l’emozione, le routines produttive, ecc.). Il corpus di analisi risulterà sicuramente incompleto.
Concentrare l’attenzione sui quotidiani e settimanali nazionali di alta tiratura ha escluso in tal modo
dall’analisi il coro dei media indipendenti non ufficiali sorti in vista del G8. Tuttavia ciò ha
permesso di salvaguardare l’accuratezza dell’analisi a discapito della sua ampliezza. Sono stati
scelti cinque quotidiani poiché si ritiene essi siano rappresentativi, nel panorama editoriale italiano,
1
delle ideologie politiche attuali. Il corpus di fotografie ha orientato la scelta dell’argomento di tesi
verso la Polizia e non tutte le forze dell’ordine presenti a Genova: un segmento più limitato che
fornisse maggiori garanzie di controllabilità metodologica. Tuttavia talvolta sono state prese in
esame immagini di operatori delle forze dell’ordine appartenenti all’Arma dei Carabinieri. Come
già diceva Lévi-Strauss spiegando il suo metodo di analisi dei miti, la semiotica non ha un corpus
testuale perfettamente stabilito a priori, ma lo definisce man mano. Lo studioso si riserva infatti di
aggiungere nuovi materiali e di decidere solo alla fine dell’analisi i “confini” definitivi dell’oggetto
da analizzare. Si è estesa così l’analisi alle fotografie di carabinieri per un’esigenza di carattere
metodologico, quando le similarità delle configurazioni visive consentivano di fare delle assunzioni
valide sia per la polizia che per i carabinieri. Facendo ciò si è ipotizzato che la competenza media di
un lettore di un quotidiano, spesso intento in una lettura veloce e non attenta, possa non riconoscere
le differenze tra le due istituzioni. Le fotografie dell’uccisione di Carlo Giuliani non sono state
volutamente incluse nel lavoro. L’immaginario collettivo ha imparato a distinguere i protagonisti di
quelle immagini fotografiche senza che vi fosse confusione nel riconoscimento delle forze di polizia
e carabinieri.
In sintesi si può dire che con gli anni si è venuto a costituire un habitus percettivo, cognitivo e
simbolico che ha portato all’edificazione di una rappresentazione delle forze dell’ordine che ha
subito processi di semplificazione e stereotipia. L’accreditarsi di una strutturazione precisa nella
rappresentazione delle forze di polizia non impedisce che nuove modalità espressive possano
trovare spazio tra le pagine dei quotidiani, sebbene in misura sicuramente minore.
La definizione dell’iconografia tipica della polizia, in quanto ripetuta ed edulcorata, viene a
costituire la rappresentazione dei valori sociali delle forze dell’ordine. Avere la piena
consapevolezza della dimensione sociale dei fatti di significazione, in grado di render conto dei
sistemi (culturali e valoriali) della società, contribuisce a concepire le immagini degli agenti di
polizia come un prodotto sociale suscettibile anche di trasformazione. A tal proposito possono
essere citate le parole di A.-J. Greimas: “ho pensato che la semiotica avesse una vocazione non solo
alla conoscenza del fatto sociale o individuale, ma anche alla trasformazione del sociale o
2
dell’individuale, e che la semiotica potesse funzionare come una terapia del sociale”.
In conclusione la presente ricerca si presenta come un lavoro, per così dire, esplorativo su un
argomento vario e complesso. La speranza è che possa favorire in futuro più circostanziate ricerche
per ripagare l’interesse e la dedizione di coloro che, come la scrivente, lavorano nella Polizia e
credono che quest’istituzione vada “ripensata”.
1
Non sono state prese in considerazione le testate più squisitamente partitiche poiché, dopo una prima analisi, si è
potuto constatare la similarità di posizioni espresse con quelle dei quotidiani maggiormente diffusi.
2
Greimas A.-J. cit. in M. P. Pozzato, Semiotica del testo. Metodi, autori, esempi, Roma, Carocci, 2001, p. 214
4
1
La Polizia a Genova: storia di un istituzione
5
I fatti di Genova:
spettacolarizzazione e criminalizzazione dei protagonisti
Prima di potere, la polizia deve sapere,
prima di agire deve definire il suo obiettivo.
Questa definizione è fatta in parte dalla società
e in parte dal potere che designano i nemici,
quelli che minacciano l ordine pubblico.
Ma la polizia ha qui un margine di manovra.
