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INTRODUZIONE
Il processo di internazionalizzazione delle imprese di
minori dimensioni continua a suscitare notevole interesse
sia sul piano teorico che nella realtà operativa.
Come da tempo osservato dagli studiosi
(Grandinetti R., Rullani E., 1992, pp. 3-41),
l’internazionalizzazione delle imprese di dimensione
minore è un fatto; un fatto perché anche questo tipo di
aziende si trova frequentemente a svolgere almeno una
parte delle proprie attività del valore in ambito
internazionale, ovvero risulta essere un attore di sistemi di
creazione del valore che si estendono oltre i confini
geografici di un solo Paese.
Mentre per le grandi imprese la presenza estera è
inevitabile, per le aziende di dimensioni minori rimane
una scelta strategica assunta per realizzare specifici
obiettivi e attuata lungo un certo percorso evolutivo.
La piccola dimensione sembra, però, aver perso,
nel corso degli ultimi anni, la sua capacità di evoluzione:
la sola flessibilità produttiva non appare ad esempio più
sufficiente per affrontare le nuove condizioni della
concorrenza internazionale.
Il profilo dimensionale delle imprese assume una
forte rilevanza nel contesto del sistema produttivo italiano,
caratterizzato oltre che da un modello di specializzazione
atipico anche da una marcata presenza di piccole e medie
imprese, due problematiche strettamente correlate.
Considerando i principali paesi dell’Unione
Europea, l’Italia con oltre il 95% di imprese al di sotto dei
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10 addetti detiene il primato di frammentazione
produttiva.
Dimensioni aziendali ridotte se da un lato
conferiscono maggiore flessibilità al sistema produttivo
italiano, dall’altro, limitano l’efficienza, rendono più
difficile lo sviluppo di prodotti e tecniche innovative e
condizionano la natura e le modalità di
internazionalizzazione delle imprese e la loro capacità di
competere sui mercati internazionali. La capacità di
penetrare nei mercati esteri si fonda su fattori di vantaggio
competitivo presenti in modo asimmetrico fra categorie
dimensionali diverse di imprese.
Le imprese con dimensioni ridotte risultano in
particolare meno inclini all’internazionalizzazione sia
commerciale che produttiva, alla partecipazione a reti
globali di distribuzione, vendita trasferimento
dell’innovazione oltre ad essere caratterizzate da bassi
investimenti in ricerca e sviluppo, una variabile strategica
fondamentale per il successo nella competizione globale.
Diviene così nuovamente attuale il problema dei
limiti che le PMI incontrano nell’affrontare i mercati
esteri. In molti casi l’impossibilità di conseguire adeguate
economie di scala, soprattutto di tipo gestionale, spinge le
imprese minori ad allargare le proprie opportunità
operative mediante il ricorso a servizi avanzati di supporto
all’internazionalizzazione, sia con acquisizione degli
stessi dall’esterno, sia mediante diverse soluzioni di
collaborazione interaziendale.
E’ proprio da questa situazione che trae forza
propulsiva un’entità organizzativa particolare, quella dei
consorzi all’esportazione, il cui ruolo può risultare
fondamentale nel sostenere la crescita qualitativa delle
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PMI ed il loro collegamento con il mercato internazionale.
Tale ruolo diviene tanto più rilevante quanto più la
domanda mondiale si orienta su beni complessi, su sistemi
integrati di prodotti e servizi la cui commercializzazione
non può essere attuata con gli strumenti tradizionali a
disposizione delle PMI, essendo richiesto un insieme di
capitali, di conoscenze tecnologiche e di marketing che le
imprese minori non possono generare in via autonoma ma
che possono invece attenere ricorrendo ad altre forme
organizzative interimpresa.
