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Introduzione
Il presente lavoro di tesi è stato ispirato da due constatazioni principali. La prima è di
ordine pratico, la seconda di ordine teorico, ma entrambe attengono, in qualche modo,
all'esperienza personale dell'autore.
La prima constatazione è legata alla mia partecipazione diretta alle attività di un
centro sociale in particolare, il L.O.Ska, a Napoli. E, per essere ancora più precisi, alla
Squola (sic) popolare d'italiano dello Ska. In questa scuola dei volontari insegnano i
rudimenti dell'italiano a immigrati, molto spesso privi di permesso di soggiorno e delle
condizioni necessarie a legalizzare la propria presenza in Italia. Partecipando alle attività
di questa scuola, che si svolgono nei locali occupati del centro sociale, in Calata Trinità
Maggiore n.15, mi sono reso conto di come questi stessi locali acquisissero le
caratteristiche di spazi pubblici. Le aule del centro sociale, aperte a tutti, senza alcuna
forma di discriminazione né di selezione all'ingresso, erano vissute da questi individui che
se ne appropriavano momentaneamente. Spesso dubbiosi e talvolta anche diffidenti in
partenza, i migranti consideravano (considerano) le strutture del centro sociale con un
certo distacco: sono strutture vecchie e certo non soggette a manutenzione costante (gli
unici a prendersene cura sono gli occupanti, con i fondi di volta in volta derivanti
dall'autofinanziamento). Eppure ne fanno un punto di incontro, gradualmente si
affezionano, persino, a quei locali che finiscono per considerare come propri. Vivono lo
spazio del centro sociale come uno spazio pubblico, laddove gli spazi pubblici tradizionali
sono loro negati.
Se la prima constatazione era di ordine pratico, la seconda è invece di ordine
teorico. Ricercando, infatti, materiale bibliografico sui centri sociali a Napoli mi sono
imbattuto in una fondamentale carenza di informazioni. L'argomento dei centri sociali
non è più all'ordine del giorno: si tratta in fondo di forme sperimentali di
autorganizzazione nate in Italia circa quarant'anni fa e a Napoli circa trent’anni fa. Nel
tempo diversi centri sociali si sono susseguiti in più punti della città, e solo pochi sono
durati a lungo. Se dei primi, quelli scomparsi, è naturale che non ci siano molte tracce,
l'assenza di informazioni riguardo ai secondi è invece più rilevante: indica che ci si trova
davanti ad un argomento piuttosto sfuggente e su cui gli studi non sono mai stati
abbondanti. Si tratta, infatti, di una materia rilevante soprattutto al livello locale, dunque
potrebbe sembrare che non rivesta un interesse che vada oltre la scala del quartiere o al
8
massimo della città. Inoltre i centri sociali sono soggetti sempre in cambiamento, dunque
difficili da individuare, e sono spesso trascurati dalle ricerche di ambito sociale
commissionate dalle istituzioni locali. Il rapporto con queste è infatti in molti casi
conflittuale. Alcuni centri sociali di Napoli, dopo lunghi anni di occupazione abusiva,
sono stati legalizzati dal Comune attraverso lo strumento del comodato d'uso
(segnatamente Officina 99 e il D.A.M.M., si veda infra), mentre altri rimangono, di fatto,
illegali. Tuttavia la parziale legittimazione non è stata foriera di maggiore attenzione dal
punto di vista della ricerca. Per questo motivo, il modo migliore per trovare informazioni
su questi luoghi rimane comunque il ricorso all'osservazione diretta (‘l'osservazione
partecipante’, per utilizzare un termine della ricerca sociologica, preso qui in prestito per
fini geografici). La storia di questi luoghi si tramanda ancora in buona parte in modo
orale, attraverso la narrazione di chi ha partecipato attivamente alla loro costruzione.
Da queste due constatazioni è scaturita dunque la presente ricerca: un lavoro basato
in primo luogo sull'esperienza sul campo e sugli incontri fatti con i protagonisti di queste
anomale formazioni sociali che sono gli spazi occupati a Napoli. Una ricerca che, poi, si è
potuta giovare di una serie di contributi sull'argomento che descrivono il fenomeno in
un'ottica nazionale. Molte sono, infatti, le analisi sui centri sociali in altre regioni e in
altre città (a Torino, per esempio, ma anche a Milano
1
). Talvolta queste ricerche fanno
uso anche di dati empirici, basandosi su questionari e statistiche, elementi che a Napoli
sono stati usati molto raramente per descrivere i centri sociali. La presente tesi nasce
dunque proprio come indagine iniziale su un fenomeno visto in un suo aspetto peculiare:
quello del suo legame con lo spazio. E si propone di mostrare come per le loro
caratteristiche i centri sociali possano in molti casi essere considerati come dei veri e
propri spazi pubblici, soprattutto per quei soggetti che non possono usufruire liberamente
degli spazi pubblici urbani. Per questo motivo ho iniziato il lavoro con un'ampia
riflessione sullo spazio pubblico sulla scala locale. Innanzitutto, dunque, ho descritto il
significato del concetto di scala nella sua accezione più ampia, applicandolo cioè ad una
dimensione spaziale astratta che pur sempre nasce dal territorio ma ne risulta emancipata
e flessibile.
