2
definita “periferica” o “Terza Italia”4 che si articola territorialmente tra le
regioni del Centro e del Nordest italiano.
L’Italia, infatti, raccoglie al suo interno diverse realtà economiche che si
possono identificare in tre grandi partizioni: il Nord Ovest delle grandi imprese
private, il Mezzogiorno industrialmente arretrato e il Centro-Nordest delle aree
industriali di piccola e media impresa. Ognuna di queste tre caratterizzazioni
economiche si manifesta in una marcata diversità nelle dinamiche sociali e
politiche che stanno alla base del tessuto sociale delle aree in cui si collocano. In
particolare, considerando la storia delle tre zone, si riscontrano delle notevoli
differenze influenzate da diversi fattori non ultimo quello politico.
Il distretto o area-sistema del Manzanese si colloca geograficamente
nell’ambito del Centro-Nordest che, oltre ad essere la macroarea dove più forte è
la presenza di distretti di piccola impresa, è anche l’area dove più marcata è stata
ed è la presenza di una forte subcultura. In particolare la subcultura dominante si
manifesta seguendo due diverse caratterizzazioni: al Centro è una subcultura di
sinistra, mentre nel Nordest è subcultura cattolica.
Il diretto riscontro della presenza di queste subculture si coglie
dall’osservazione dei risultati delle consultazioni elettorali recenti e del passato.
Il partito comunista (PCI) ha colto le più alte adesioni proprio nelle regioni
dell’Italia centrale quali la Toscana, l’Emilia Romagna, l’Umbria e parte delle
Marche, dove ha conquistato la guida di gran parte delle amministrazioni locali,
che i partiti di sinistra, originati dal dissolvimento del PCI, continuano a
mantenere. Per contro la Democrazia Cristiana (DC), partito di orientamento
cattolico, ha sempre ricevuto percentuali di voto più alte della media nazionale
proprio nelle zone del Triveneto, che hanno finito col connotarsi con un
orientamento tendente a centro-destra dopo lo scioglimento della DC stessa.
Il Manzanese ha in sé gran parte delle peculiarità tipiche delle zone
“bianche” del Triveneto, prima tra tutte il forte radicamento cattolico della
popolazione riscontrabile, dal punto di vista politico, con una schiacciante
maggioranza democristiana in tutte le consultazioni elettorali dal 1948 al 1987.
Anche il comportamento elettorale post DC segue quello tipico del Nordest e
vede il prevalere delle forze di centro destra, con una significativa quota ottenuta
da forze politiche autonomiste.
Per meglio delineare questo orientamento specifico, sono stati raccolti i
risultati delle elezioni politiche dal 1948 al 1996 che nel terzo capitolo vengono
analizzati cercando di cogliere l’andamento tendenziale del voto nonché di
individuare quegli elementi che ne caratterizzano la subcultura “bianca”.
Delineata la condizione generale dal punto di vista della cultura politica
del distretto si passa all’analisi del caso deviante, rappresentato
dall’orientamento di voto dei comuni della vicina provincia di Gorizia, connotati
dal forte peso della sinistra e quindi di quello che fu il PCI.
4
Cfr. Bagnasco A., "Le tre Italie", Il Mulino, Bologna, 1977.
3
Questi comuni, i più importanti dei quali sono Cormons e Mariano, non
sono tecnicamente inclusi nell’area definita come distretto dalla delibera
regionale ma fanno comunque parte di quel gruppo di comuni caratterizzati da
una significativa presenza di produttori di sedie oltre che da una contiguità
territoriale con i tre comuni del “Triangolo”.
Il forte peso del partito comunista negli anni passati (in percentuali doppie
rispetto ai comuni udinesi dell’Area) e la conseguente affermazione delle
sinistre in anni recenti, non essendoci grossi insediamenti industriali nella zona
in questione, rimanda alle dinamiche tipiche delle “zone rosse” del centro Italia.
