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Quali indicazioni possiamo, quindi, trarre dalla teoria economica e dalla
giurisprudenza per valutare il fenomeno del parallelismo dei comportamenti? In
quali casi possiamo usare la fattispecie dell’intesa per punire tali comportamenti
che sembrano violare un meccanismo concorrenziale? E fino a che punto, perciò,
possiamo spingere la fattispecie della pratica concordata per punire i cartelli tra
imprese? Ovviamente è difficile dare una risposta certa a questi interrogativi
specie se si pensa che proprio nei casi in cui le imprese colludono tacitamente o
in casi di oligopoli ristretti ( che sono quelli che provocano i maggiori danni al
sistema economico) è impossibile, o estremamente difficile, trovare indizi chiari di
concertazione. Il problema sarà, perciò, anche quello di tentare di capire fino a
che punto gli strumenti forniti dall’economia possono essere usati come prova di
un comportamento illegale.
Il lavoro si articola in tre capitoli. Nel primo capitolo tratterò il parallelismo
consapevole da un punto di vista strettamente economico, tentando di vedere
sotto quali condizioni e con quali strutture di mercato le imprese possono trovarsi
colludere tacitamente, senza, cioè, violare le norme del diritto antitrust. Bisogna
ricordare che seguendo un approccio economico, con collusione tacita si intende
un certo tipo di iterazione tra concorrenti che permette ai partecipanti ad un
mercato di ottenere un output simile a quello che otterrebbe una singola impresa
che fosse in grado di dominare il mercato. Vedremo quindi come sia
effettivamente possibile per le imprese colludere senza dover concertare
alcunché sia in mercati oligopolistici sia (anche se è più difficile) in mercati
dispersi.
Il secondo capitolo affronta la problematica con un approccio giuridico. Si è
tentato di capire se la giurisprudenza e la dottrina hanno fatto proprie le
indicazioni che arrivano dalle scienze economiche. Vedremo come, ancor oggi, il
fenomeno della collusione tacita sia, in giurisprudenza, praticamente sinonimo di
oligopolio e analizzeremo i problemi che tale convincimento potrebbe avere
nell’elaborazione di principi giuridici in grado di contrastare il fenomeno della
collusione tacita. Per poter sanzionare un’intesa attraverso la fattispecie della
pratica concordata è necessario trovare indizi chiari, precisi e concordanti
dell’avvenuta concertazione (indizi esogeni). Altrimenti è necessario riuscire a
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portare una prova logica del comportamento illegale; la quale prova consiste, una
volta osservato un certo risultato collusivo nel mercato, nell’impossibilità di
spiegare il comportamento delle imprese altrimenti se non ipotizzando
concertazione tra le parti (indizi endogeni). Vedremo perché, a mio parere, tali
indizi endogeni sono difficilmente utilizzabili in mercati dove potenzialmente
possano verificarsi fenomeni di collusione tacita, infatti, se si utilizza un metodo
economico non si possono, in alcuni casi, punire con certezza comportamenti di
cui non si hanno prove documentali certe.
Nella terza parte tratto alcuni casi, ricavati dalla giurisprudenza nazionale,
in cui le imprese sono state sanzionate dall’Autorità garante per aver messo in
piedi intese collusive. Intese giudicate illegali pur in assenza di indizi esogeni di
collusione, ricorrendo, quindi, essenzialmente alla prova endogena. Vedremo in
tale sezione come tali decisioni (molte volte rigettate dai tribunali, talvolta
confermate) spesso non convincano appieno. La sola prova endogena di
collusione non sembra mai sufficientemente certa per poter arrivare ad una
sentenza che non lasci almeno qualche dubbio sulla possibile innocenza delle
parti.
Nelle conclusioni si tenterà di fornire una soluzione al problema,
delimitando chiaramente i confini nei quali il parallelismo consapevole dei
comportamenti può essere trattato all’interno della disciplina delle intese. Ed
indicando quando, invece, servirebbe far ricorso ad una fattispecie differente per
poter sanzionare certi comportamenti delle imprese.
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1 IL PARALLELISMO CONSAPEVOLE: UNA VISIONE
ECONOMICA
Questo primo capitolo segue un approccio strettamente economico. In
questa prima sezione tenterò di spiegare, brevemente, le possibili strutture di
mercato che l’Autorità potrebbe trovarsi di fronte nel momento in cui deve valutare
il comportamento illecito delle imprese. Vedremo che alcune strutture di mercato
facilitano la collusione, tanto che le imprese ottengono un output sovra
concorrenziale senza la necessità di ricorrere e mezzi illeciti.
