PREFAZIONE
2. Dichiarazione degli intenti
I. Oggetto di questa ricerca non è soltanto l'etnopsicoanalisi, ma anche, o forse soprattutto, la "rete" di
conoscenze in cui è inserita, la "matrice" epistemologica da cui emerge ed il vasto "campo" di studi, da
essa appunto attivato negli ambienti culturali europei ed italiani in particolare, sulle teorie e le tecniche
terapeutiche di impostazione “storicistico-relazionale”.
In particolare, questa tesi parla di etnopsicoanalisi, da un punto di vista gruppoanalitico, attraverso metodi
“enciclopedici” e “genetici” di osservazione e ricerca, inserendosi così all'interno del campo di ricerca
dell'epistemologia della complessità. E proprio da un atteggiamento epistemologico complesso nasce
infatti la necessità di collegare l'"oggetto" dell'azione di conoscenza, in questo caso l'etnopsicoanalisi, al
"vertice" da cui parte l'azione di conoscenza, al "mezzo" con cui, ed al "contesto" in cui, si svolge
concretamente quest'azione.
Le molteplici relazioni tra l'"oggetto", il "vertice", il "mezzo" ed il "contesto" dell'azione di conoscenza
possono essere visualizzate nel modello dell'"equazione relazionale complessa"; inizialmente elaborata dai
gruppoanalisti italiani Girolamo Lo Verso e Marina Papa (1993) per illustrare il procedere conoscitivo nella
loro pratica terapeutica e successivamente sviluppato come modello ecologico generale dell'azione di
conoscenza. (Lo Verso, Papa, 1995b)
Evidenziamo così:
! l'Oggetto della conoscenza (l'esperienza);
! la Teoria di riferimento (la metapsicologia);
! il Metodo di costruzione e valutazione della conoscenza (l'osservazione e l'intervento);
! l'Ambiente epistemologico in cui tutto questo viene stabilito (l'atteggiamento).
PREFAZIONE
3. Definizione dei problemi
I. Nello scrivere questa tesi, mi trovo ad affrontare diversi problemi, la maggior parte dei quali, comuni a
tutte le tesi di psicologia. Tra questi, da affrontare subito, sono i "problemi di definizione". Quelli, cioè,
riguardanti il campo di ricerca in cui è inserita ed i concetti che si trovano al suo interno.
Considero questa tesi una ricerca, attraverso le conoscenze prodotte dalla psicologia clinica, di modelli
preliminari alla fondazione di una "psicologia culturale" che affianchi, così, ai suoi tradizionali metodi di
ricerca (metodo antropologico, sociologico, storicistico, ecc.), anche quello clinico.
Come ci ricorda il gruppoanalista italiano Corrado Pontalti (1991): "la psicologia clinica deve oggi porsi
come la scienza che pensa le trame conoscitive dell'operare psicologico, psicoterapeutico e medico". Egli,
tra l’altro, in tale definizione non parla di psichiatria proprio perché rifiuta la contrapposizione tra scienze
psichiatriche e scienze psicologiche.
La conoscenza clinica è figlia del dispositivo, di cura e di presa in carico, in cui si svolge l'operare clinico.
Essa è dunque autentica se, ed in quanto, necessaria ad alleviare le sofferenze degli individui e dei gruppi
di individui che richiedono un aiuto specifico alla loro esistenza: un "aiuto clinico". L'aiuto clinico è quindi un
aiuto tecnico che si esplica nella costruzione di un "dispositivo di intervento", attraverso l'elaborazione di
una teoria della tecnica, di una teoria sugli individui e sui gruppi di individui, di una teoria sui processi
naturali di cambiamento ed evoluzione ed , in fine, di una teoria della conoscenza e della comunicazione
umana.
Il dispositivo di cura, dell'operare psicoterapeutico viene ridefinito, da Girolamo Lo Verso (1994), "Set
(ting)"; in esso si svolgono le procedure terapeutiche, si intrecciano le relazioni tra i soggetti, e le
soggettività, che lo compongono e si compiono le costruzioni delle conoscenze necessarie alla presa in
carico dell'utenza. (vedi 3.3.1,II)
L'operare clinico svolge quindi una funzione pragmatica ed una semantica; intrecciate, spesso insieme, e
necessarie, l'una all'esistenza dell'altra. All'interno del dispositivo di cura deve infatti svolgersi sia la
"significazione" sia la "trasformazione" della sofferenza del paziente.
II. La funzione semantica svolta dal dispositivo psicoterapeutico, consiste nella "comprensione" ed
"interpretazione" della sofferenza del paziente. La pratica clinica, si trova così a confrontarsi con un metodo
di conoscenza nato nel campo della ricerca filosofica e già utilizzato per la ricerca storica, antropologica,
sociale e giuridica: il "metodo ermeneutico".
"Ermeneutica" deriva dal termine greco antico "herméneia", che contiene in sé una famiglia di significati
quali: "l'esprimere", "il tradurre", "l'interpretare" o "il portare messaggi". Possiamo così tradurre
l'ermeneutica, come l'attività di espressione e formulazione del senso di un testo distante (per motivi storici,
linguistici, culturali...), dal suo interprete. Il concetto di "testo distante" è da intendere, psicologicamente,
come: "testo il cui significato non risulti immediatamente evidente". Perché possa svilupparsi un'attività
ermeneutica, è quindi necessaria una sensazione di estraneità ed una intenzione epistemica da parte
dell'interprete.
Lo storicismo tedesco, fondato alla fine del secolo scorso dal filosofo Wilhelm Dilthey, considerò come
"testo da interpretare" qualsiasi "opera o fatto umano". Questi ultimi dovevano così essere compresi
attraverso la ricostruzione del loro manifestarsi storico ed del contesto dinamico del quale fanno parte.
Diverse discipline sociologiche, antropologiche, mediche e psicologiche, proliferate all'interno dell'etichetta
"etnopsichiatria", utilizzano tale modello ermeneutico per lo studio, la comprensione e la classificazione
delle sindromi e dei disturbi presenti nelle diverse culture.