1
Ad esempio: Moroni P. (a cura di) 1996: Centri sociali. Geografie del desiderio: dati, statistiche, mappe,
progetti e divenire. Shake ed. e Membretti A. : Leoncavallo SpA - Spazio pubblico Autogestito. Un percorso
di cittadinanza attiva, Ed. Leoncavallo, 2003, download integrale all’indirizzo:
http://www.sociability.it/?page_id=32 (ultima visita 5 aprile 2011)
9
In seguito è stato esaminato il valore degli spazi pubblici, che nell'era
contemporanea sembrano gradualmente scomparire per lasciare il posto a degli spazi
pubblici commercializzati, legati ad una necessità di profitto e dunque, proprio per questo,
meno pubblici. Con ciò si intende rilevare come spesso anche negli spazi pubblici
compaiano discriminazioni ed esclusioni, che li portano ad essere accessibili solo ad
alcuni. Il che ne mina la stessa natura di ‘pubblicità’. Infine ho analizzato più nel dettaglio
tre centri sociali napoletani, cercando di descrivere la loro storia in una chiave geografica,
osservando l'interazione con il territorio e con i soggetti che lo popolano. I centri sociali
presi in considerazione sono stati Officina 99, il Laboratorio Occupato Ska e il D.A.M.M.
Zone Multiple Occupate. Ognuno di questi “casi di studio” ha sviluppato nel tempo un
diverso rapporto con il quartiere e con la città, acquisendo, così, una serie di caratteri più
o meno stabili, per quanto non fissi (giacché sempre mutevoli in base agli occupanti, che
di volta in volta cambiano, o anche solo ai frequentatori). Ad ogni modo per questi centri
sociali si può parlare di veri e propri spazi pubblici, e del resto in due casi l'ipotesi è stata
confermata anche dalla concessione del comodato d'uso da parte del Comune di Napoli,
che ne ha, così, in un certo senso, riconosciuto ed evidenziato la natura di luoghi di utilità
pubblica.
La ricerca, ad ogni modo, può essere considerata come un punto di partenza per una
serie di riflessioni future sulla materia. Riflessioni che senza dubbio potrebbero essere
confortate da una serie di dati, che si potrebbero, però, ottenere solo attraverso delle
analisi empiriche condotte in tempi più lunghi. Le analisi dovrebbero riguardare la natura
dei frequentatori e in tal senso ci si potrebbe giovare di questionari e sondaggi su chi
prende parte alla vita dei centri sociali, sulla collocazione nella società, sull'idea che
questi soggetti hanno di spazio pubblico. In particolare, analisi potrebbero essere utili per
decostruire l'immagine più diffusa pubblicamente dei centri sociali. Frequentemente nei
media si parla di “ragazzi dei centri sociali”, facendo riferimento ad un insieme di
soggetti che è in realtà è molto difficile identificare. Al punto tale da poter dire con una
certa sicurezza che quest'espressione dovrebbe essere modificata. Essa, infatti, è volta a
creare nel fruitore dei media un'associazione immediata che non trova riscontro nella
realtà dei fatti. I frequentatori dei centri sociali, infatti, non possono essere identificati da
10
un'espressione così statica. Secondo Moroni
2
spesso succede, per questi fenomeni, che i
tratti dei singoli individui vengano utilizzati per rappresentare “l'identità collettiva
dell'attore”. «Questo trasferimento ai singoli partecipanti dell'immagine ‘mediatizzata’
rappresenta normalmente la principale fonte di equivoci e fraintendimenti, perché assume
per buona una premessa sempre contraddetta dalla concreta esperienza dei movimenti:
che cioè i caratteri del gruppo siano gli stessi degli individui che lo compongono [...] In
sostanza la possibilità di prendere il singolo partecipante a immagine delle caratteristiche
del gruppo».