Partendo da tali premesse, il presente lavoro ha
quale obiettivo proprio l’approfondimento della tematica
dei consorzi all’esportazione, in modo da mettere in
evidenza peculiarità, limiti e possibilità di sviluppo. Allo
scopo la ricerca è stata integrata con un intervista alla
Dott.ssa Marina Baldi, direttrice del Consorzio Salerno
Trading, composta da circa 50 PMI di varie regioni
italiane.
<<Avendo avuto un’esperienza lavorativa da
responsabile amministrativo di circa tre anni in una
piccola impresa, produttrice di camicie da uomo, forte di
una lunga tradizione familiare nel settore, detentrice già di
un marchio in esclusiva con cui i capi vengono rivenduti
in negozi monomarca in tutta la regione Campania, ho
avuto modo di costatare le difficoltà che le si sono
presentate nel momento in cui si è deciso di
commercializzare oltre confine. Non sono bastate le
notevoli qualità imprenditoriali in termini di elevate
competenze tecniche e gestionali nella produzione e
commercializzazione, possedute dal titolare. Non è bastato
essere produttori di un prodotto “universale” ed
esclusivamente made in italy. La carenza di informazione
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sui mercati esteri in cui penetrare e la mancanza di
un’adeguata disponibilità di fonti finanziarie hanno
rappresentato muri insormontabili per l’azienda che ha
dovuto poi rinunciare alla sua missione. Dalle letture e
ricerche che mi hanno interessato per la stesura della tesi,
ho dedotto poi che l’azienda in cui lavoravo poteva farcela
se solo avesse saputo dell’aiuto che i consorzi export
potevano darle>>.
La tesi è strutturata in quattro capitoli.
Nel primo capitolo l’attenzione è focalizzata sugli
aspetti che determinano e caratterizzano il processo di
internazionalizzazione delle PMI. In particolare vengono
trattati i fattori di spinta al processo di espansione estera,
come il patrimonio genetico e le condizioni di contesto. Si
passa poi ad analizzare i fattori che lo caratterizzano,
ovvero, la scelta del paese estero nel quale svolgere
l’attività, le modalità di entrata nel mercato e il grado di
diversificazione. Infine, vendono indicati i tratti comuni
posseduti dalle PMI che hanno avuto successo all’estero:
qualità imprenditoriale, sviluppo del capitale immateriale,
l’appartenenza ad un cluster, un’attenta gestione
all’organizzazione delle risorse, la disponibilità di
adeguate fonti di finanziamento.
Nel secondo capitolo si tratta dell’evoluzione
qualitativa del modo, e quindi delle strategie, con cui le
imprese affrontano i mercati esteri. La
“mondializzazione” del prodotto, l’indecisione sul “prezzo
universale”, la rete distributiva di cui servirsi, la
comunicazione e la promozione, sono le decisioni che più
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impegnano la PMI. L’attuale tendenza è quella di adattare
le funzioni del marketing alla specificità dei diversi
mercati. Nello stesso capitolo sono illustrate anche le
diverse strategie di entrata nei mercati esteri, ovvero
l’esporazione diretta e indiretta, l’insediamento produttivo
all’estero, gli accordi di collaborazione. In particolare si
osserva come l’attuazione di ogni strategia di entrata
richiede l’impegno di un certo insieme di risorse e di
investimenti finanziari più o meno consistenti e con
diverso periodo di recupero.
Il capitolo terzo mette in risalto il fatto che nel
contesto della PMI l’attività di internazionalizzazione
prevalente è quella commerciale. Le imprese minori,
come primo contatto con l’estero, sono spinte a compiere
un’attività di esportazione, avendo quale obiettivo
l’incremento delle quote di mercato e la diversificazione
del rischio commerciale. Nel capitolo sono analizzate le
due forme di esportazione, diretta e indiretta, riportando
per ognuna le diverse modalità con cui possono
realizzarsi, i vantaggi e gli svantaggi che le
caratterizzano. L’attenzione maggiore è rivolta ai consorzi
export, come modalità di esportazione indiretta,
evidenziando la funzione fondamentale che hanno di
aggregare un adeguato numero di operatori in maniera tale
da raggiungere quella dimensione critica necessaria per
rendere convenienti, e quindi possibili per una PMI, delle
operazioni di espansione nei mercati esteri.