Il metodo clinico si basa invece su un diverso modello ermeneutico, formalizzato per la prima volta, agli
inizi del secolo, dal filosofo tedesco Martin Heidegger. Tale modello annulla la demarcazione netta tra il
"mondo originario" da ricostruire ed il "mondo attuale" in cui avviene la ricostruzione. Questi due mondi
sono legati da un medesimo processo, che si svolge nel tempo, che li coinvolge entrambe e, grazie al
quale, sono in rapporto tra di loro. L'irreversibilità temporale che caratterizza questo processo non
permette, quindi, il riproporsi del "mondo originario" al "mondo attuale".
Heidegger forza, infatti, l'etimologia del termine "ermeneutica" facendolo derivare direttamente dal nome
greco Hermes: il messaggero degli dei, colui che collega i mondi. (vedi 4.1.3,IV)
La funzione ermeneutica si manifesta così nella relazione tra i due poli dell'attività di conoscenza.
Attraverso tale relazione l'oggetto ed il soggetto di conoscenza si intenzionano reciprocamente.
Il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer, allievo di Heidegger, ci ricorda, nel suo saggio, dei primi anni
sessanta, "Verità e metodo", che questo modello ermeneutico permette di considerare l'attività di
conoscenza, come il dare la possibilità all'oggetto conosciuto di intraprendere una nuova esistenza.
L'intenzione che lo ha creato e di cui porta testimonianza, si incontra infatti con quella epistemofila del
soggetto che lo ricerca ed interpreta. Le "precomprensioni" ed i "pregiudizi" del soggetto intenzionano il
significato dell'oggetto, così come l'intenzione originaria dell'oggetto dà significato alle precomprensioni ed
ai pregiudizi del soggetto, che possono così esser conosciuti o riconosciuti.
I due poli dell'avventura ermeneutica si trovano così in una relazione circolare, detta "circolo ermeneutico",
che si mantiene grazie ad una relazione costante tra l'"estraneità" e la "familiarità" reciproca. Il circolo
ermeneutico non permette la totale e definitiva conoscenza dell'un polo sull'altro, ma la costruzione di
sempre nuove conoscenze frutto dell'incontro dei molteplici intenzionamenti di cui ciascuno dei due poli
porta testimonianza.
III. Il metodo clinico permette alle discipline medico-psicologiche "etnopsichiatriche" di contribuire alla
formazione di una "psicologia culturale" con conoscenze radicalmente diverse; perché ottenute attraverso
"dispositivi di intervento" che per definizione si fondano sulla circolarità ermeneutica. La conoscenza
prodotta diventa così una "rilettura", di un fatto o accadimento, che si sovrappone senza sostituirla mai
completamente a tutte le altre letture precedenti del medesimo fatto.
La comprensione non è quindi un rispecchiamento di un testo, ma la costruzione di un nuovo testo da
rileggere d'accapo; non è la spiegazione di un fatto, ma l'accadere di un nuovo fatto con conseguenze
imprevedibili nel processo che lega i protagonisti dell'avventura ermeneutica.
La dialettica tra il detto ed il non detto, il visibile e l'invisibile, l'esplicito e l'implicito, il possibile e
l'imprevedibile, sostiene così la relazione tra i poli dell'azione di conoscenza e tra le conoscenze che
ciascuno di questi media e contribuisce a costruire.
Ritornando all'oggetto originario dell'ermeneutica, il "testo distante dal suo interprete", questo è adesso da
intendersi psicologicamente come: "testo il cui possibile significato non risulti né immediatamente evidente,
né totalmente assurdo".
IV. La gruppoanalisi e l'etnopsicoanalisi, messe in relazione, in queste pagine, come i due poli di un'attività
di conoscenza, risultano così reciprocamente intenzionantisi. L'etnopsicoanalisi interpreta la gruppoanalisi
attraverso un punto di vista proprio, mentre è osservata e studiata da questa. Tale relazione avviene in
maniera necessariamente adeguata all'ambiente epistemologico che le permette di sopravvivere.
La circolarità ermeneutica fonda la relazione autentica tra due soggetti autonomi; e l'epistemologia della
complessità garantisce che questa circolarità si instauri tra le due discipline di studio. (vedi pref.2,V/F)
La gruppoanalisi e l'etnopsicoanalisi assumeranno quindi in questo studio una forma necessariamente
differente da quella che assumerebbero se presentate separatamente. Un comune orizzonte
epistemologico le lega ad un processo di conoscenza auto-eco-organizzantesi.
L'ambiente epistemologico alimenta infatti la produzione di conoscenza attivando il rapporto tra i due poli
del processo. Tale rapporto si sviluppa attraverso le caratteristiche proprie dei due attori del processo, e
trasforma quindi reciprocamente l'ambiente epistemologico che lo alimenta e lo ha istituito attraverso i
propri intenzionamenti.
Anche l'epistemologia della complessità assumerà dunque in questo lavoro una forma necessariamente
differente da quella che assumerebbe se presentata separatamente, ed il metodo di costruzione delle
conoscenze non potrà che essere, a sua volta, "complesso". (vedi pref.2,III/F)
L'epistemologia della complessità non è infatti un'epistemologia "normativa", che osserva dall'esterno i
processi di produzione di conoscenza, ma un'epistemologia "naturale" che partecipa alla costruzione delle
conoscenze, assumendo contemporaneamente sia un ruolo esterno (di contesto), che uno interno (di
metodo), e studiando poi le relazioni che intercorrono tra i due livelli attraverso il confronto con altre
epistemologie naturali, come l'"epistemologia genetica" di Jean Piaget (vedi 1.2.1,III) e l'"ecologia
sistemica" di Gregory Bateson (vedi 1.3.3,III).
