tanto significativa per l’attuazione di politiche
preventive quanto quella dell’infanzia.
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CAPITOLO I
IL CONCETTO DI PREVENZIONE IN PSICOLOGIA
“An ounce of prevention is worth a pound of cure”
(Un’ oncia di prevenzione vale quanto una libbra di cure)
(proverbio tradizionale)
1.1. Introduzione
Lo studio e l’applicazione di modelli preventivi rappresentano sempre più
delle importanti scommesse per chi opera nel campo della salute mentale e
proprio negli ultimi anni si sta assistendo ad un notevole sviluppo del settore
della prevenzione, soprattutto in Italia. A testimoniarlo è il numero crescente
di pubblicazioni nel campo della ricerca scientifica applicata alla prevenzione:
emerge infatti che dal 1995 al 2005, gli articoli relativi a questo ambito,
apparsi nelle riviste indicizzate del più importante motore di ricerca
(PsycInfo), rappresentano più del 50% della totalità dei contributi (Santinello,
Vieno, 2006).
Tale interesse costituisce quindi fatto recente e, benché sia facile
riscontrare un cauto entusiasmo tra i ricercatori, la strada per la concreta
realizzazione di una “cultura della prevenzione” sembra ancora molto lunga.
Il termine prevenzione vuol dire letteralmente “avere cura prima”,
anticipare qualcosa che con molta probabilità si verificherà in futuro, o in
un’accezione negativa, evitare che un evento sfavorevole accada. È in questa
stessa definizione che è possibile ravvedere la principale difficoltà racchiusa
in essa: si tratta infatti di intervenire su di un qualcosa che non si è ancora
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manifestato e ciò implica necessariamente l’individuazione di cause certe
coinvolte nell’eziologia dell’evento stesso.
La situazione si complica maggiormente in riferimento alle malattie
psichiatriche, in quanto in tale ambito «la prevenzione lavora per eliminare
sintomi che ancora non sono» (Masoni, 1997 p. 18); i disturbi psichici sono
inoltre condizioni caratterizzate da elementi comuni e allo stesso tempo rese
uniche e specifiche dalla stessa unicità e specificità dell’individuo che le
esprime.
Nel corso di un breve excursus storico sulla prevenzione, nel quale si farà
riferimento ai contributi dei principali autori che si sono espressi
sull’argomento, ci si soffermerà sull’attuale cambio di paradigma che ha
ribaltato completamente il concetto di prevenzione in un’accezione
maggiormente positiva quale quella della Promozione della Salute Mentale e
del Benessere.
In conclusione, al fine di rispondere alla provocatoria domanda sul
“perché attuare progetti di prevenzione” verranno riportati degli importanti
dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sulla emergenza
rappresentata dalla diffusione dei disturbi mentali nel mondo. Ad essi faranno
seguito due ulteriori documenti: il primo permetterà di conoscere la critica
situazione presente negli Stati Uniti d’America rispetto alla preoccupante
realtà della diffusione dei disturbi psichici in infanzia e in adolescenza, mentre
il secondo si concentrerà su uno studio epidemiologico condotto in Italia, che
ha permesso di fotografare le condizione di salute mentale dei giovani
preadolescenti del nostro paese.
1.2. Storia della prevenzione e sue definizioni
Nel 2004, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha definito la
prevenzione dei disturbi mentali come la «riduzione dell’incidenza, della
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prevalenza e della ricorrenza [di essi], della durata dei sintomi, delle
condizioni di rischio della malattia mentale e inoltre come la riduzione
dell’impatto della malattia sulla persona affetta, sulla sua famiglia e sulla
società» (WHO, 2004, p. 17).
Tale definizione è il risultato di un percorso storico-culturale che sin dai
suoi esordi ha considerato la prevenzione come concetto medico per
eccellenza e quindi mal adattabile alla sfera dei disturbi mentali, per varie
ragioni che nel corso di questo primo capitolo verranno esaminate.