Tuttavia l’analisi delle dinamiche subculturali della zona da noi definita
“Cormonese”, mette in evidenza alcune differenze rispetto a quanto avviene
nelle regioni centrali della Penisola. Innanzi tutto il PCI non è il partito di
maggioranza relativa bensì il secondo partito dopo una DC meno forte rispetto ai
comuni dell’Area che si trovano in provincia di Udine ma comunque arroccata
su posizioni di predominio.
Tuttavia, la particolarità dei comuni “Cormonesi” sta nel fatto che il peso
del partito comunista, a differenza delle regioni centrali, ha origini lontane.
Infatti, lo studio del comportamento politico delle zone di piccola impresa delle
regioni “rosse”, ha evidenziato come sia stata la Resistenza, capeggiata
principalmente dai comunisti, a cementare attorno al PCI la preesistente
adesione di massa al movimento socialista.
Nei comuni goriziani dell’Area della sedia, il Partito Comunista d’Italia è
il partito di maggioranza assoluta già nelle elezioni del 1921, anno in cui il
partito nacque dalla scissione del PSI al congresso di Livorno. La Resistenza,
pur vivissima nella zona, non contribuì di per se a cementare il voto del
dopoguerra attorno al PCI proprio perché i comunisti erano già forti in
precedenza.
Il terzo capitolo si conclude quindi con l’analisi del comportamento
sociale e politico delle due zone in cui viene divisa, dal punto di vista delle
dinamiche subculturali, l’Area della sedia: la zona udinese a netta
caratterizzazione “bianca” e la zona goriziana a comportamento “spurio”.
In definitiva ciò che emerge dall’analisi del comportamento politico
dell’Area della sedia è l’esistenza di un distretto industriale di piccola impresa
composto da due zone a comportamento politico diverso. Questa situazione
rappresenta probabilmente l’unico caso del genere in Italia.
4
CAPITOLO PRIMO
LA PICCOLA IMPRESA IN ITALIA
Premessa
I distretti industriali locali o aree-sistema hanno raggiunto sul finire degli
anni Settanta e all’inizio degli anni Ottanta un successo tale che ha spinto molti
osservatori a considerare la positività del modello di sviluppo “localistico”
rispetto a quello centrato sulle grandi imprese e sui grandi distretti industriali.
Infatti, mentre quest’ultimo modello di sviluppo mostrava evidenti sintomi di
crisi, quello “localistico” manifestava un’espansione su più fronti, sia in termini
di penetrazione dei prodotti in molte “nicchie” del mercato internazionale sia in
termini di espansione del fatturato, dei profitti e degli investimenti.
L’identificazione delle aree-sistema si configura seguendo due ordini di
analisi generali: il primo da un punto di vista socioeconomico ed il secondo da
un punto di vista territoriale. Tuttavia, mentre la struttura socioeconomica del
distretto trova in dottrina una definizione univoca, la delimitazione della sua
esatta collocazione territoriale è soggetta all’interpretazione di chi si occupa di
sistemi d’imprese.
In questo capitolo viene esposta quella che è la teoria socioeconomica per
spiegare i sistemi produttivi locali, in particolare, nel primo e nel secondo
paragrafo, si dà una spiegazione di quali siano le produzioni che favoriscono lo
sviluppo della PMI e si traccia un quadro globale di natura economica sulle aree
italiane in cui più marcata è la presenza di questa classe di imprese, mentre nel
terzo paragrafo si delineano i caratteri generali di un distretto industriale.
5
1.1 La piccola impresa come modello di sviluppo
In Italia, il tipo di sviluppo basato sulle imprese di ridotte dimensioni ed
interconnesse tra loro ha dato origine a degli studi specifici a partire dagli anni
settanta; risalgono infatti a quell’epoca, le prime e più vistose manifestazioni di
una crescita che caratterizzerà in modo forte le aree in cui si localizza.
Alla base di questa crescita c’è la spinta che nasce dal decentramento
produttivo. L’interpretazione del decentramento produttivo nel nostro Paese, ha
rappresentato un tema di vivace discussione fin dagli anni Settanta, epoca in cui
la dottrina si divideva tra chi sosteneva l’idea del decentramento come strategia
di risposta del capitale alle lotte del 1969-70 o chi invece ne sottolineava le
potenzialità in termini di minor costo del lavoro che si ottiene nelle piccole
imprese (L. Frey 1974 e S. Brusco 1975).