Il soggetto di conoscenza non ha quindi di fronte a se un semplice oggetto, ma è inserito in un intero
ambiente da interpretare, e che lui stesso contribuisce a creare. Da qui la metafora del "punto di vista" o
della "prospettiva" per indicare il vertice di ogni azione di conoscenza; ma anche quella del "campo" e della
"matrice", per indicare l'ambiente in cui nasce ed agisce il soggetto. (vedi 2.intr,I)
V. Il fenomeno del "nomadismo culturale" tra le discipline della tradizione scientifica occidentale sembra
oggi richiamare maggiore interesse rispetto al passato; se non altro perché evidenzia una possibile fonte di
ambiguità ed errore, per la definizione degli oggetti di ogni programma di ricerca. La produzione scientifica,
all'interno di qualsiasi disciplina, deve così affrontare il problema della definizione e dell'inquadramento
storico-culturale, non solo delle discipline ad essa contigue, ma anche dei termini e dei concetti da queste
utilizzati. (Preta, 1997)
Le "contaminazioni" tra i concetti, ed il continuo passaggio, da una disciplina all'altra, di teorie, metodi e
tecniche, vanno comunque considerati come fenomeni di una naturale "ecologia delle idee". Il problema di
definizione che pongono, apre, infatti, alla possibilità di studiare il "tessuto connettivo" e la "dinamica
generativa" dalla quale emergono e, grazie ai quali, si sviluppano; malgrado la ancora rigida
compartimentazione disciplinare degli ambienti accademici occidentali.
Tale compartimentazione non riesce, infatti, ad annullare le interazioni tra le diverse discipline, ma le rende
spesso nascoste, sotterranee, implicite, presentandole come potenziale fonte di disordine accademico.
Questa tesi si fonda, invece, proprio sullo studio delle relazioni intra-, inter- e trans-disciplinari; valorizzando
la virtuosità, e non la viziosità, dello scambio delle conoscenze messe in circolo dalle diverse discipline da
me prese in considerazione.
Termini come "complessità", "autorganizzazione", "evoluzione", "campo", "frattale", "ologramma", "matrice"
e non ultimo "bootstrapping", sono oggi legati ai nuovi modelli psicologici, che stanno sostituendosi o
anche semplicemente accostandosi a quelli precedenti, già organizzatisi sulla scorta di modelli fisici,
biologici o filosofici. Tali nuovi modelli, che possiamo definire "ecologici", possono essere considerati
modelli di livello logico superiore a quelli precedenti, perché appartengono al grande campo di ricerca delle
scienze che studiano i "processi creativi".
Tramite essi, sembra inoltre che la nostra tradizione culturale possa avviare un dialogo autentico con le
altre tradizioni del pianeta; cominciando, a metà di questo secolo, con quelle dell'estremo oriente.
Questi nuovi termini portano con sé un alone semantico ed affettivo, testimone della storia dei loro
attraversamenti disciplinari, che non rende sempre possibile, un loro coerente inserimento nei modelli
psicologici, senza una radicale eliminazione delle incongruenze e degli anacronismi, che li caratterizzano,
ma anche delle originalità euristiche che presentano. Tuttavia, è spesso proprio quest'alone semantico ed
affettivo, di cui è difficile la completa eliminazione, a determinarne l'effettiva utilizzazione ed affermazione.
I nuovi modelli ecologici riscoprono, tra l'altro, termini e concetti già utilizzati dalla tradizione "gestaltista",
"sociale" o "situazionale" della psicologia. Tale riscoperta porta così ad un contagio ed una risignificazione
reciproca, ma anche ad una rivalutazione dei concetti che erano tradizionalmente rimasti in ombra, o non
avevano potuto manifestare la loro valenza euristica.
Il concetto di "campo" risulta emblematico, perché, pur essendo stato formalizzato, per la prima volta in
psicologia, all'interno della "teoria della gestalt" (vedi 1.2.1,II), è stato poi, a più riprese, riutilizzato all'interno
di molte altre teorie psicologiche con significati non sempre identici. All’interno delle ricerche
psicodinamiche sul contesto terapeutico del gruppo analitico il concetto di campo è stato recentemente
ripreso dallo psicoanalista Francesco Corrao e dal gruppoanalista Girolamo Lo Verso (vedi 3.3.3,II).
Tali significati fanno parte di quell'alone semantico ed affettivo, che si è sedimentato nelle alterne vicende
che il termine "campo" e le teorie che utilizzano questo nome hanno attraversato, soprattutto, nella storia
della fisica moderna e contemporanea. Quest'ultima è, tra l'altro, la disciplina che, nell'ultimo secolo, con le
sue straordinarie scoperte scientifiche ha sconvolto e riorganizzato più volte l'idea di "Mondo" e di "Natura"
della tradizione culturale occidentale.
Compito di questa tesi non è quello di indagare e ricostruire la "dinamica generativa" che, nella storia della
scienza occidentale, ha condotto alla definizione attuale dei concetti scientifici sopra riportati. Tuttavia è
necessario l'inquadramento storico preliminare di alcuni dei concetti fisici e matematici più utilizzati in
questo lavoro; proprio per valutare al meglio la portata del loro alone semantico ed affettivo.
VI. L'irrompere sulla scena scientifica europea, nella seconda metà dell'ottocento, del concetto di campo
infranse per la prima volta il predominio del modello meccanicistico newtoniano, fondato sulle leggi della
gravitazione universale.
Tale concetto fu elaborato dallo scienziato inglese Michael Faraday e dal suo allievo Clerk Maxwell, i quali,
scoprendo i fenomeni fisici dell'elettricità e del magnetismo, allorché si accorsero di non poterli spiegare
adeguatamente utilizzando il modello meccanicistico, proposero e successivamente svilupparono la teoria
dell'"elettromagnetismo".
La nuova teoria sostituì il concetto di "campo" a quello di "forza". La forza era la grandezza fisica che
serviva a descrivere e misurare le cause del movimento di un corpo. Il "campo" è invece una caratteristica
condizione dello spazio che determina e spiega i cambiamenti di un corpo e del suo movimento.
L'interazione tra le cariche elettromagnetiche non può soltanto essere quella della reciproca "attrazione" e
"repulsione", secondo le leggi del moto newtoniane, ma quella della "perturbazione" e "organizzazione",
ciascuna dello spazio a sé circostante, in modo che l'altra ne avverta l'effetto sotto forma di "forza".
VII. Il concetto di campo subì una radicale trasformazione, nella seconda metà del novecento, grazie alla
fusione dell'"elettrodinamica" con la "meccanica quantistica" nell'"elettrodinamica quantistica". La fisica
moderna aveva, allora, già subito una delle più radicali rivoluzioni della sua storia.