Dopo aver, quindi, delineato le peculiarità del
processo di sviluppo internazionale delle imprese minori e
i fattori di debolezza che con maggiore frequenza lo
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connotano, nel capitolo quarto si è cercato di analizzare
se, ed in quale misura, i consorzi all’esportazione possono
configurarsi quali strumenti in grado di supportare
adeguatamente tale processo. In particolare, dopo un
breve esame delle diverse tipologie consortili
sviluppatesi, si concentra l’attenzione sull’attività
concretamente svolta dai consorzi all’esportazione, sulla
tipologia dei rapporti che legano il consorzio all’impresa
aderente e le imprese associate tra loro, nonché sugli
aspetti cruciali delle tipiche problematiche della gestione
consortile. Vengono infine individuate alcune possibili
strategie di sviluppo per l’attività consortile,
evidenziando, altresì, quali adattamenti strutturali e
gestionali sono richiesti per la loro attuazione. Prima di
introdurre il caso aziendale, si è fornito un quadro
aggiornato della situazione consortile italiana. La scelta di
trattare del Consorzio Salerno Trading è stata dettata dal
fatto che lo stesso è uno dei più grandi esistenti nelle aree
del Sud della Penisola ed è inoltre “completo” nelle sue
caratteristiche. Nasce nel 1985 come consorzio
promozionale, plurisettoriale complementare,
pluriterritoriale e di natura mista. Le adesioni alle stesso
aumentano di anno in anno, come anche le fiere e le
missioni all’estero organizzate per mettere le imprese
nelle condizioni di sviluppare sinergie che consentano di
razionalizzare i costi per la promozione all’estero.
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1. Peculiarità e nodi cruciali
nell’internazionalizzazione delle PI
1.1 Premessa
L’internazionalizzazione commerciale e sempre più anche
quella produttiva non sono fenomeni necessariamente
determinati dalla dimensione aziendale; la proiezione al di
fuori del proprio paese di origine si osserva infatti tanto
nelle grandi e nelle medie imprese, quanto in quelle
minori. Il fenomeno della globalizzazione della
produzione e dei mercati rappresenta in sé un potente
motore dell’internazionalizzazione delle imprese anche di
dimensioni modeste, che genera in particolare quattro
fenomeni rilevanti a tale scopo: a) lo sviluppo su aree
geografiche sempre più estese delle “nicchie” di mercato
dove le PMI normalmente focalizzano la loro posizione
competitiva; b) la frammentazione internazionale della
produzione che viene attuata attraverso l’interazione di un
reticolo di attori tra i quali possono inserirsi anche
imprese relativamente piccole; c) lo spostamento a livello
sopranazionale delle relazioni tra la grande impresa
cliente e i suoi fornitori strategici; d) gli IDE che entrano
in contatto con il tessuto produttivo dell’area dove sono
localizzati, possono creare le condizioni per
l’internazionalizzazione di tale tessuto produttivo (Matteo
Caroli, 2008, p.152).
Pertanto, come da tempo osservato dagli studiosi
(Grandinetti R., Rullani E., 1992, pp. 3-41),
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l’internazionalizzazione delle imprese di dimensione
minore è un fatto; un fatto perché anche questo tipo di
aziende si trova frequentemente a svolgere almeno una
parte delle proprie attività del valore in ambito
internazionale, ovvero risulta essere un attore di sistemi di
creazione del valore che si estendono oltre i confini
geografici di un solo Paese.