Gli studi effettuati all’epoca hanno sottolineato come effettivamente i
salari nelle piccole imprese fossero inferiori rispetto a quelli delle aziende con
più di 500 dipendenti e come forme di retribuzione, quali il fuori busta e l’uso
del cottimo, sembrassero indicare la maggior debolezza contrattuale operaia
nelle imprese minori. Così marcate differenze suscitarono l’interrogativo sulla
reale relazione tra la piccola e la grande industria in particolare sulla
subordinazione o meno della prima alla seconda. Le ricerche condotte in
particolare da Brusco (1975) sottolinearono come in genere non vi sia
necessariamente un rapporto di subordinazione. Egli osservò, fra l’altro, che
molte piccole imprese realizzano prodotti finiti e che il fatto di produrre delle
parti di una produzione finita, non significa necessariamente lavorare su
commessa, così come lavorare su commessa non significa necessariamente
subordinazione. È tuttavia evidente che le piccole imprese si trovano in
condizione comunque di dipendenza per il carattere di domanda indiretta dei
loro prodotti rispetto a quelli della grande.
Dal punto strettamente economico, con riferimento alle economie di scala,
è stato osservato come queste, nell’analisi delle piccole imprese non vadano
riferite all’intero processo produttivo bensì alle singole fasi. Sul piano empirico
infatti, si riscontrano, all’interno del processo produttivo, una serie di spazi nei
quali le economie di scala giocano un ruolo del tutto secondario. L’esperienza
ha dimostrato come esistano delle imprese minori (quelle che producono
prodotti finiti) che operano in questi spazi e sono piccole solo in apparenza in
quanto coordinano il lavoro di un numero di operai assai maggiore di quello
iscritto nei loro libri paga.
Le imprese implicate in questi processi hanno livelli tecnologici adeguati
alle lavorazioni richieste e la loro diffusione risponde ad una strategia di
subordinazione della classe operaia alla produzione capitalistica, messa in atto o
articolando una singola impresa in più fabbriche oppure suddividendo una
6
impresa in più imprese con autonomia giuridica, o commissionando all’esterno
lavorazioni.
Alle osservazioni di Brusco si aggiungono le considerazioni di Frey il
quale ricerca nella flessibilità da parte dell’impresa decentrante la ragion
d’essere delle piccole imprese. In termini generali, come sottolineato da Frey, “il
decentramento diventa la via per trasformare il più possibile la capacità
produttiva in uno stock di fattori variabili al variare della produzione
collocabile sul mercato5”.
Esempi della flessibilità così determinata sono l’adattamento alle cicliche
fluttuazioni della domanda con costi e rischi scaricati all’esterno, la possibilità di
proporzionare l’uso del fattore lavoro (in termini di ore lavorative, per esempio)
alle variazioni della domanda, la possibilità di sperimentare innovazioni in unità
decentrate, la possibilità di prendere tempo prima di espandere la capacità
produttiva, ecc.
In conclusione, l’importanza del decentramento come strategia di sviluppo
si può rilevare osservando che, nei settori che caratterizza, l’occupazione
implicita (quella non ufficialmente censita e occupata in unità decentrate sino al
lavoro a domicilio) è notevolissima. Questi studi hanno dato credito all’ipotesi
che il decentramento sia un carattere normale e durevole che il capitalismo si dà
qualora concorrano certe condizioni generali.
Queste condizioni sono: l’esistenza di unità produttive minori capaci di
assorbire le produzioni decentrate, l’omogeneità qualitativa dei prodotti rispetto
a quelli delle industrie maggiori, la presenza di lavoro disponibile senza essere
esplicitamente occupato, altri fattori socioculturali che influenzino il potere
contrattuale dei lavoratori.