Dalla ricostruzione storica sul concetto di prevenzione, proposta nel
dettaglio da Patricia Beezley Mrazek e Robert J. Haggerty (1994), emerge che
il primo modello ebbe origine poco più di 100 anni fa nel campo delle malattie
infettive, considerate la principale causa di morte nel 1900. Attraverso il
ricorso ai vaccini e al miglioramento delle condizioni igieniche fu possibile
riscontare che il tasso di mortalità legato a tali malattie diminuì drasticamente;
da qui ebbe inizio la diffusione di modelli preventivi sempre più estesi relativi
a patologie non infettive e ad altri disturbi cronici. Il concetto di prevenzione
nasce dunque in ambito medico e continuerà ad espandersi solo in questo
contesto per molti anni.
La ben nota tripartizione proposta da Gerald Caplan nel 1964, che vede
tale concetto scisso in prevenzione primaria, secondaria e terziaria ebbe in
realtà origine da un precedente contributo della Commission on Crhonic
Illness del 1957 la quale offrì la seguente suddivisione:
• Prevenzione Primaria: insieme di interventi che mirano alla riduzione
del numero di nuovi casi di un disturbo o di una malattia (incidenza);
• Prevenzione Secondaria: misure che cercano di ridurre la prevalenza,
ossia la percentuale di casi affermati di un disturbo o una malattia nella
popolazione attraverso interventi di screening;
• Prevenzione Terziaria: interventi volti a limitare la disabilità associata
a disturbi o a malattie conclamate.
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Proseguendo con l’esame del testo di Mrazek e Haggerty (1994) si arriva
a conoscere un ulteriore sistema di classificazione della prevenzione di
malattie intese in termini organici, proposto da J.R. Gordon nel 1983 e
sviluppato all’interno di un’ottica di comparazione tra costi e benefici; l’autore
ritiene che ai fini di un approccio pratico alla prevenzione ci si debba basare
solo ed esclusivamente su dati empirici e nello specifico, affinché il modello
possa garantire buoni risultati, i benefici di un intervento preventivo
dovrebbero risultare maggiori ai rischi associati alla presenza del disturbo1.
Tale sistema prevede una distinzione in prevenzione universale, selettiva e
misure preventive mirate.
Le misure preventive universali si applicano nei confronti della
popolazione in generale o di tutti i membri di ampi gruppi specifici come
donne in gravidanza, bambini o anziani per i quali, secondo Gordon, non è
richiesta necessariamente una consulenza o un’assistenza professionale; si
tratta di interventi i cui benefici superano in ogni caso i rischi e i costi.
Le misure preventive selettive sono rivolte a individui o sottogruppi della
popolazione in cui i rischi di insorgenza di un disturbo sono significativamente
superiori alla media rispetto alla popolazione generale. Tali sottogruppi
potrebbero essere distinti attraverso vari criteri quali l’età, il genere, la storia
familiare, in ogni caso si tratta di soggetti che, considerati individualmente, si
trovano in una condizione di perfetta salute. Un esempio proposto da Gordon è
quello della mammografia annuale prescritta a donne che presentano
familiarità per il tumore al seno.
Infine misure preventive mirate si attuano nei confronti di persone che
rientrano in gruppi ad alto rischio per il futuro sviluppo di una malattia.
All’interno di questa categoria rientrano individui asintomatici rispetto ad un
disturbo specifico ma che presentano anomalie clinicamente dimostrabili per
la cui individuazione risultano necessari programmi di screening.
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E’importante ribadire che tale intervento si colloca ancora all’interno di un modello di
prevenzione che ha come riferimento la malattia organica e non il disturbo mentale.