All'inizio del novecento, infatti, erano due le teorie scientifiche che spiegavano, dividendosi il campo, la
totalità dei fenomeni fisici: la meccanica di Newton e l'elettrodinamica di Maxwell. Ma i primi tre decenni del
secolo videro nascere e svilupparsi separatamente due nuove teorie scientifiche che aprirono a dismisura
gli ambiti della ricerca fisica: la "teoria della relatività" e quella della fisica atomica, o meglio "subatomica".
La prima fu l'impresa intellettuale di un uomo solo, Albert Einstein. La seconda invece nacque dalla
compartecipazione di innumerevoli ricerche prodotte nei più diversi laboratori dell'occidente; nella sua
forma definitiva, conosciuta come "meccanica quantistica". Essa fu elaborata dal più grande gruppo di
ricerca che il mondo scientifico abbia mai conosciuto; composto, tra gli alti, dal tedesco Werner
Heisemberg, dal danese Niels Bohr, dagli austriaci Erwin Schrodinger e Wolfgang Pauli, dal francese Louis
de Broglie e dall'inglese Paul Dirac.
Nacque così un concetto completamente nuovo: il concetto di "campo quantistico", che sostituiva quello
precedente di "campo di forze", trasferendo su un livello differente la "reciprocità dicotomica" che lo
caratterizzava. Mentre prima era una "reciprocità dinamica tra due polarità" adesso si tratta di una "dualità
complementare campo-corpuscolo". L'elettrodinamica quantistica descrive le relazioni non tra i semplici
corpi, studiati dalla fisica classica, ma tra le particelle subatomiche che sono state osservate dalla fisica
atomica. Ciascuna particella subatomica è associata ad un diverso tipo di campo, e viene considerata
come una condensazione locale del campo stesso. La particella diventa, quindi, la prova dell'esistenza del
campo, ma anche la sorgente del campo.
L'immagine dell'universo come macchina risulta così definitivamente trascesa; osservato ad un livello
subatomico, le interazioni tra le parti che lo compongono sono più "fondamentali" delle parti stesse.
VIII. Lo studio delle relazioni tra le particelle subatomiche tende, nei infatti, all'integrazione della teoria della
relatività e di quella quantistica, in "modelli quantistico-relativistici" che cercano di descrivere quanti più
fenomeni subatomici possibili. Le teorie dei campi quantistici sono state le prime ad integrare le due teorie
basilari della fisica moderna.
Esiste però anche un diverso tipo di teorie che riescono a mettere bene in relazione i fenomeni quantistici e
relativistici del mondo subatomico; questo è noto come l'approccio del bootstrap, ed è stato innaugurato
con la "teoria della matrice S", di Heisemberg. La lettera "S" sta per "scattering", che è il termine inglese
per indicare il processo di diffusione che ha luogo nell'urto tra le particelle.
Le interazioni tra le particelle vengono così studiate osservando gli effetti dei loro urti e comparandoli con
l'intero insieme dei possibili eventi prodotti dagli urti, ordinati in una tabella infinita detta appunto matrice.
Attraverso la matrice di diffusione diventa così possibile, per coerenza interna, risalire dallo stato finale di
un esperimento, a quello iniziale. (Capra, 1982)
IX. Agli inizi della seconda metà del novecento il fisico Geoffrey Chew elaborò una teoria generale delle
particelle subatomiche e della natura in genere, che segnò la nascita della cosiddetta "filosofia bootstrap".
"Bootstrap" in inglese vuol dire "tirante di stivale" o "calzascarpe"; donde il concetto di "processo di
bootstrapping", che vuol dire tirarsi paradossalmente in aria dai propri stivali. Questo è un processo
autoalimentato, fatto senza appigli esterni; come il tirarsi fuori dalla palude, del Barone di Munchhausen,
aggrappandosi al proprio codino. (Watzlawick, 1988)
Tale filosofia intende studiare la natura esclusivamente attraverso la sua propria coerenza interna,
rinunciando a cercarne quindi le componenti fondamentali; dato che queste devono comunque avere
quelle proprietà che assicurino l'ordine riscontrato nei processi subatomici.
Gli aspetti quantistici e relativistici delle interazioni tra le particelle subatomiche vanno considerati come la
necessaria conseguenza della coerenza interna, come l'emergenza dell'interconnessione degli eventi
subatomici.
X. L'approccio del bootstrap fu tra i primi ad opporsi all'interpretazione ortodossa della teoria quantistica, la
cosiddetta "interpretazione di Copenaghen"; la città sede dell'istituto diretto da Niels Bohr, dove nel 1926 si
erano riuniti, per diversi mesi, i padri della fisica quantistica per affrontare insieme, e tentarne una
chiarificazione complessiva, i paradossi e gli enigmi che rivelavano i nuovi esperimenti subatomici svolti nei
laboratori di tutto il mondo.
Tale approccio non solo abbandona l'idea di componenti elementari della materia ma non accetta neanche
quella di entità fondamentali di alcun genere; nessuna costante, legge o equazione universale, l'universo è
visto come un tessuto dinamico di eventi interconnessi. Nessuna delle proprietà di questo tessuto è
fondamentale esse emergono tutte dalla coerenze tra le proprietà delle parti che lo compongono.
Questo nuovo approccio propone così una nuova immagine della realtà fisica conoscibile: la rete di
interconnessione, la tela senza tessitore, la danza e non il danzatore. Come nell'immagine della tradizione
indiana di una "rete tempestata di perle", dove, come in un "frattale", ciascuna perla contiene il riflesso
delle altre, le particelle subatomiche vengono considerate interconnesse in un processo dinamico continuo,
nel quale ciascuna di esse "implica" tutte le altre. (Campbell, 1992)
XI. Il concetto di "rete" viene utilizzato, nell'approccio del bootstrap, per studiare l'evoluzione delle stesse
teorie fisiche. Così il fisico Fritjof Capra (1984), allievo di Chew, ci presenta le idee del suo maestro a
proposito:
<<I fenomeni del mondo subatomico sono così complessi che non è affatto certo che un giorno si potrà
pervenire a costruire una teoria completa, in sé coerente, ma si possono considerare una serie di modelli
di ampiezza minore ciascuno dei quali in grado di conseguire un successo parziale. Ciascuno di essi
dovrebbe coprire solo una parte dei fenomeni osservati e dovrebbe contenere un qualche aspetto, o
parametro inspiegato, ma i parametri di un modello potrebbero essere spiegati da un altro. Così un numero
sempre più grande di fenomeni potrebbe essere coperto gradualmente, con precisione sempre maggiore,
da un mosaico di modelli ingranantisi l'uno nell'altro, il cui numero netto di parametri inspiegati diminuisca
costantemente.