Del resto quello dei centri sociali occupati è un modello di utilizzo dello spazio
ormai piuttosto diffuso nei grandi centri urbani e nelle loro periferie. L’esperienza dei
centri sociali ha coinvolto migliaia di persone in tutta Italia, nell’arco di quattro decadi, a
partire dagli anni ’70. Essi hanno avuto uno sviluppo diseguale e asimmetrico, che ha
confermato il loro carattere di organizzazioni non formalizzate e non istituzionali. Questo
carattere è stato allo stesso tempo sintomo e causa di una diffusione non definita sul
territorio, di una geografia non scelta ma spontanea. Allo stesso modo, comunque, questo
carattere è stato tra le motivazioni della scarsità di informazioni disponibili sul fenomeno.
Non ci sono atti di fondazione dei centri sociali, non ci sono tracce scritte della loro
evoluzione storica, non ci sono documenti che ne descrivano la volontà politica. Questo
rende, dunque, problematico lo studio di un fenomeno, pure, così diffuso. Mosso da
questa constatazione ho voluto esaminare meglio una realtà fortemente presente
nell’ambiente metropolitano partenopeo. Nella città di Napoli rimane una forte tradizione
di politica di movimento, esercitata anche attraverso i centri sociali. I centri sociali,
inoltre, sono attori spesso molto attivi sul territorio, capaci di condensare attività sociali e
di volontariato.
Consolidato da anni di attività, il modello dei centri sociali è stato anche per diversi
periodi al centro della sfera pubblica, grazie a giornali e servizi televisivi. Man mano,
però, che esso di volta in volta perdeva d'attualità, veniva di nuovo marginalizzato.
Fondamentalmente, dunque, più che un discorso ben definito sui centri sociali, nel tempo
si sono articolati più discorsi legati a singoli episodi che sono stati a essi legati: sgomberi,
occupazioni, campagne antiproibizioniste. In questo modo gli aspetti più conosciuti del
fenomeno sono, come spesso accade, quelli più “notiziabili”. Questo ha portato ad un
2
In Moroni P. (ed.) 1996: Centri sociali. Geografie del desiderio: dati, statistiche, mappe, progetti e
divenire, Shake ed., p.22
11
approccio superficiale verso questo tema, che invece andrebbe certamente approfondito. I
centri sociali, infatti, hanno svolto nel tempo e nello spazio ruoli diversi e molteplici,
configurandosi come spazi di contaminazione, dotati di grande ricchezza.
12
I. L’importanza di un’analisi locale alla luce del concetto di scala
In questo primo capitolo si procederà ad un’analisi puntuale del concetto di scala nelle
sue diverse sfumature e soprattutto nelle diverse interpretazioni che nel tempo ne sono
state date. Si potrà constatare, così, come all’interno di questa ricerca tale concetto sia
utilizzato in un significato ampio, non prescrittivo ma descrittivo e volto, tuttavia, a
situare in un orizzonte più definito il fenomeno oggetto d’analisi: quello dei centri sociali.
Le definizioni di scala
Il discorso sui centri sociali, come vedremo nel corso di quest’analisi, non può essere
portato avanti in astratto. Esso, infatti, ha stretti legami con la realtà territoriale in cui i
centri sociali sorgono. Ogni forma di vita sociale è necessariamente “situtata”
3
, legata a
uno o più luoghi particolari. Ammettere questo non vuol dire, certo, assegnare
immediatamente una scala ai processi che sono oggetto di studio. Eppure nell’esaminare
tali processi ci si troverà più volte a confrontarsi con un’analisi territoriale collocata in
un’ottica di scala relativamente ristretta: quella del locale.
La definizione di scala cui si fa riferimento, non è una definizione di tipo cartografico.
«La scala cartografica si riferisce alla scala della rappresentazione o alla densità di
informazioni presenti su una mappa»
4
. La scala geografica è, invece, «la scala a cui un
particolare fenomeno o questione è inquadrata geograficamente»
5
.
Un dibattito relativo alla scala in ambito geografico si è sviluppato negli ultimi anni
6
.
Parte di ciò si deve all’emergere di movimenti politici, ma soprattutto sociali, che hanno
mosso la loro azione dalla constatazione dell’esistenza di alcuni processi di
globalizzazione per rivendicare l’importanza del locale. Accenni al concetto di scala si
trovano già in Friederich Engels il quale suggeriva come il potere del movimento dei
lavoratori dipendesse «dal luogo in cui esso operava e dalla scala alla quale operava»
7
.