(J.J. Gleizal)
Nel luglio 2001 si svolge a Genova il summit delle otto grandi potenze mondiali.
L’appuntamento è carico di implicazioni di natura politica ma anche sociale ed economica: in
questa sede dovranno essere prese decisioni inerenti la firma del trattato di Kyoto, i sistemi di
governance per la globalizzazione dei commerci, l’emergenza sanitaria (AIDS, malaria),
l’alleggerimento del debito dei Paesi meno avanzati, agricoltura e sicurezza alimentare, la difesa
dell’ambiente, lo sviluppo della tecnologia digitale la lotta alla criminalità transnazionale. Oltre che
per l’interesse per le problematiche da affrontare, le giornate di Genova si caratterizzano anche per
alcuni episodi di cronaca nera nei giorni immediatamente precedenti il summit. Il 16 luglio un
militare di leva viene gravemente ferito dall’esplosione di un ordigno nella caserma dei Carabinieri
del quartiere di San Fruttosio; gli artificieri disinnescano un ordigno incendiario nei pressi dello
Stadio Carlini, luogo di accoglienza delle Tute Bianche e della Rete No Global. Il 18 luglio una
bomba esplode nella redazione del TG4; un plico esplosivo e un ordigno vengono rinvenuti
rispettivamente nella sede Benetton di Ponzano Veneto e nei pressi della Questura di Bologna; un
attentato incendiario danneggia un’agenzia di lavoro interinale a Milano. Le indagini vengono
indirizzate sul fronte anarchico.
Partecipano a Genova 1387 organizzazioni non governative coordinate dal Genoa Social
Forum con la presenza di trecentomila contestatori. Il movimento no global si presenta come
risposta a un modello di globalizzazione imperante e vincolante, quello neoliberista. Alla logica del
mercato, esso oppone un’alternativa economica e sociale che preservi la giustizia sociale e i bisogni
delle culture locali. Il Genoa Social Forum organizza un “controvertice” nei giorni 16-22 luglio,
allestendo campi di accoglienza nei quali si svolgerà il Public Forum nelle cui sessioni saranno
affrontate, come temi di dibattito, le conseguenze indesiderate della globalizzazione economica. Il
vasto popolo dei contestatori può essere suddiviso in tre grandi gruppi: quello pacifista, quello dei
3
disobbedienti, infine quello dei violenti. L’ultimo gruppo è quello che si riconduce alla falange dei
Black Bloc che, in occasione del vertice nel capoluogo ligure, divelgono e distruggono tutti i
simboli del neocapitalismo: sportelli bancomat, negozi, puntivendita di grandi multinazionali. La
4
loro strategia di distruzione porterà a stimare danni per 50 miliardi di Lire.
3
Il primo include associazioni, cooperative sociali, organizzazioni laiche e cattoliche (Rete Lilliput, Arci, Acli,
Legambiente, Attac, Mani Tese). Le loro iniziative sono rappresentate dal consumo critico, il boicottaggio alle
manifestazioni in piazza, la finanza etica , il commercio equo e solidale e il digiuno. Il concetto di disobbedienza attuata
da questo movimento (nonviolenza gandhiana) predilige forme di protesta da ricondursi alla non collaborazione e alla
disobbedienza civile piuttosto che a forme di emulazione dello scontro sociale. L’ala degli “attivisti disobbedienti”
ricorre invece ad un notevole uso del simbolismo e della metafora del conflitto; sfila lungo le strade di Genova con
imbottiture, scudi di plastica, caschi per conquistare simbolicamente la zona rossa.
4
la Repubblica, 22 Luglio 2001, p. 5
6
Il vertice dei G8 si conclude con un bilancio per tanti aspetti negativo: insufficienti
investimenti per la tutela dell’ambiente e per la lotta alle grandi malattie, nessun impegno assunto
5
per la cancellazione del debito dei paesi poveri e per la Tobin Tax.
Ampiamente nota è la cronaca dei tre giorni del G8. Il 19 luglio si svolge senza incidenti il
corteo dei migranti. Il 20 e 21 luglio sono giornate caratterizzate da incidenti. La mattina del 20
luglio in piazza Paolo Da Novi i black bloc smantellano la piazza. Gli interventi delle forze
dell’ordine sono tardivi e non impediscono ulteriori saccheggi e danneggiamenti di vetrine,
autosaloni e banche da parte di costoro. Nella stessa mattinata viene assaltato il carcere di Marassi.