Il capitolo parte da una veloce spiegazione di concorrenza perfetta, di
monopolio e di diverse tipologie di oligopolio (le strutture di mercato formalizzate
dall’economia), per poi passare a vedere come, un approccio recente al problema
della collusione, permetta di individuare in ogni mercato i fattori che
maggiormente possono condizionare il comportamento delle imprese.
Si vedrà che i mercati in cui possono verificarsi episodi di parallelismo
consapevole dei comportamenti non sono solamente quelli a struttura
oligopolistica; i fattori che entrano in gioco affinché le imprese possano colludere
tacitamente sono numerosi e verranno esaminati ad uno ad uno.
1.1 OLIGOPOLIO E STRUTTURA DEL MERCATO
La scienza economica identifica nel meccanismo della concorrenza
perfetta lo strumento ottimale per garantire alla società un equilibrio economico
Pareto efficiente. Tuttavia, alcuni mercati tendono a presentare equilibri anche
molto lontani da quanto previsto nei modelli economici di concorrenza perfetta. La
struttura dei mercati e le azioni delle imprese condizionano sostanzialmente i
risultati economici che si possono raggiungere.
Talvolta, le imprese arrivano ad un risultato non competitivo (similmente a
quanto come potrebbe avvenire in una situazione di monopolio od attraverso
comportamenti che sono ritenuti illeciti oligopolio), cioè rientrano all'interno di
quelle azioni, (accordi, pratiche concordate) che la legge proibisce. Tale divieto,
10
vigente in alcuni stati, trova il suo fondamento, appunto, nel voler garantire
efficienza economica, nel tentativo di massimizzare il benessere collettivo.
Altre volte, i comportamenti delle imprese, che portano a risultati economici
non competitivi, che permettono, cioè, il raggiungimento di profitti sovra
concorrenziali, sono assolutamente leciti e derivano da normali decisioni prese da
ciascuna azienda, indipendentemente dalle scelte compiute dagli altri partecipanti
al mercato; senza che si attuino, perciò, pratiche che sono ritenute illegali. In tal
caso le scelte commerciali delle imprese portano ad un output che si può ritenere
“collusivo” (cioè diverso da un risultato concorrenziale) solamente a causa di
scelte indipendenti e logiche, per cui le imprese, tenendo conto della struttura del
mercato adottano comportamenti omogenei (quali prezzi o quantità identiche o
compartimentazione dei mercati). Tale fenomeno è detto parallelismo
consapevole o collusione tacita.
Quando parliamo di collusione, da un punto di vista economico 0F
1
, ci
riferiamo ad una situazione in cui le imprese possono colludere anche senza la
necessità di accordarsi in via scritta od orale; senza la necessità di ricorrere a
quelle che normalmente in giurisprudenza si definiscono pratiche concordate e
senza dover comunicare tra loro. Chiamiamo questa collusione, o meglio,
collusione tacita. Cioè nel caso avvenga quale comportamento naturale del
mercato. Il termine collusione tacita, da quanto detto precedentemente, può,
quindi, essere usato come sinonimo di parallelismo consapevole. In termini
economici, quindi, è la struttura di mercato e la normale iterazione tra i suoi
partecipanti che porta le imprese a raggiungere equilibri collusivi, più o meno
durevoli.
In mercati in cui le imprese si comportano in modo piuttosto omogeneo,
individuare il confine tra pratiche illecite e pratiche lecite non è sempre agevole.
Nell'affrontare il problema giuridico dell'individuazione di quelle attività che si
pongono al confine tra la pratica concordata (illegale) ed il mero parallelismo
consapevole, mi è parso necessario esaminare le condizioni economiche che
possono condizionare le dinamiche concorrenziali; in special modo nei mercati a
tendenza oligopolistica, dove, cioè, il numero ridotto degli agenti economici rende
1
Secondo la definizione di: Ivaldi, M., Jullien, B., Rey, P., Seabright, P. e Tirole, J. (2003) The
Economics of Tacit Collusion.
11
più semplice un certo grado di omogeneizzazione del coordinamento, senza che
ci sia una violazione del diritto antitrust.
Per far ciò è necessario, per prima cosa, ricordare brevemente quali
dovrebbero essere le caratteristiche e le condizioni di un mercato perfettamente
concorrenziale: condizioni che permettono di massimizzare il benessere sociale
complessivo. Quindi è necessario analizzare le differenze strutturali tra le
situazioni di concorrenza perfetta ed i mercati che presentano un ristretto numero
di partecipanti.