L'attributo bootstrap non è quindi mai applicato per alcun modello singolo, ma può essere applicato solo ad
una combinazione di modelli coerenti fra loro, nessuno dei quali è più appropriato degli altri. Chew spiega
succintamente: "Un fisico che sia in grado di esaminare, senza privilegiarne nessuno in particolare, un
numero qualsiasi di modelli differenti parzialmente riusciti è automaticamente un seguace del bootstrap (a
bootstrapper)">>.
1. Inquadramento dei contesti
2. Dichiarazione degli intenti
3. Definizione dei problemi
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Scrivono a proposito Girolamo Lo Verso e Marina Papa (1993): <<Non sussiste a nostro avviso una
scientificità se non in presenza di un metodo di osservazione e di intervento situato fra teoria ed oggetto:
effettuare una qualsiasi valutazione vuol dire infatti compiere delle scelte, selezionare fra varie ipotesi
quella più adeguata a descrivere un fenomeno. (...) E' possibile così affrontare una fondamentale sfida,
quella di mettere a fuoco un oggetto che continuamente "si dà" come costrutto e continuamente si propone
al di fuori ed a prescindere da tale costruzione.>>
II. <<I tre termini della figura (vedi pref.2,I/F) non sono da intendere come sistema statico ma come
insieme dinamico. In particolare è la teoria che continuamente può essere ripensata alla luce del
progredire della ricerca e della riflessione: l'oggetto stesso può essere riscoperto in vari suoi aspetti, ed è
essenziale che il metodo sia costantemente in contatto con gli altri due poli del processo. E' attraverso
l'osservazione e l'intervento che teoria e oggetto hanno la possibilità di confrontarsi e di evolversi: non si dà
scoperta senza tale mediazione.>> (Lo Verso, Papa, 1995b).
<<Teoria, metodo ed esperienza sono peraltro comprensibili e giustificabili solamente all'interno di un
humus, di un ambiente concettuale dato dall'operazione epistemologica in grado di collegare tutto questo
con i paradigmi delle scienze umane.>> (Lo Verso, Papa, 1995b).
Il vertice da cui parte l'azione conoscitiva dell'oggetto modifica, allora, l'esperienza soggettiva di questo. La
teoria è quindi un punto di vista soggettivo sull'oggetto che si modifica costantemente nella relazione con
questo stesso.
Al centro della retta che unisce il "soggetto" e l'"oggetto" della conoscenza si trova il "metodo", che ne
permette la relazione; quindi, la loro stessa esistenza all'interno della dinamica prodotta dalla loro reciproca
azione di influenzamento. Esso può essere considerato il prodotto e, contemporaneamente, il produttore
del soggetto e dell'oggetto della conoscenza.
Come ci ricorda però l'epistemologo francese Edgar Morin (1989): <<Non si tratta affatto di cadere nel
soggettivismo: si tratta piuttosto di affrontare quel complesso problema per cui il soggetto conoscente
diviene oggetto della sua conoscenza pur rimanendo soggetto. (...) Il soggetto qui reintegrato non è l'Ego
metafisico, fondamento e giudizio supremo di tutte le cose. E' il soggetto vivente, aleatorio, insufficiente,
vacillante, modesto, che introduce la propria finitudine. Esso non è portatore della coscienza sovrana che
trascende i tempi e gli spazi, ma introduce piuttosto l'istorialità della coscienza.>>
La retta che unisce la teoria e l'oggetto è anche la diagonale maggiore dell'ellissi costituita dal contesto
epistemologico dell'azione di conoscenza. I due centri di quest'ellissi sono allora la teoria e l'oggetto,
mentre il centro della figura (vedi pref.2,I/F) viene occupato dal metodo.
Ogni conoscenza comporta, quindi, come sostiene ancora Morin (1989):
a) <<una competenza (capacità di produrre conoscenza);>>
b) <<un'attività cognitiva (cognizione) effettuantesi in funzione di questa competenza;>>
c) <<un sapere (risultante da queste attività).>>
Il sapere è quindi frutto di un'attività complessa che lo rende totalmente dipendente dal contesto nel quale
è stato prodotto. Ma contemporaneamente il sapere, sotto forma di teoria, determina la prassi della
concreta produzione delle conoscenze.
III. Lo psicoanalista inglese Wilfred R. Bion (1993) rende così, con mirabile linguaggio visionario, le
complesse dinamiche dell'azione di conoscenza: <<Lo strumento rivelatore, se usato, potrebbe essere
impiegato dall'oggetto scrutato per guardare colui che guarda, nell'altro senso (direzione). Il poeta o genio
può guardare lo scienziato o genio, e le rivelazioni, come dagli estremi opposti del telescopio, sono troppo
ampie, o troppo piccole, per essere tollerate o persino per essere messe in relazione tra loro in modo
riconoscibile. Si sente che è "colpa" dello strumento, che mette insieme oggetti così differenti. Ma potrebbe
essere "colpa" degli oggetti l'essere così differenti: oppure è l'animale umano che deve "usare" le sue
accumulazioni di fatti, che non ha quell'esperienza che lo renderebbe capace di "capire" quello che vede,
sia egli cieco o vedente?>>
Il metodo risulta così quello "strumento metaforico" che permette la produzione di conoscenza, proprio
perché attraverso esso "il soggetto osserva l'oggetto", mentre ricorsivamente "l'oggetto interviene sul
soggetto". (vedi 4.1.3,VII)
L'elaborazione e l'organizzazione di questa tesi, attribuisce a questo lavoro una funzione di "ricerca e
produzione di conoscenza". Dunque esso ha bisogno di sorreggersi, come tutte le opere di conoscenza,
sull'esplicitazione, al suo interno, dell'impostazione teoria (teorie di riferimento), del metodo di lavoro (gli
strumenti metodologici utilizzati), del concreto oggetto di studio (l'oggetto su cui produce-organizza-ricerca
conoscenze) e dell'ambiente epistemologico (il contesto evolutivo) del lavoro stesso.