Tuttavia, mentre per le grandi imprese la presenza
estera è inevitabile, per le aziende di dimensioni minori
rimane una scelta strategica assunta per realizzare
specifici obiettivi e attuata lungo un certo percorso
evolutivo. Infatti, nella teoria della gestione d’impresa,
l’internazionalizzazione è un’opzione di crescita; quindi,
per un’azienda di dimensioni minori rappresenta
un’evoluzione; per un’impresa già grande è un aspetto
intrinseco della propria condizione organizzativa e
strategica. Se la dimensione aziendale non è condizione
“necessaria” per la presenza estera, rimane un fattore
determinante del modo in cui tale presenza è attuata, delle
alternative strategiche, delle soluzioni organizzative
adottate e, in qualche misura, delle performance
potenziali.
Il processo di internazionalizzazione della piccola
impresa
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non può quindi essere assimilato in tutto e per
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L’attributo “piccola” fa riferimento alla nozione codificata dall’UE
nella Raccomandazione n. 1442 del 6 maggio 2003, entrata in vigore
anche nel nostro Paese con decreto legge del 18 gennaio 2005. La
“piccola impresa” viene definita in funzione di tre criteri e attraverso
questa distinta dalla “media” e dalla “micro” impresa. In particolare,
la “piccola” impresa ha un numero di dipendenti che non supera le 50
unità e non è inferiore alle 10 unità,e un fatturato o un totale di
bilancio compresi tra 2 e 10 milioni di euro; inoltre è “indipendente”,
cioè non più del 25% del suo capitale o dei diritti di voto è
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tutto a quello delle aziende più grandi. Nel concetto di
piccola impresa è utile distinguere l’aspetto dimensionale
da quello relativo all’età dell’azienda, affermando che,
almeno nei primissimi anni di attività, l’impresa non
supera normalmente i parametri della piccola dimensione.
Nell’ambito dell’internazionalizzazione, questa
distinzione assume particolare significato in primo luogo
perché proprio la capacità di cogliere opportunità
espansive a livello sovralocale determina il superamento
della diretta proporzionalità che normalmente si osserva
tra crescita dimensionale e maturazione temporale
dell’azienda. In secondo luogo perché, gli svantaggi
connessi alla piccola dimensione non comprendono
totalmente quelli derivanti dal fatto di operare da un
periodo di tempo limitato.
1.1.1 La dimensione economica delle imprese
minori in Europa
Solo l'8% delle Pmi europee esporta i propri
prodotti fuori dai confini nazionali e solo cinque su cento
hanno in bilancio ricavi dall'estero, sotto forma di joint
venture o di una sede in un altro Paese. I dati, raccolti e
determinato da una sola impresa o da più imprese non appartenenti
alla categoria delle PMI. Rientrano nella categoria delle “micro” le
aziende che non raggiungono almeno 10 dipendenti e 2 milioni di
euro di fatturato o di totale di bilancio; alle “medie” appartengono
invece le aziende con 50 o più dipendenti, fino ad un max di 249 e
fatturato compreso tra 10 e 50 milioni di euro o totale di bilancio
compresi tra 10 e 43 milioni di euro. Anche in questi casi, le imprese
devono avere il carattere di indipendenza.
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analizzati in un report appena pubblicato dalla Direzione
Generale Imprese della Commissione europea, mostrano
che in caso di commercio estero lo sbocco è quasi
sempre interno al Vecchio Continente: nella Ue a 27,
solo il 15% dell'export varca i confini dell'Europa.
Per quanto riguarda l'Italia, Giuseppe Morandini,
presidente Piccola Industria di Confindustria tiene a
precisare: «L'export italiano è cresciuto, negli ultimi due
anni, in tutti i mercati strategici più della media europea.
Nella Ue siamo secondi, dopo la Germania, per export
verso i Paesi extra Ue (nel 2005 eravamo scivolati al 4°
posto). È quindi in atto un riposizionamento delle nostre
esportazioni verso i mercati ad alto potenziale di
crescita. Nell'area del Golfo e in India, per esempio, la
crescita delle nostre esportazioni è stata pari
rispettivamente a quattro volte (+48,4% contro 12,6%) e
una volta e mezza (+36,3% contro 22,3 %) la crescita
media europea. Ciò premesso, il principale mercato di
sbocco per le Pmi italiane è ancora rappresentato
dall'Europa, che pesa per circa il 60% sull'export
italiano».