Riassumendo si può affermare che le condizioni citate si concentrino
sull’esistenza di due modalità:
- l’esistenza di una tradizione o potenzialità piccolo-imprenditoriale in settori o
in lavorazioni non particolarmente avanzati
- l’esistenza di determinate caratteristiche dell’offerta di lavoro.
Tutti gli elementi visti sembrano valere in generale per le economie
sviluppate ed in particolare per la realtà manifatturiera italiana. In questo caso è
comunque importante distinguere tra differenti tipi di decentramento; mentre
nelle zone più arretrate tenderanno a crescere le forme estreme di
decentramento, come il lavoro a domicilio, in quelle più sviluppate invece, quel
tipo diminuirà ed aumenteranno le piccole imprese in senso proprio.
In particolare, il fenomeno si lega in modo decisivo al tipo di produzione
e del tipo di rapporto che si instaura con le eventuali imprese maggiori. È
riconosciuto che qualora la produzione di un determinato prodotto dia spazio
all’inserimento delle piccole imprese queste possono indirizzarsi verso tre tipi di
5
Frey, Le piccole e medie imprese industriali di fronte al mercato del lavoro, “Inchiesta” n.14, Milano, 1974.
7
funzioni: di “avanguardia” quando alla piccola impresa può inserirsi in spazi di
innovazione che alla grande non conviene sperimentare, di “retroguardia” in
comparti industriali con basse esigenze tecnologiche e mercati locali e di
“complemento” con due modalità di decentramento, uno di capacità (la piccola
impresa è aggiuntiva rispetto alla normale produzione della grande a seconda
della congiuntura), ed uno di specialità quando la piccola impresa fornisce alla
grande un prodotto intermedio anche ad alta tecnologia.
In Italia si manifestano queste tipologie di funzioni e di imprese con una
distribuzione che risente delle caratteristiche proprie di un Paese connotato da
diversità sociali e territoriali notevoli; il prossimo paragrafo intende proprio dare
un quadro di queste differenze.
8
1.2 La piccola e media impresa nello sviluppo italiano
Le piccole e medie imprese ed i distretti industriali a cui, in determinate
condizioni, esse danno origine, sono uno dei caratteri tipici dell’economia
italiana. Infatti, su piano nazionale6, ben il 71,4 % degli addetti all’industria
opera in imprese con meno di 250 dipendenti, contro il 37,5 della Germania, il
47 della Francia, il 44,5 della Gran Bretagna e il 36,6 degli Stati Uniti. Solo il
Giappone con il 74 % si pone sullo stesso livello.
Tuttavia, l’Italia ha il primato di imprese sotto i dieci addetti con il 23,3 %
mentre la percentuale media di addetti in imprese di questa classe dimensionale
riscontrata nelle nazioni citate è appena del 6,4 %.
La tendenza al decentramento è una vistosa realtà italiana ed il fatto che si
riproduca e sopravviva ovunque lascia supporre che essa assolva a funzioni che
le sono proprie nel capitalismo contemporaneo. Queste funzioni si manifestano
nel fatto che in Italia la piccola impresa ha in alcuni casi funzioni di
avanguardia, sperimentando innovazioni, in altro di retroguardia, occupando gli
spazi che non sono più redditizi per la grande.
Per capire come mai queste funzioni siano più rappresentate nel nostro
sistema rispetto ad altri, bisogna collegarsi alle ipotesi dualistiche sul nostro
modello di sviluppo che distinguono fra un settore avanzato (tecnologicamente)
ed uno arretrato (ad intensità di lavoro, arcaico) e rivelano una certa
sopravvivenza di economie arretrate di piccola impresa. Questa situazione
rappresenta il modo in cui la formazione italiana ha risolto i problemi sociali
connessi alle fluttuazioni cicliche; seguendo la classificazione di Bagnasco
(1977), il settore tradizionale è l’elemento fondamentale di stabilizzazione del
sistema.
Bagnasco, facendo riferimento alla divisione intenzionale del lavoro, ha
rilevato che le imprese possono essere classificate secondo tre settori di
operatività:
- produzioni ad alta innovazione tecnologica
- produzioni a tecnologia intermedia
- produzioni a tecnologia matura.