Tuttavia, i primi a parlare di “scala” sono stati i geografi di impostazione marxista, negli
3
Swyngedouw E. 1997: Neither Global nor Local “Glocalization” and the politics of scale, in Spaces of
Globalization Reasserting the Power of the Local, (a cura di) Cox K.R. , Guilford Press, New York,
p.142
4
Agnew J. 1997: “The dramaturgy of horizons: geographical scale in the “Reconstruction of Italy” by the
new Italian political parties, 1992-95”, in Political Geography, vol.16 n.2, pp.99-121
5
ibidem
6
Moore A., 2008: “Rethinking scale as a geographical category: from analysis to practice”, in Progress in
Human Geography vol. 32, n.2, p.203
7
Swyngedouw E. 1997, op.cit., p.145
13
anni ’70 del XX secolo. E’ in questo momento che la scala acquisisce analiticamente una
dimensione concreta, venendosi a configurare come elemento integrante nelle spiegazioni
date da diversi studiosi a proposito della gestione dei rapporti economici internazionali.
Ma cos’è, di preciso, la scala? Unico punto su cui tra diversi studiosi sembra esservi
accordo, è che non si tratti di una categoria data e fissa, bensì di un concetto costruito
socialmente, dunque mutevole. Secondo Delaney e Leitner la scala è «una gerarchia
nidificata di spazi di diverse dimensioni limitati da confini, come il locale, il regionale, il
nazionale e il globale»
8
. Per chiarire ulteriormente il concetto di scala, Moore
9
fa invece
riferimento a due scuole di pensiero differenti: una analizza la scala in termini più
politico-economici, l’altra, invece, la vede come una cornice discorsiva.
La prima scuola, dunque, è quella di matrice politica-economica, nell’ottica della quale la
scala è considerata un’ “entità socio-spaziale materiale”. Smith definisce le scale come
«materializzazioni di forze sociali contestate» e «piattaforme per specifici tipi di attività
sociali»
10
. Egli dà alla scala un ruolo effettivamente sociale quando scrive: “è possibile
concepire la scala come risoluzione geografica di processi contraddittori di competizione
e cooperazione”. Anche Howitt
11
enfatizza l’importanza delle relazioni sociali nello
spazio all’interno del processo che porta a costruire il concetto di scala e lo fa ribadendo
l’esistenza, in ogni scala, di almeno tre dimensioni: grandezza, livello e relazione. Per
quanto riguarda il rapporto con il “luogo” (place), le scale geografiche servono a
distinguere i luoghi, a creare dei confini che separino le esperienze assegnandole con una
certa precisione a un determinato spazio geografico. E’ così che nel processo simbolico di
produzione del luogo è implicita la creazione e l’utilizzo di una scala, e viceversa.
Prendendo spunto, ancora una volta, dai termini proposti da Smith, possiamo dire che: «la
scala contiene l’attività sociale e allo stesso tempo fornisce una geografia già suddivisa
(partitioned) all’interno della quale l’attività sociale ha luogo. La scala demarca il sito del
contesto sociale, l’oggetto e infine la risoluzione del contesto»
12
; in questo senso la scala
è certamente un comodo utensile di semplificazione mentale. Nello stesso testo, più
avanti, Smith si propone l’analisi di una sequenza di diverse scale: il corpo, la casa, la
8
Delaney D., Leitner H. 1997: “The political construction of scale”, in Political Geography, n.162, p.93
9
ibidem
10
Smith N. 1993: Homeless/global, scaling places, in Mapping The Futures: Local Cultures global
Change”, (a cura di) Bird J., Routledge, Londra, p.100
11
Howitt R. 2003: Scale, in A Companion to Political Geography, (a cura di) Agnew J., Mitchell K., Toal
G., Blackwell Companions to Geography, p.144
12
Smith N. 1993, op.cit., p.101
14
comunità, la scala urbana, la regione, la nazione, la scala globale. Ognuna di queste è
esplorata in almeno quattro aspetti: identità, vista come insieme di caratteristiche che
rendono la scala coerente; differenze interne, confini con le altre scale; possibilità
politiche di resistenza inerenti alla produzione di scale specifiche e all’abrogazione di
confini. Chiaramente, queste scale non vanno viste come rigidamente separate, ma come
legate in molti punti, non fosse altro che per il fatto di essere tutte prodotte dallo stesso
capitalismo contemporaneo e in particolare dai suoi meccanismi economici e politici. Ad
esempio, il corpo (secondo Smith sito primario della costruzione dell’identità personale) è
socialmente costruito: si pensi solo ai concetti di genere e al diverso modo in cui segni
della natura biologica sono stati interpretati nel tempo.