! Oggetto della tesi è quindi l'etnopsicoanalisi; (vedi 1.3)
! Teoria di riferimento, la gruppoanalisi; (vedi 1.2)
! il Metodo è un intreccio tra le metodologie genetiche (vedi pref.2.IV/b) e quelle enciclopediche (vedi
pref.2.IV/a);
! l'Ambiente epistemico di questo lavoro è, in fine, l'epistemologia della complessità. (vedi 1.1)
Ma parlare di etnopsicoanalisi da un punto di vista gruppoanalitico, vuol anche dire parlare di gruppoanalisi;
come parlare di etnopsicoanalisi inserita in un contesto epistemologico complesso, vuol dire parlare di
epistemologia della complessità.
Mette conto far notare come l’etimologia di “com-plexus” equivalga à “ciò che è tessuto insieme”. Questa
origine etimologica, quindi, implica, ad un tempo, “distinzione, cooperazione e tensione delle parti in gioco
in una totalità emergente, che tutte le parti, singolarmente, irriducibilmente e attraverso le loro relazioni
contribuiscono a creare: come in un tessuto di fili colorati”. (Callari Galli, Ceruti, Pievani, 1998)
IV. La necessità di distinguere, senza però disgiungere, all'interno di un saper consolidato, oltre ad una
"teoria" giuda, che ordini le conoscenze ed indirizzi le ricerche, anche un "metodo" di produzione e
trattamento del sapere ed una "prassi" concreta di lavoro, si manifesta ogni qualvolta vogliamo definire o
inquadrare un campo di conoscenza ancora attivo e vitale; che continua, cioè, a produrre quotidianamente
nuovo sapere, anche soltanto attraverso la nostra opera di studio e descrizione di esso.
Necessitiamo infatti un inquadramento epistemico, della nostra opera di ricerca su questo campo del
sapere, da collocare soprattutto all'interno del "contesto" storico-culturale, in cui avviene tale opera di
ricerca, ed in relazione alle "dinamiche" ed agli "stadi evolutivi", che hanno attraversato e caratterizzato tale
campo di sapere.
Il "metodo enciclopedico", ed il "metodo genetico", permettono quindi la definizione contestuale ed
epistemologica del fenomeno osservato oltre che la manifestazione della relazione ricorsiva tra il soggetto
e l'oggetto di conoscenza.
a) Il "metodo enciclopedico" prevede lo sviluppo su un piano sincronico delle reciproche relazioni tra i
molteplici aspetti di un fenomeno.
Questo non deve essere considerato un metodo accumulativo, o peggio dogmatico e totalitario; come
spesso, è stato, purtroppo, degradato. L'enciclopedismo non può mirare ad inglobare tutto il sapere, per
classificarlo, banalmente, in ordine alfabetico o gerarchico.
Il senso del termine “enciclopedia” non può essere quello del processo di esaurimento della conoscenza
attraverso il tentativo di racchiuderla in un cerchio.
<<Il termine enciclopedia deve essere preso nel suo senso originario di ankhyklios paideia, apprendimento
che mette in circolo il sapere; si tratta in realtà di en-ciclo-pedizzare, cioè di imparare ad articolare i punti di
vista disgiunti del sapere in un ciclo attivo. (...) Lo sforzo si riferirà dunque non alla totalità delle conoscenze
di ciascuna sfera, ma alle conoscenze cruciali, ai punti strategici, ai nodi di comunicazione, alle
articolazioni organizzative fra le sfere disgiunte.>> (Morin, 1983).
b) Il "metodo genetico" prevede lo sviluppo su un piano diacronico degli intrecci delle molteplici traiettorie
evolutive che hanno determinato il fenomeno.
Sigmund Freud definisce, per esempio, il metodo genetico come la ricostruzione del processo evolutivo di
un dato fenomeno, intrecciata alla ricostruzione parallela della relazione che il soggetto della ricostruzione
ha avuto con lo stesso fenomeno studiato. (Freud, 1938b)
Egli, quando si trovò a scrivere "Alcune lezioni elementari di psicoanalisi" (1938b), alla fine della sua vita,
scelse di illustrare il campo di ricerca da lui aperto ripercorrendo metodologicamente la strada percorsa in
precedenza da lui stesso; ripercorrendo cioè la storia delle nuove conoscenze prodotte, guidando il lettore,
a piccoli passi, lungo l'analisi degli effetti che ciascuna nuova conoscenza prodotta determinava su quelle
ad essa precedenti o collaterali.
Freud alternò, comunque, a questo tipo di illustrazione, detta "genetica", un altro tipo di illustrazione, da lui
stesso definita "dogmatica" perché antepone i risultati ultimi, di una tradizione di ricerca, ai presupposti che
ne furono il fondamento e agli eventi che ne punteggiarono la traiettoria evolutiva.
V. Quando Freud si trovò ad affrontare il difficile compito di definire la propria disciplina come "voce di
enciclopedia" evidenziò anch'egli l'ecologia esistente tra i "complessi fenomeni dell'opera di produzione di
ogni sapere". Così egli scrisse:
! <<Psicoanalisi è il nome: 1) di un procedimento per l'indagine di processi psichici cui altrimenti sarebbe
pressoché impossibile accedervi; 2) di un metodo terapeutico (basato su tale indagine) per il trattamento
dei disturbi nevrotici; 3) di una serie di conoscenze psicologiche acquisite per questa via che gradualmente
si assommano e convergono in una nuova disciplina scientifica.>> (Freud, 1922).
Subito dopo però aggiunse:
! <<Storia. Il miglior modo per comprendere la psicoanalisi è ancor quello di seguirne la genesi e lo
sviluppo. Negli anni 1880 e 1881 il dottor Josef Breuer di Vienna ... >> (ibidem).