Le produzioni ad alta innovazione tecnologica si riferiscono ai settori delle
costruzioni aeronautiche, della chimica organica, strumenti di precisione,
macchine elettriche ecc.; le produzioni a tecnologia intermedia ai settori della
chimica inorganica, derivati del petrolio, macchine non elettriche, mezzi di
trasporto su strada ecc.; mentre le produzioni a tecnologia matura identificano la
lavorazione di pelli e cuoio, legno, tessili, derivati da minerali non metalliferi,
acciaio, calzature, ecc..
In base a questa suddivisione fin dagli anni cinquanta, si è osservato come
l’Italia si sia caratterizzata, su un piano internazionale, come una nazione in cui
6
Fonte: S. Brusco, S. Paba in “Storia del capitalismo italiano”, Donzetti, Roma, 1997.
9
prevalente è la specializzazione produttiva nelle produzioni a tecnologia matura
e a tecnologia intermedia. Il settore tradizionale è dunque il settore cosiddetto a
tecnologia matura, settore che espandendo la propria forza lavoro (in quanto
riserva di manodopera) o contraendola (in tempi di recessione assorbe i
lavoratori della produzione a tecnologia intermedia altrimenti detto moderno) ha
contribuito a stabilizzare il sistema economico italiano.
La tabella 1.1 si riferisce alla distribuzione degli addetti per classi di addetti e
rende un’idea del carattere disperso dei settori tradizionali.
TAB. 1.1 Distribuzione degli addetti ad alcuni settori tradizionali per classi di
addetti (1991)
Fino a 9 10-99 100-499 500 e oltre
alimentari e tabacco 35,5 29,6 16,1 18,9
tessili e vestiario 26,6 50,4 17,0 6,0
calzature e pelli 26,7 58,8 11,9 2,6
legno 59,1 34,7 5,6 0,6
mobilio e altro 38,9 47,7 11,4 2,0
minerali non metalliferi 22,7 43,6 19,4 14,4
TOTALE Ind. Manifatturiera 24,4 38,9 16,8 19,8
Fonte: Elaborazione dati ISTAT.
In definitiva le produzioni tradizionali sono produzioni spesso disperse, e
trovano nella piccola dimensione una specifica convenienza economica per la
loro propria natura cioè per lo stato della tecnologia che hanno raggiunto in
rapporto all’esistenza di riserve di manodopera a basso costo ancora esistente.
Inoltre, queste produzioni inducono spesso a loro volta un decentramento di
capacità perché ad esse e alle piccole dimensioni sono associate domanda
instabile e scarso controllo dei mercati; ne risulta quindi una ulteriore spinta alle
piccole dimensioni. Questa spinta, con riferimento ancora alla divisione
internazionale del lavoro, si manifesta con il carattere disperso che il settore
tradizionale riveste un po’ ovunque nel mondo, salvo però esserlo meno in
alcuni paesi rispetto all’Italia.
Così, ad esempio, per l’industria della maglieria, nel 1975, a fronte di una
dimensione media di impresa di 10 addetti in Italia, si aveva una dimensione
media di 100 in Germania e Francia e di 110 in USA7. Tuttavia, nei termini con
cui ci si avvicina al problema in questa tesi, la relativa minor concentrazione
dimensionale deve essere ricondotta oltre che all’effetto tipico dovuto alla
consistente presenza di produzioni tradizionali anche alla presenza simultanea di
altre determinazioni che concorrono con il tipo di produzione.
7
Bagnasco A., Le tre Italie, il Mulino, Bologna, 1977.
10
In Italia, queste altre determinazioni hanno fatto assumere al modello di
sviluppo economico originato dai connotati produttivi sopra delineati, una
particolare caratterizzazione territoriale. Infatti, dai dati dei censimenti
dell’industria del passato, emerge come vi sia una forte concentrazione di
piccole e medie imprese nel Triveneto e nell’Italia centrale operanti proprio nei
settori tradizionali8.