Secondo Taylor
13
, invece, le scale sarebbero tre: quella dell’economia-mondo, dello stato-
nazione e della località. Una suddivisione in tre scale, legate tra loro in senso verticale, dà
alla scala centrale – quella dello stato nazione - il ruolo di pivot, incaricato di mediare tra
gli interessi, potenzialmente in conflitto, delle altre due scale. L’individuo vive tra queste
scale, collocando l’esperienza quotidiana su un piano locale influenzato da eventi cruciali
che avvengono su una scala globale. Tra l’esperienza (sulla scala locale) e la realtà (su
quella globale), c’è l’ideologia (sulla scala pivot, quella nazionale).
In questo genere di analisi che prende in conto diversi tipi di scale, rimanendo, legati alle
premesse e alle osservazioni di Smith, è possibile accennare alla collocazione dei centri
sociali tra la scala della comunità e quella urbana. Del resto la scala della comunità è
quella in cui ogni forma di localismo è, secondo Smith, maggiormente radicata; la scala
urbana è, invece, quella del mercato del lavoro, ma anche quella in cui si compiono le
divisioni spaziali relative all’uso e al funzionamento della città. Eppure è facilmente
dimostrabile il legame del centro sociale come istituzione volontaria di autorganizzazione
con le altre scale prese in esame da Smith, avendo essi legami d’affiliazione con altri
centri sociali sul territorio nazionale e spesso anche con movimenti sociali attivi a livello
globale.
Nella scuola politico-economica definita da Moore riguardo al concetto di scala, può
rientrare anche Swyngedouw, legato ad un significato di matrice sociale per il termine
geografico di scala, che sarebbe, così, «l’incarnazione di relazioni sociali di acquisizione
13
Flint C. e Taylor P.J. 1993: Political Geography: World-Economy, Nation-State and Locality, Harlow
Longamn, p.30
15
e perdita di potere e insieme l’arena in cui queste relazioni sociali operano»
14
.
Swyngedouw dichiara poi che «la scala non è socialmente o politicamente neutrale, ma
incarna ed esprime relazioni di potere». Secondo lo stesso autore, la scala è un processo
che va concepito insieme come risultato e prodotto della lotta sociale per il potere e per il
controllo; perciò egli analizza con attenzione il ruolo della scala nei processi messi in luce
dalla teoria della regolazione. A rilevare la coerenza di un approccio politico-economico è
anche Beth Mitchneck
15
, la quale aggiunge anche come esso enfatizzi l’importanza dello
spazio relazionale e delle relazioni sociali radicate localmente nell’influenzare l’adozione
di decisioni politiche.
Dopo aver riassunto le posizioni di geografi che vedono la scala come elemento
essenziale di un’analisi di stampo politico-economico, Moore parla poi di una seconda
scuola di pensiero, che considera la scala come una cornice discorsiva, un costrutto
epistemologico. La scala non va considerata, dunque, un a priori, un concetto ontologico,
bensì un oggetto legato alla conoscenza e alla percezione. Come «epistemologia la scala è
legata intimamente alla nostra conoscenza di potere e spazio»
16
.
Passo successivo all’identificazione di diverse scuole di pensiero rispetto al concetto di
scala, può essere quello dell’analisi degli effetti (più o meno) prescrittivi che
dall’ermeneutica di queste scuole possono derivare. In un’ottica di scala come realtà
politico-economica, è chiara l’enfasi su un modello gerarchico di distribuzione degli
spazi, appunto ordinati per scala. In questo modo, le scale sono viste come costrutti
gerarchici fissi e legati al capitalismo e alla necessità di accumulazione capitalistica. In
questo senso i rapporti tra le scale possono essere descritti come rapporti di potere diffuso
in senso verticale, generalmente dall’alto verso il basso, e adattarsi a descrivere modelli
economici e potestativi.
C’è dunque una sostanziale differenza tra l’idea che le scale siano più o meno delle realtà
date, all’interno delle quali si svolgono alcune relazioni sociali, e l’idea secondo cui le
scale siano, invece, semplicemente degli utensili epistemologici, costruiti appositamente
per comodità d’analisi. Insomma, le scale sarebbero costruite solo socialmente, e non
14
Swyngedouw E. 1997: Neither Global nor Local “Glocalization” and the politics of scale, in Spaces of
Globalization Reasserting the Power of the Local, (a cura di) Kevin R. Cox, Guilford Press. I corsivi sono
miei.
15
Mitchneck B. 2005: “Geography Matters: Discerning the Importance of Local Context”, in Slavic
Review, vol.64, n.3, p.498
16
Jones K.T. 1998: “Scale as epistemology”, in Political Geography, vol. 17, n.1, p.27