Nel pomeriggio le forze di polizia caricano il corteo pacifico delle Tute Bianche. In piazza
Alimonda, durante l’assalto ad una camionetta dei carabinieri, Carlo Giuliani viene ucciso da un
proiettile esploso da un carabiniere. Un gruppo di black bloc tenta di assalire l’ufficio stampa del
Genoa Social Forum istituito presso la scuola Diaz. Il gruppo viene indotto alla ritirata dalla
presenza nei pressi di carabinieri e finanzieri che non intervengono però direttamente. Il 21 luglio si
ripropone lo scenario di violenze: scontri, cariche sul corteo e lanci di lacrimogeni soprattutto nel
lungomare, nella zona della Foce, di piazzale Kennedy. Nella notte tra il 21 e 22 luglio le forze
dell’ordine perquisiscono le scuole Diaz e Pertini. L’operazione viene giustificata dalla presunta
presenza di black bloc all’interno dei suddetti dormitori. L’operazione si conclude con ingenti
danni, arresti e ferimenti sia tra i manifestanti che tra le forze di polizia.
Si crea uno scenario in cui appare evidente la conflittualità sociale specie dopo gli scontri di
piazza tra manifestanti e forze di polizia, i tafferugli a seguito del respingimento alla frontiera di
Ancona di 150 “migranti” il 18 luglio, l’uccisione di Carlo Giuliani, le perquisizioni al Media
Center nelle scuole Pertini e Diaz. Il topic delle notizie si sposta dai temi sociali ed economici
dell’antiglobalizzazione alla lotta tra manifestanti e forze dell’ordine. Questo slittamento tematico è
6
riscontrabile in tutte le testate. Giornali stranieri di fama internazionale sollevano dubbi sulla
correttezza della gestione dell’ordine pubblico. Il Frankfurter Allgemeine Zeitung, giornale tedesco
7
notoriamente conservatore, esce il 27 luglio con il titolo: “Violenza di Stato”. Il Manifesto esce il
26 luglio con “Genova, il Cile anni ‘70”. Fa eccezione Libero, quotidiano diretto da Vittorio Feltri,
che il 17 agosto titolerà: “Botte ai Giottini: è tutto falso”. Lo stesso quotidiano aprirà una
sottoscrizione di fondi a favore delle forze dell’ordine che riceverà molte adesioni.
Il 3 agosto viene istituito un Comitato paritetico per l’indagine conoscitiva sui fatti accaduti in
occasione del vertice G8 a Genova. I lavori della Commissione iniziano il 7 agosto e terminano il
20 settembre. Sulla base delle relazioni della Commissione vengono presi alcuni provvedimenti.
Vengono sospesi dal loro incarico: il questore di Genova Francesco Colucci, il Vicedirettore
generale della Pubblica Sicurezza Ansoino Andreassi, il Direttore generale della Polizia di
Prevenzione Arnaldo La Barbera (gli ultimi due reintegrati il 21 novembre 2001). La Procura di
Genova indagherà sull’omicidio Giuliani, sulle violenze sugli arrestati nella caserma di Bolzaneto,
sulle devastazioni e saccheggi di piazza. Nel frattempo ogni linea editoriale propone il suo punto di
vista sugli eventi di Genova cercando quanto più materiale sui pestaggi in piazza e sul blitz notturno
alle scuole Diaz e Pertini.
In quei giorni il sistema dei media ufficiali filtra, racconta, interpreta gli eventi rispondendo a
criteri di notiziabilità e ideologie diverse. In questo modo i mass media danno forma allo scontro
politico e delineano le coordinate culturali dell’evento genovese. Le scelte editoriali di ogni testata
sono inoltre vincolate dalle fonti primarie di notizie: le agenzie stampa. Queste ultime raccolgono e
distribuiscono i loro materiali condizionando le redazioni nazionali. A questi tipi di routines
produttive il popolo di Seattle ha reagito costruendo proprie fonti di notizia, elaborando così un vero
programma di media attivismo (Radio Gap, Indymedia…). Alla luce di queste riflessioni
sociologiche si spiegano meglio le accuse rivolte ai giornali in tre fasi successive: dal neoquestore
di Genova Fioriolli, dai medici dell’ospedale di S. Martino, dai sindacati di polizia. L’accusa più
pesante è venuta dal neoquestore che ha inviato un’informativa alla Procura, contenente alcuni
5
Sistema di tassazione dei movimenti finanziari internazionali. Il gruppo Attac si fa promotore dell’applicazione della
suddetta tassa (che in Italia è stata bocciata dal Parlamento il 12 luglio 2001).