TAB. 1.2 Addetti all’industria manifatturiera per settori e aree economiche.
Settori Nord Ovest CentroNordest Meridione
Alimentari 33,5 35,5 31,0
Vestiario-abbigliamento 36,2 39,9 23,9
Calzature 22,9 59,0 18,1
Pelli e cuoio 34,8 52,3 12,9
Legno 31,2 40,5 28,3
Minerali non metalliferi 25,5 47,8 26,8
Mobilio 29,6 58,4 12,0
Tabacco 6,5 36,7 56,8
Tessili 56,3 35,2 8,5
Metallurgiche 62,6 21,6 15,8
Meccaniche 54,2 29,9 15,9
Mezzi di trasporto 71,1 17,8 11,1
Chimiche 54,5 24,6 20,9
Gomma 70,4 13,9 15,7
Cellulosa 53,8 23,0 23,1
Carta e cartotecnica 48,1 35,5 16,4
Poligrafiche ed editoriali 51,9 25,9 22,2
Foto-fono-cinematrogafici 31,0 25,9 43,1
Materie plastiche 64,4 26,5 9,1
Fonte: Elaborazione dati ISTAT 1971.
Dalla tabella si evince come i settori tradizionali rappresentassero la fonte
principale di occupazione nell’industria manifatturiera della “terza Italia” già
dagli anni Settanta, quando iniziò l’ascesa economica delle zone interessate.
TAB. 1.3 Regioni Centro-Nordorientali addetti all’industria manifatturiera per
classi di addetti 1991
1991 meno di 10 10-199 200-999 1000 e oltre
Trentino 27,7 52,2 18,5 1,6
Veneto 23,7 59,5 12,7 3,7
Friuli V.G. 19,0 45,2 11,4 24,4
Emilia Romagna 25,9 51,2 17,2 5,7
Toscana 35,5 52,2 7,0 5,3
Marche 28,0 59,4 7,6 5,0
Umbria 30,0 52,9 14,1 3,1
Fonte: Elaborazione dati ISTAT.
8
A queste due “macrozone”, bisognerebbe aggiungere la Lombardia orientale e la zona “adriatica” che dal sud
delle Marche si estende sino alla Puglia; tuttavia queste zone non si caratterizzino per la sistematicità e
l’omogeneità dello sviluppo delle PMI riscontrato nel Centro-Nordest.
11
La tabella 1.3 documenta la caratteristica dimensionale dell’industria nelle
regioni in questione, riferendosi alla ripartizione percentuale degli addetti
all’industria manifatturiera secondo l’ampiezza delle unità locali. Se si
considerano le piccole e medie imprese cioè quelle sotto i 2009 addetti ed in
particolare la classe 10-199 addetti si può notare che essa è ovunque presente in
modo massiccio e caratterizza fortemente l’intera struttura occupazionale. La
sua incidenza va da un massimo del 59,5 % nel Veneto ad un minimo del 45,2
% del Friuli Venezia Giulia.
Anche le unità piccolissime, con meno di 10 addetti sono ben rappresentate da
un massimo del 35,5 % della Toscana ad un minimo del 19 % del Friuli Venezia
Giulia. Se si considerano insieme due classi, vale a dire tutti gli addetti alle unità
con meno di 200 addetti si arriva all’87,7 % in Toscana, all’87,4 in Marche,
all’83,2 in Veneto, al 77,1 in Emilia Romagna e al 64,2 in Friuli Venezia Giulia.
Le classi superiori, oltre i 200 addetti decrescono ovunque rapidamente di
importanza, sino alle grandi unità con mille addetti e oltre che in queste regioni
incidono molto poco, se si eccettua il Friuli V.G. che tocca un significativo 24,4
%. Esiste, quindi, una buona approssimazione fra le strutture dimensionali
dell’industria manifatturiera di queste regioni ed alcune sono quasi uguali:
Veneto, Emilia Romagna, Marche e Trentino. Questa struttura è rimasta
pressoché identica dal censimento del 1961 come confermato dalla tabella 1.4.