Un'elaborata opera di definizione dell'etnopsicoanalisi, anche solo minimamente simile a quella che
Sigmund Freud fece della psicoanalisi, non è tra i compiti di questo lavoro.
"Soggettivamente" non reputo di avere le stesse conoscenze, che aveva Freud sulla corrispondente
materia, per avviare quest'opera di classificazione; "oggettivamente", questa disciplina scientifica è ancora
troppo giovane ed indisciplinata per essere così ben standardizzata nelle sue sfaccettature, come la
psicoanalisi degli anni venti.
Mi interessa soprattutto mettere in evidenza la fecondità degli scambi, dei confronti e delle contaminazioni
tra diversi vertici teorici, tradizioni di studio e metodologia di ricerca, che essa ha attivato in Europa e in
Italia in particolare; utilizzando appunto un "metodo enciclopedico" (vedi pref.2,IV/a) intrecciato ad un
"metodo genetico" (vedi pref.2,IV/b).
Mi servo dell'"equazione relazionale complessa" (Lo Verso, Papa, 1995) [vai a F.pref.2;I] proprio per
definire preliminarmente il modello di interrelazioni che voglio osservare; un modello che valorizzi la
pluralità dei vertici teorici del sapere e la circolarità dei processi di conoscenza.
Vorrei così procedere attraverso una serie di "vortici epistemologici" (Fasolo, 1998), osservando come
questi attivano una dinamica spiraliforme tra i distinti vertici teorici ed evidenziando sia le interazioni
sincroniche che gli sviluppi diacronici delle relazioni fra queste.
Posso, così, meglio distinguere:
! l'oggetto di questa prefazione, "la tesi vera e propria" (come questa è concretamente composta,
suddivisa ed organizzata) (vedi intr.3);
! il soggetto, "l'autore della tesi" (la mia identità, la mia storia, le mie intenzioni) (vedi intr.2);
! il metodo, "le modalità del processo di elaborazione della tesi" (come questa sia nata -autogenerata- e
sia stata prodotta -costruita-) (vedi intr.4);
! l'epistemologia, "il campo di ricerca da cui emerge la tesi" (il contesto in cui questa è stata computata e
concepita) (vedi intr.1).
1. Inquadramento dei contesti
2. Dichiarazione degli intenti
3. Definizione dei problemi
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Tutte queste discipline sono accomunate dalla concezione del "sintomo", nelle sue articolazioni medico-
psicologiche di (a) "sindrome" e (b) "disturbo", e quindi nella sua manifestazione psicopatologica, come
posto in quello spazio di frontiera tra l’"essere umano" e la "cultura epocale".
a) "Sindrome": viene considerata l'organizzazione sincronica di un sistema di sintomi; tutti presenti
contemporaneamente ed in interrelazione. Qui il sintomo diventa un "segno", indizio clinico della
presenza di una dimensione organizzativa (un contesto) che lo "significa".
b) "Disturbo": è invece l'organizzazione diacronica dei sintomi in una storia (una parabola), che ne
manifesti la loro connessione temporale. Il sintomo diventa un "processo"; cioè una catena di
cambiamenti (e di cambiamenti nei processi di cambiamento), cui dà significato la storia delle loro
interrelazioni.
III. Direttore del Centre Georges Devereux è lo psicoanalista, psicologo ed antropologo ebreo, nato in
Egitto, Tobie Nathan; contemporaneamente professore di "Psicologia Clinica e Psicopatologia" presso
l'Università Paris VIII. In questo contesto Nathan formalizza, teoricamente, metodologicamente e
tecnicamente, una nuova disciplina, che il fondatore del "Centre", Georges Devereux appunto, concepì già
una trentina d'anni fa, come figlia e sorella di quelle generalmente racchiudibili sotto l'etichetta
etnopsichiatrica: l'"Etnopsicoanalisi". (vedi 1.3.5,II)
L'"Etnopsicoanalisi è allora una disciplina terapeutica che lavora (Inglese, 1996b):
a) Costruendo "un inedito dispositivo tecnico (gruppo interattivo, multidisciplinare, multietnico e
multiculturale; consultazioni cliniche nella lingua materna dei pazienti immigrati)";
b) Utilizzando "strumenti inusuali (attivazione delle concezioni tradizionali sul disturbo, prescrizioni
coerenti con le tecniche rituali tradizionali)";
c) Sviluppando "una concettualizzazione sempre più articolata (funzione strutturante della cultura;
ruolo delle mitologie originarie; logiche dell'influenzamento e della trasformazione terapeutica)";
d) Avventurandosi in un "campo di indagine inesplorato (logiche preventive e riparative di azioni
culturali significative applicate alla clinica dei migranti: dono, preghiera, sacrificio, oggetti
apotropaici)".
Gli utenti elettivi dell'etnopsicoanalisi sono, principalmente, pazienti dell'Africa nera e del Nordafrica. Dalla
relazione terapeutica con essi e dal contatto con le loro culture tradizionali ha infatti preso gradualmente
forma questa disciplina.
La pratica clinica elaborata da questa disciplina è stata, in oltre, usata fruttuosamente con pazienti
dell'Europa meridionale (Spagna, Portogallo), del vicino Oriente, delle Antille francesi e delle isole
francofone dell'Oceano Indiano (Réunion, Madagascar, Comore); più raramente del Sud-est asiatico
(Vietnam, Cambogia, Laos, Cina) e del medio Oriente.
IV. La filiazione culturale di Tobie Natan deriva da una doppia linea di ascendenti: 1) antropologici e 2)
psicoanalitici.
1) Tra gli "antropologi" vanno citati: Claude Lévi-Strauss (padre dello antropologia strutturalista
francese), Géza Roheim (antropologo di origine ungherese e psicoanalista allievo di S. Ferenczi);
ma soprattutto Georges Devereux (padre dell'etnopsicoanasi francese, allievo di M. Mauss -
sociologo ed etnologo francese- e di G. Roheim -di origine ungherese come lui-; nonché etnologo
sul campo e raffinato grecista).
2) Tra gli "psicoanalisti": Didier Anzieu (padre della psicosociologia francese, studioso di psicoanalisi
dei gruppi), Donald W. Winnicott (pediatra inglese, studioso di psicoanalisi genetica); ma soprattutto
Sàndor Ferenczi (neurologo ungherese, pioniere della psicoanalisi europea con i suoi studi di
bioanalisi e tecnica terapeutica).