6
Rea S., Genova per loro: il G8, il movimento no-global e la stampa italiana, tesi di laurea, Università degli Studi di
Siena, 2002, p. 144
7
Ferraris M., I silenzi della zona rossa. G8 e dintorni, Genova, Frateli Frilli Editori, 2001, p. 232
7
articoli di giornale, per dimostrare che la stampa era stata usata come mezzo volto alla costruzione
di un’immagine negativa delle forze dell’ordine, contribuendo alla loro delegittimazione. Sulla
base a queste accuse si è aperta in procura un’inchiesta sulla pubblicazione di notizie false e
tendenziose. Il questore ha successivamente ridimensionato le accuse, dopo le dure reazioni
dell’Aldg e dell’Ordine dei giornalisti, cercando di chiarire che il suo intento era quello di
8
denunciare alcuni partecipanti al G8 per le false affermazioni rilasciate ai giornali.
I fatti di cronaca nera nelle trattazioni giornalistiche del vertice di Genova fanno sì che il topic
della notizia passi dal resoconto degli episodi ad un’interpretazione sociologica e politica, a seconda
9
della filosofia della testata di riferimento, per poi sfociare in una chiave di lettura “popolare”.
L’importanza e la complessità delle issues politiche e sociali enfatizzate dai movimenti ed emerse dalle
giornate di Genova sono state assorbite dalla rilevanza mediatica dell’evento. I gesti simbolici dei
10
movimenti sono stati indirettamente criminalizzati dal lettore.
I gesti di simulazione del conflitto e della violazione simbolica adottati dal popolo di Seattle hanno
permesso di ottenere maggiore visibilità mediatica. Tuttavia la spettacolarizzazione così ottenuta ha
rischiato di criminalizzare il movimento contestatore. La modalità distruttiva di una falange
estremista dei black bloc ha finito per essere identificata come la modalità tipica di tutto il
movimento e tutte le azioni pacifiche di protesta di quest’ultimo sono state reinterpretate in maniera
accusatoria.
Quotidianamente il lettore è indirizzato lungo un “percorso visivo” nell’interpretazione delle
notizie. La rilevanza di una issue è costruita nella redazione attraverso lo spazio assegnato alla
notizia e al suo materiale di corredo, la collocazione in pagina, i caratteri tipografici utilizzati,
11
l’equilibrio tra spazi neri e bianchi. Nei quotidiani di tendenza le tecniche di manipolazione del
linguaggio sono più palesi: titolazione urlata, aggettivazione dalle tinte forti, accostamenti di foto,
grafica alle parole. Il Giornale ha rovesciato i tradizionali ruoli dei personaggi in scena: i poliziotti
12
sono stati definiti come “angeli custodi”, gli agenti del settimo cavalleggeri sono stati aggettivati
13
come “i nostri” per dare rilievo alla condivisione di atteggiamento tra la testata e le forze
dell’ordine. Il Manifesto ha condannato l’operato delle forze di polizia e usato toni accesi:
“cariche”, “mattanza”, “pestaggi”, “sparizione”, con una punteggiatura forte, enunciati brevi ma
incisivi, titoli spesso senza sottotitoli od occhielli. Ha usato le foto per il loro effetto di verità, per
conferire alla testata più autorevolezza testimoniando la presenza in tempo reale sul luogo della
scena come effetto prova. Alcuni quotidiani (Il Messaggero, La Stampa) hanno scelto di cerchiare,
nella fotografia dell’uccisione di Carlo Giuliani dell’agenzia stampa Reuters, la pistola del
carabiniere nell’atto di sparare, cercando in questo modo di indirizzare il lettore e influenzarlo
emotivamente. La Repubblica ha adottato toni più miti nel descrivere Giuliani, scagionandolo dalla
“demonizzazione mediatica” pur tenendo presente i suoi precedenti penali. Lo stesso quotidiano di
sinistra nel mese successivo ha raccolto le proteste dei sindacati di Polizia (“Esplode l’ira dei
14
poliziotti: non siamo vittime sacrificali. Siulp: ci criminalizzano”). Ha riportato i risultati di
un’indagine condotta dall’Istituto Cirm il 20 agosto su un campione di 913 persone alle quali si
chiede se abbiano ancora fiducia nelle divise dopo i fatti di Genova (67% fiduciosi, 19% non
fiduciosi). Ha pubblicato statistiche sulla composizione del personale della Polizia, la provenienza,
l’organico in pensione o espulso, il tempo medio di permanenza nell’amministrazione, il titolo di
studio posseduto. Il 28 luglio le pagine de la Repubblica ospitano un’intervista al vicequestore di
Genova Giovanni Aliquò il quale difende, senza esitazioni, l’operato delle forze dell’ordine:
“Respiriamo violenza, ti può infettare (…) e poi lo sa che le dico? Meglio un processo che un
funerale”.