TAB. 1.4 Regioni Centro-Nordorientali addetti all’industria manifatturiera per
classi di addetti 1961.
1961 meno di 10 10-249 250-999 1000 e oltre
Trentino 41,7 35,8 12,3 10,2
Veneto 26,0 47,3 15,5 11,1
Friuli V.G. 25,7 37,6 20,3 16,4
Emilia Romagna 34,4 47,7 13,8 4,0
Toscana 32,5 46,3 10,6 10,6
Marche 44,8 42,7 10,0 2,5
Umbria 35,0 30,3 13,2 21,5
Fonte: Elaborazione dati ISTAT.
In particolare dal confronto dei dati delle tabelle 1.3 e 1.4, si evince come
vi sia stato uno spostamento centripeto da due sensi: la classe “meno di 10
addetti” si è ridotta a favore di quelle intermedie così come ha fatto, in modo più
vistoso, la classe “1000 e oltre” confermando in tal modo le spinte verso il
decentramento di cui si è precedentemente parlato.
9
Secondo i parametri dell’Unione Europea si parla tecnicamente di piccola impresa quando questa abbia un
numero di dipendenti non superiore a 50 (e fatturato non sup. a 5 milioni di ECU) e di media impresa se il
numero di dipendenti non supera le 250 unità (e fatturato non sup. a 20 milioni di ECU). Nel censimento del
1991 non era contemplata la classe fino ai 250 dipendenti.
12
Dopo aver constato che la PMI caratterizza le regioni in questione,
dobbiamo ora considerare il carattere funzionale di questa economia per risalire
poi alla sua matrice strutturale. Si deve, cioè, verificarne i caratteri di economia
“periferica”10. Il primo riscontro riguarda il tipo di produzione, in ipotesi
tradizionale.
La tabella 1.5 organizza i dati secondo la dicotomia settori moderni -
settori tradizionali; i settori trascurati, perché di più difficile collocazione,
risultano coprire nella media nazionale meno del 10 %. Settori relativamente più
moderni sono considerati: l’industria metallurgica (codice ISTAT DJ), la
meccanica (DK), la costruzione di mezzi di trasporto (DM), la chimica (DG) e
l’industria della gomma (DH).
Il carattere periferico riferito a queste industrie si deve supporre
all’incrocio fra settore e piccola dimensione, come produzione interstiziale.
Settori tipicamente tradizionali sono considerati: gli alimentari e tabacco (DA),
il tessile e vestiario (DB), le pelli, il cuoio e le calzature (DC), la lavorazione del
legno (DD) la lavorazione dei minerali non metalliferi (DI), altre attività
manifatturiere (DN) in cui sono classificati il settore del mobile (36.1) e della
sedia (36.11).
TAB. 1.5 Regioni Centro-Nordorientali: distribuzione percentuale degli addetti
all’industria manifatturiera.
Trentino Veneto FVG Romagna Toscana Marche Umbria
Settori tradizionali
1961 53,5 59,0 51,5 55,3 65,2 63,9 55,2
1971 43,9 54,2 46,0 49,3 62,7 64,4 54,8
1991 47,6 54,6 45,1 44,8 63,9 66,6 57,0
Settori Moderni
1961 40,1 32,6 41,5 38,8 29,1 24,6 39,8
1971 47,7 36,1 46,5 43,2 30,2 26,4 35,8
1991 38,2 33,2 40,2 43,1 25,8 24,3 33,7
Fonte: Elaborazione dati ISTAT.
La tabella si riferisce alla distribuzione degli addetti fra le due classi e
permette un confronto 1961-1991. Come si vede il carattere prevalente
dell’industria manifatturiera è rappresentato ovunque dai settori tradizionali e
c’è addirittura un rafforzamento nelle Marche e nell’Umbria (ove rappresentano
il doppio del “peso” rispetto ai settori moderni). In definitiva, dunque, si è
verificata, con riferimento agli elementi teorici prima predisposti, la generale
10
Nella classificazione delle “tre Italie” che Bagnasco fa, esistono un’area di economia centrale che è il Nord
Ovest della grande impresa ed un’area ad economia marginale che è il Mezzogiorno caratterizzato da
arretratezza economica e disomogeneità dell’insediamento industriale. La terza classificazione è appunto quella
di area ad economia periferica del Centro-Nordest di PMI (A. Bagnasco, op. cit. 1977)
13
omogeneità che esiste tra queste aree; risulta utile quindi fare una breve analisi
riferita all’intera area nel suo insieme.