La maggior parte dei mercati, nella realtà, hanno caratteristiche differenti
da quelle ipotetiche che dovrebbero permettere il raggiungimento di un equilibrio
concorrenziale; come ha osservato J. Clark1F
2
"la competizione perfetta non esiste
e, probabilmente, non è mai esistita", dal momento che se viene a mancare anche
solo una delle condizioni, previste dai modelli economici, che garantiscono tale
concorrenza perfetta diventa impossibile raggiungere un equilibrio concorrenziale.
Ogni mercato ha, quindi, caratteristiche proprie e specifiche che portano ad output
socialmente inferiori rispetto a quanto possibile.
In particolar modo, il funzionamento dei mercati oligopolistici, cioè di quei
mercati il cui numero di partecipanti è ridotto, secondo la letteratura economica,
porta ad equilibri differenti rispetto a quelli ottenibili in concorrenza perfetta;
equilibri socialmente meno desiderabili.
Dagli anni ottanta 2F
3
, la teoria economica ha compiuto un grande sforzo per
spiegare il comportamento e le scelte delle imprese che si trovano a competere in
mercati a struttura oligopolistica. Grazie alla corrente della Nuova Organizzazione
Industriale, che fa ampio uso della teoria dei giochi per spiegare il funzionamento
dei mercati oligopolistici, oggi è possibile comprendere al meglio quali elementi
possono portare un mercato a raggiungere e a sostenere una situazione di
collusione che permette alle imprese partecipanti di ricavare profitti sovra
competitivi.
Per studiare la collusione nei mercati oligopolistici, mi è sembrato utile
2
Vedi: J.M. Clark, Towards a Concept of Workable Competition, American Economic Review,
1940, 30, pag. 253.
3
Vedi: F.M. Sherer e D. Ross, Industrial Market Structure and Economic Performance 3
rd
edition,
1990, Houghton Mifflin Company, Boston.
12
riepilogare brevemente quali siano i modelli di competizione oligopolistica statici e
gli equilibri raggiungibili secondo le previsioni date da tali modelli. Difatti, i modelli
di oligopolio statici usati classicamente appaiono utili per spiegare i possibili
output che si possono ottenere in caso di scelte dinamiche e ripetute delle
imprese. Inoltre sono coerenti con la teoria dei giochi e la Nuova Organizzazione
Industriale.
13
1.2 IL PARADIGMA DELLA CONCORRENZA PERFETTA
La concorrenza perfetta è una struttura di mercato caratterizzata da
proprietà “molto auspicabili”, dal momento che, in linea teorica, tale struttura
permette di massimizzare il benessere economico della collettività. Le
caratteristiche di tali mercati, in breve, sono: le imprese sono price taker, i prodotti
sono omogenei, le imprese entrano ed escono liberamente dal mercato, gli
acquirenti ed i venditori conoscono i prezzi fissati dalle imprese ed i costi di
transazione sono bassi se non nulli3F
4
.
In concorrenza perfetta nessuna impresa ha potere di mercato, non è in
grado di fissare un prezzo superiore a quello delle altre imprese, ed i prezzi
saranno uguali ai costi marginali. Il risultato che si ottiene partendo da tali
condizioni permette di avere, sia una completa efficienza dal lato della
produzione, sia efficienza dal lato allocativo; cioè, il benessere complessivo della
società è massimo in una situazione di concorrenza perfetta, difatti, sono
massimizzati sia il benessere del consumatore, sia quello del produttore e non è
possibile ottenere nessun risultato migliore, neppure se potesse intervenire un
regolatore onnisciente. Inoltre, i mercati perfettamente concorrenziali permettono
di migliorare anche l'efficienza dinamica; questo attraverso lo stimolo
all'innovazione, dal momento che i produttori, per incrementare i loro profitti sono
stimolati a ricercare nuovi e sempre migliori prodotti per i loro clienti.
La concorrenza perfetta, nella realtà, non esiste, o almeno, sono ben pochi
i mercati che presentano tale struttura. Nonostante ciò, gli economisti adottano la
concorrenza perfetta come modello ideale con il quale confrontare i mercati del
mondo reale.
Per quanto concerne questo lavoro, è utile ricordare che l'output
concorrenziale è il risultato che si vorrebbe ottenere attraverso l'implementazione
delle legislazioni antitrust; uno degli obiettivi delle leggi scritte a tutela della
concorrenza è far si che i mercati si comportino, quanto più possibile, in una
maniera simile alla concorrenza perfetta; per far si che il benessere complessivo
della società sia massimo. Purtroppo, nel mondo reale non è neppure ipotizzabile,
4
Il concetto di competizione perfetta, partendo dalle assunzioni di Adam Smith, risale alle pagine
di Alfred Marshall in Principles of Economics (1890).