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1.3. La prevenzione nel campo della salute mentale: necessità di nuove
definizioni
Molte critiche sono state rivolte al modello tripartitico di Caplan prima e
al modello di Gordon poi nel momento in cui si è tentato di trasporli ed
applicarli dal campo dei disturbi fisici a quello della malattia mentale: a
differenza dell’ambito medico in cui la relazione causa-patologia risulta
lineare e in cui si ha «un tempo perlopiù breve che intercorre fra l’esposizione
alla causa e l’insorgere dei sintomi» (Ammaniti, 2006, p. 313), nell’ambito
della patologia mentale il principio della causalità diretta viene meno per le
seguenti ragioni:
• La multifattorialità dei disturbi psichici: i fattori che si intrecciano nel
determinare l’insorgenza di un disturbo sono molteplici e generalmente
individuati nel contesto biologico, psicologico e sociale;
• Le condizioni di malattia si manifestano in modo disomogeneo da
individuo a individuo, i sintomi riportati da soggetti con una stessa
diagnosi possono variare notevolmente tra loro rendendo più difficile
l’individuazione di uno specifico disturbo; nel campo medico invece
sono proprio i segni, rilevabili in modo oggettivo, a permettere il
riconoscimento “certo” di una determinata sindrome;
• Di alcune malattie psichiche sono noti solo alcuni fattori causali;
• In Salute Mentale molte patologie non rispettano lo schema Causa-
Patologia; in tal senso, più che di cause, è preferibile ricorrere alla
espressione “fattori di rischio” che porta con sé un accezione meno
deterministica;
• Bambini molto piccoli, dalla nascita a 5 anni, spesso non sono
diagnosticabili come probabili casi psichiatrici ma come individui
soggetti a menomazioni dello sviluppo psico-sociale e cognitivo
(Mrazek, Haggerty, 1994). Inoltre i numerosi cambiamenti dei primi
anni di vita e le difficoltà che li accompagnano, possono facilmente
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essere scambiati per sintomi di una patologia psichica quando invece
sarebbero da considerare indici di un malessere temporaneo e
risolvibile nel breve periodo.
Attualmente l’individuo viene considerato come un tutt’uno bio-psico-
sociale; le teorie della personalità più recenti convergono nel ritenere che a
partire da un substrato biologico geneticamente determinato, che trova la sua
espressione nel temperamento, l’individuo sviluppi la propria personalità
attraverso le relazioni significative instaurate in età infantile e poi via via
nell’età adulta. Oltre alle relazioni, il contesto sociale e di vita, le condizioni
familiari, la marginalità sociale, le esperienze traumatiche sono solo alcuni
degli innumerevoli fattori che intrecciandosi tra loro, contribuiscono in modo
probabilistico a determinare lo sviluppo verso una maggiore o minore salute
mentale. Il modello bio-psico-sociale della personalità risulta oggi di ampia
accettazione nonché di semplice comprensione ma il percorso che ha condotto
a considerare la personalità in termini olistici può essere considerato a tutti gli
effetti una conquista che ha permesso di rendere merito alla complessità della
materia oggetto di studio della psicologia: la persona.
Tra gli autori che hanno dato un contributo significativo in questa
direzione c’è sicuramente Kurt Lewin che, con la sua “Teoria del Campo”
sviluppata negli anni 40, ha permesso di dare una sferzata ad una concezione
individualistica dell’uomo, sottolineando il legame che in modo indissolubile
lega l’individuo al proprio ambiente sin dalla nascita e, all’interno del quale,
entrambe le forze del campo si influenzano reciprocamente nel tempo. In
breve, secondo Lewin, non è possibile scindere l’individuo dal suo ambiente;
in questa nuova accezione la personalità viene considerata un sistema
dinamico complesso che, grazie alla sue capacità di adattamento, è in grado di
evolversi verso un equilibrio e una complessità sempre maggiore.
La concezione sociale in psicologia pone alla base dei suoi studi due
concetti cardine che Guido Contessa (1994), nel suo testo dal titolo La
Prevenzione, riassume in estrema sintesi nel seguente modo: laddove il
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