Gli imprenditori italiani insomma sono stati capaci
di migliorare sensibilmente i fattori di competitività
diversi da quelli di prezzo, puntando su miglioramenti
qualitativi, innovazione di processo e di prodotto. Una
strategia vincente se è vero che negli ultimi due anni le
esportazioni italiane sono tornate a crescere a ritmi
sostenuti (9% nel 2006 e 9,7% nel 2007).
A livello settoriale, oltre a quello che è tradizionalmente
considerato made in Italy (automazione, tessile-
abbigliamento, alimentare e arredamento) «le imprese
italiane - rivela Morandini - hanno saputo affiancare una
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sempre più forte capacità innovativa. In particolare, nei
settori ad elevato contenuto tecnologico, abbiamo un
segnale di grande vitalità: nel 2006 la bilancia
commerciale tecnologica italiana è, per la prima volta dal
1981, tornata finalmente in attivo, esportiamo, cioé, più
tecnologia di quanta ne importiamo dal resto del mondo».
Per tornare all'esempio italiano, negli ultimi tre anni e
mezzo più di 6.500 imprese, in grande maggioranza
piccole e medie, hanno partecipato alle 20 missioni
internazionali di sistema. E poi ci sono i consorzi per
l'export: in Italia ne esistono circa 420 - la metà dei quali
al Nord - che raggruppano circa 10mia imprese e 200mila
addetti. In base ai dati Federexport il modello è vincente
se è vero che le aziende consorziate esportano il doppio e
su più mercati rispetto a quelle che varcano la frontiera da
sole. Tra fiere e missioni, campagne pubblicitarie e
indagini di mercato i consorzi hanno organizzato nel 2007
più di 2mila iniziative, quasi la metà delle quali in Europa
(874) e nei nuovi paesi membri Ue (335) ma anche in
Estremo oriente (186). «Da semplice supporto tecnico,
come era negli anni '70 - spiega il Presidente di
Federexport Gianfredo Comazzi - oggi il consorzio è un
vero e proprio ufficio estero, con oltre 80 uffici sparsi per
il mondo e associati a Federexport che assistono in
maniera personalizzata le imprese, consentendo di
superare i limiti dimensionali» (Zavaritt Anna, Il Sole 24
Ore, 3/3/2008, p.20).
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1.1.2 Alcuni dati per inquadrare il fenomeno
dell’internazionalizzazione delle imprese minori
Nel 2003, l’osservatorio sulle PMI europee dell’UE ha
condotto una ricerca sull’internazionalizzazione delle
imprese minori intervistando un campione di 7745
aziende (pari allo 0,04% del totale) in 19 Paesi europei.
Per estensione e accuratezza, questo studio offre una
visione di sintesi dell’internazionalizzazione delle imprese
minori europee. E’ utile evidenziare tra gli altri i seguenti
dati:
• il 59% delle PI ha operazioni internazionali;
• la maggior parte delle PI opera all’estero secondo
diverse modalità, compresi gli IDE;
• le esportazioni rimangono la modalità più diffusa
di presenza attiva sui mercati esteri;
• quasi il 20% delle PI che esporta, realizza
all’estero oltre l’80% del proprio fatturato; circa il
45% delle PI non supera invece il 10%;
• le PI internazionalizzate mostrano una attitudine
agli accordi maggiore di quelle che operano solo
nel mercato nazionale;
• la diffusione delle alleanze è cresciuta
sistematicamente dagli anni ´80, ma molto di più
nelle attività di servizio che in quelle strettamente
manifatturiere (Matteo Caroli, 2008, p. 153).