14
né realmente auspicabile, che tutti i mercati siano perfettamente concorrenziali.
Difatti, le caratteristiche di ciascun settore economico, portano ad avere un
differente numero di imprese che può variare da uno (monopolio) ad un numero
abbastanza elevato perché si possa parlare di imprese price taker.
In una ipotetica situazione di monopolio, una sola impresa, monopolista,
concentra in sé tutto il potere di mercato e può controllare sia il prezzo, sia la
quantità prodotta; un monopolista decide l'output da produrre nel tentativo di
massimizzare i suoi profitti. In generale, un'impresa che mira alla
massimizzazione del profitto deve scegliere il volume di produzione e di offerta
che uguagli il ricavo marginale al costo marginale e verificare, quindi, che il
prezzo di vendita copra almeno il costo medio di produzione. Il risultato di tali
scelte monopolistiche è che nel mercato verrà immessa una quantità inferiore di
prodotto, ed il prezzo sarà maggiore rispetto a quello che verrebbe praticato in
concorrenza perfetta.
La conseguenza del potere monopolistico è un certo grado di inefficienza
allocativa, poiché le risorse, sia del consumatore, sia del produttore, potrebbero
essere utilizzate più efficacemente; questo porta ad una riduzione del benessere
sociale complessivo. La perdita di valore è dovuta al mancato acquisto del
prodotto da parte di quei consumatori che con un prezzo concorrenziale
avrebbero effettuato l'acquisto ma che, a causa del prezzo maggiore, devono
passare ad un bene considerato "inferiore". Questa è detta perdita secca da
monopolio. La perdita di benessere da parte del consumatore, associata a quella
del produttore, costituisce la riduzione del benessere sociale.
Inoltre, anche in termini dinamici, il monopolio può portare a perdite di
benessere, in quanto le imprese monopoliste, a causa dell'assenza di
concorrenza, saranno gestite con minor efficienza dal momento che devono
fronteggiare un contesto meno aggressivo. Bisogna dire che, non vi è un parere
unanime se siano i mercati in concorrenza perfetta o quelli caratterizzati da
situazioni di monopolio a stimolare maggiormente l'innovazione 4F
5
; cioè quale
5
Si veda: Kline, S. J. e Rosenberg, N. (1986) An overview of innovation in The positive sum
strategy harnessing technology for economic growth, di Landau, R. e Rosenberg, N., National
Academic Press. Klepper, S. (1996) Entry, Exit, Growth and Innovation over the Product Life
Cycle, American Economic Review 86 (3), 562-583.
15
struttura di mercato tenda a massimizzare il benessere economico nel lungo
periodo. Tale discussione andrebbe ben oltre l'argomento di questa tesi, quindi, ci
limitiamo a sottolineare come, probabilmente, non esiste un'unica struttura di
mercato capace di massimizzare il benessere di lungo periodo di qualunque
settore economico.
Per tal motivo, la legge antitrust ha il compito di regolare le transazioni
delle imprese, affinché il mercato si comporti nella maniera più efficiente possibile,
senza però dover arrivare a regolamentare i mercati. Difatti, l’imposizione di un
certo grado di regolamentazione, che si ponesse l’obiettivo di far si che tutti si
comportino secondo i principi della concorrenza perfetta, non permetterebbe la
massimizzazione del benessere economico e produrrebbe, forse, più danni che
benefici.
Perciò, determinati mercati saranno normalmente caratterizzati da un
numero limitato di imprese, caratterizzati, quindi, da un output di oligopolio. Il fine
del diritto della concorrenza deve essere il controllo e la verifica che l’eventuale
equilibrio monopolistico del mercato sia stato raggiunto attraverso corrette
dinamiche di mercato e non grazie l'ausilio di accordi o di concertazione tra le
imprese. Infatti, senza le tali pratiche i suddetti mercati si comporterebbero come
concorrenziali, l’autorità posta a tutela della concorrenza deve intervenire per far
si che le imprese cessino tali pratiche che vanno a detrimento del benessere
collettivo.
1.3 MODELLI DI OLIGOPOLIO
Mentre esiste un unico modello economico in grado di spiegare il
comportamento dei mercati in concorrenza perfetta ed in condizioni di monopolio,
esistono molteplici modelli utilizzati per tentare di spiegare la condotta delle
imprese in mercati oligopolistici. Questa è una dimostrazione di come i mercati
reali siano assai complessi e difficilmente stilizzabili, difatti, nella realtà, è comune
trovare industrie in cui competono un numero limitato di aziende, piuttosto che
industrie in cui vi è competizione perfetta.