TAB. 1.6 Caratteri generali per aree economiche (migliaia di lire 1998).
1995
Centro
Nordest
Nord
Ovest Mezzogiorno Italia
Popolazione (migliaia) 21.616 15.168 21.564 58.349
PIL (miliardi di lire 1990) 600.900 447.713 337.216 1.385.830
PIL per occupato 82.368 88.251 67.025 79.651
Consumi finali interni per abitante 26.840 26.369 19.387 23.947
Redditi da lavoro dipendente per dipendente 49.024 51.007 41.889 47.554
Fonte: Elaborazione dati ISTAT.
Il quadro, offerto dai dati della tabella 1.6, mette in evidenza la condizione
“marginale” del Mezzogiorno e sottolinea ulteriormente il ruolo economico
“centrale” delle regioni del Nord Ovest. È interessante notare come un indice di
produttività quale è la dimensione del PIL per occupato, sia maggiore nel Nord
Ovest così come il livello del reddito da lavoro dipendente per dipendente.
Tenendo in dovuta considerazione il livello di astrazione della statistica e quindi
tenendo presente che esistono diverse situazioni interne, sapendo che esiste una
relazione diretta tra la produttività e capitale fisso per addetto11 si arriva a
confermare che l’economia periferica ha i caratteri tipici connessi ad una
economia meno capitalizzata, a minore produttività e a minor costo del lavoro
rispetto all’economia di regioni a economia “centrale”.
Il rapporto tra addetti all’agricoltura e popolazione attiva è in genere
considerato un buon indicatore del grado di sviluppo. In Meridione tale rapporto
è ancora elevato (12,3 %), mentre si è notevolmente ridotto nell’area periferica
(dal 16,2 % del 1970 al 6,4 %) avvicinandosi ai livelli del Nord Ovest (5,5 %)12.
È tuttavia sul versante della bilancia commerciale e sulla capacità di creare
occupazione che l’economia “periferica” italiana ha dato i suoi risultati migliori.
Dalla figura 1.1 si rileva la chiara propensione all’export delle regioni
maggiormente interessate dallo sviluppo basato sulla PMI, addirittura più
marcatamente significativo delle aree classiche del capitalismo industriale
italiane, dove solo il Piemonte sembra avere un attivo nella bilancia
commerciale.
11
A Bagnasco op. cit. pag. 163
12
Ibidem.
14
Per quel che riguarda il tasso di disoccupazione13, si rileva come le regioni
Centro-Nordorientali si attestino sul valore più basso su scala nazionale con il
6,6 % seguite dalle regioni nordoccidentali con il 7,9 % e quindi dal Sud con il
18,9 %. Tutte queste caratteristiche sottolineano la vitalità delle PMI del Centro
e del Nordest, vitalità che in determinate condizioni origina dei fenomeni
industriali di rilevante importanza economica quand’anche sociale quali sono i
distretti industriali locali.
Figura. 1.1 Saldo commerciale con l’estero (miliardi di lire 1996)
-10.000
-5.000
0
5.000
10.000
15.000
20.000
25.000
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na
Fonte: ISTAT 1997.
Fin qui si è delineato il modello di sviluppo basato sulla PMI; essendo il
nostro scopo quello di dare una sistemazione teorica all’Area della sedia intesa
come distretto e non come semplice agglomerato di piccole e medie imprese,
nel prossimo paragrafo si analizzerà la struttura teorica che sta proprio alla base
dei distretti industriali. L’analisi si rifà ai presupposti dettati dal primo che
studiò in maniera compiuta i distretti industriali: Alfred Marshall.
13
Fonte: Istat 1997.