<<Gli strumenti operativi e interpretativi forgiati da Nathan nel corso di un lungo lavoro, tutt'ora in progress,
possono essere estesamente applicati a una serie di fenomenologie cliniche alimentate dalle
trasformazioni culturali delle società complesse. Promettenti sviluppi in questa direzione vengono
annunciati dal loro impegno nel trattamento dei disturbi alimentari, degli stati di dipendenza da sostanze,
delle sindromi borderline, dei comportamenti di affiliazione disfunzionale a gruppi ideologici, religiosi e
competitivi, dei comportamenti violenti autorizzati sul piano ideologico ed istituzionale (tortura politica), dei
problemi insorgenti in matrimoni ed adozioni interculturali.>> (Inglese, 1996a)
La ricerca in campo psicopatologico di Nathan rilancia, in Italia, il programma di fondazione di una
"Psicologia culturale italiana", legata non soltanto alle discipline sociali, politiche e giuridiche, ma anche a
quelle storiche, religiose ed antropologiche. Tale programma è stato avviato da Ernesto de Martino,
antropologo e massimo cultore italiano di etnologia e folklore; ma è rimasto irrealizzato proprio a causa
della sua prematura scomparsa e della successiva dispersione delle metodologie di ricerca ed intervento
elaborate con i suoi collaboratori.
Il "documento psicopatologico", cioè il dolore, la follia, il delirio, la disperazione, la sofferenza dell'essere
umano, diventa così materiale fondamentale su cui basare la svolta paradigmatica della "psicologia
culturale italiana". (vedi 1.3.4,II)
Le strade della ricerca psicopatologica più accorta ritornano allora a passare nuovamente attraverso lo
studio:
a) dei "disordini mentali in rapporto al loro condizionamento socioculturale: cioè in rapporto alla loro
stratificazione sociale, all'occupazione, al gruppo etnico, a particolari comunità", stabilendo "in quali
condizioni ed entro quali limiti e soprattutto attraverso quali dinamiche, i dispositivi mitico-rituali
operano in funzione normalizzatrice nel quadro di particolari culture o subculture" (De Martino,
1977);
b) del "modo con il quale, in un ambiente storico dal quale direttamente proveniamo e che ci siamo
appena lasciati alle spalle, la disperazione e la follia" sono state "istituzionalmente moderate dal rito,
ridischiuse alle figurazioni del mito, e drammaticamente redente nel vario operare umano, cioè
nell'etos delle memorie e degli affetti, nei significati sociali, politici e giuridici, nell'autonomia della
poesia e dei gravi pensieri sulla vita e sulla morte" (De Martino, 1958).
V. Perché la "psicologia culturale italiana" possa nascere è necessaria la diffusione di una cultura
psicologica complessa, legata alla "psicologia greca per eccellenza"; quella "eraclitea", che sa cogliere le
"connessioni nascoste" tra i fenomeni osservati, e contemporaneamente guardare alle potenziali evoluzioni
di questi così come ai loro itinerari di sviluppo.
La "psicologia culturale italiana" non potrà quindi che essere una "psicologia inter-trans-multi-culturale".
Dovrà cioè prendere in considerazione non soltanto le molteplici culture che hanno attraversato il nostro
mondo, ma anche la pluralità di culture che attraversano il mondo scientifico italiano e le piccole "nicchie di
sapere" che lo abitano; rispettando così la multidimensionalità di ogni sapere, anche e soprattutto quello
psicologico.
Come ogni fenomeno cognitivo richiede "la congiunzione di processi energetici, elettrici, fisici, chimici,
fisiologici, cerebrali, esistenziali, psicologici, culturali, linguistici, logici, ideali, individuali, collettivi, personali,
trans-personali e impersonali, ingranantisi gli uni negli altri"; così "la conoscenza va considerata un
fenomeno multidimensionale", cioè inseparabilmente fisico, biologico, cerebrale, mentale, psicologico,
culturale, sociale. (Morin, 1989)
La conoscenza necessaria, alla nascita della "psicologia inter-trans-multi-culturale", è stata invece
dispersa, dalla cultura occidentale, nelle innumerevoli compartimentazioni disciplinari che il suo mondo
accademico e professionale ha generato e mantenuto disgiunte.
La disgiunzione oggi più evidente, e quella che ha creato la più grande "patologia del sapere" occidentale,
è la separazione tra "scienza" e "filosofia"; sviluppatasi con la svolta "razionalista" di René Descartes,
all'origine del "pensiero moderno". Tale patologia epistemologica ha compromesso oltre alla possibilità di
conoscere noi stessi ed il nostro mondo, anche la possibilità di conoscere la nostra stessa conoscenza
attraverso il dialogo con "saperi altri"; in cui tale separazione appunto non esisteva, ed in molti casi non
esiste tuttora.
<<In effetti la riflessione filosofica non trae quasi più alimento dalle conoscenze acquisite
dall'investigazione scientifica, che per parte sua non può né riunire le sue conoscenze né rifletterle. Il
rarefarsi delle comunicazioni fra le scienze naturali e umane, la disciplinarità stretta (appena corretta
dall'insufficiente interdisciplinarità), la crescita esponenziale di saperi separati fanno sì che ciascuno,
specialista o non specialista, divenga sempre più ignorante circa il sapere esistente.>> (Morin, 1989)
Questa tesi quindi, pur avendo come oggetto l'etnopsicoanalisi, anzi stimolata proprio dal fatto di avere
come oggetto questa strana ed indisciplinata disciplina, si propone come una ricerca inter-trans-multi-
disciplinare.
Stimolato dal precursore della psicologia complessa europea, Eraclito (il pensatore che visse ad Efeso,
nella Jonia, tra il VI ed il V secolo avanti Cristo), questo lavoro è stato, per me, un costante stimolo a
"pensare bene"; in altre parole, come dice l'epistemologo francese Edgar Morin (1989), a "non essere
benpensanti".
1. Inquadramento dei contesti
2. Dichiarazione degli intenti
3. Definizione dei problemi