8
AA. VV., Genova Il libro bianco, Milano, Nuova Iniziativa Editoriale, 2002, p. 184
9
Rea S., Genova per loro: il G8, il movimento no-global e la stampa italiana, cit., p. 96
10
Ibid., p. 149
11
Ibid., p. 97
12
Il Giornale, 20 luglio 2001, p. 6
13
Il Giornale, 21 luglio 2001, p. 6
14
La Repubblica, 20 agosto 2001
8
Polizia: etnografia di una professione in cambiamento
Un poliziotto deve essere un sacerdote,
un assistente sociale, un diplomatico, uno psicologo,
un simpatico ragazzo, un gentiluomo, e deve anche essere un genio
per riuscire a mantenere la famiglia
con lo stipendio di un poliziotto.
15
Il quotidiano la Repubblica, nell’analizzare la composizione, l’estrazione sociale, il grado di
istruzione dei poliziotti, difende una tesi: la crescente legittimazione della violenza delle forze
dell’ordine da parte dei gruppi politici di destra al potere. Esprime così la preoccupazione per attori
sociali sempre più orientati verso una “tolleranza zero”, una categoria professionale che riveste un
ruolo importante nella società perché si definisce non solo come principale istituzione legittimata
16
all’uso della forza coercitiva ma soprattutto come professionalità che produce sapere sulla società.
I timori sono quelli condivisi anche dal quadro dirigenziale della Polizia che ha visto disattese
molte aspettative legate allo spirito della riforma del 1981. La legge 121/1981 segna un radicale
mutamento all’interno delle forze di Polizia. I parametri essenziali della legge 121/1981 sono i
seguenti: smilitarizzazione; affidamento al Ministro dell’Interno della direzione della politica
dell’ordine pubblico; richiamo al Parlamento quale organo di verifica non solo dell’azione del
ministro ma anche dell’attività in concreto espletata dall’Amministrazione e dalle forze di Polizia;
riconoscimento di significative libertà sindacali; pari opportunità di carriera tra uomini e donne;
riconoscimento dello statuto di istituzione laica. Il nuovo assetto viene così delineato dal testo
legislativo: la Polizia di Stato si pone “al servizio delle istituzioni democratiche e dei cittadini,
17
sollecitandone la collaborazione” (art. 24 legge 1° aprile 1981, n. 121).
Alla vigilia della riforma, le funzioni di polizia venivano svolte dal Corpo delle Guardie di
Pubblica Sicurezza con status militare, soggetto alla giurisdizione penale militare, con dipendenza
dal Ministero dell’Interno. Di fatto il Corpo delle Guardie di P.S. venne sempre più assumendo il
ruolo di organizzazione deputata al mantenimento dell’ordine pubblico direttamente e
completamente dipendente dall’autorità politica. La sua organizzazione si ispirava a criteri militari,
disciplina ferrea e duri compromessi: numero di ore di lavoro settimanali non stabilito, nessuna
garanzia relativa al preavviso di licenziamento, ore di prestazioni straordinarie e ore di turni di
lavoro festivi e notturni non retribuiti, impossibilità di carriera.
Dopo il 1981, gli slogan più popolari lanciati da Gianni Vicari, allora capo della Polizia,
furono: “polizia al servizio del cittadino”, “polizia tra la gente”.
Nel decennio di riforma avviene il salto di qualità. Nella cultura di trasparenza che diventa coessenziale
con la ragion d’essere dell’istituzione. I sindacati che hanno animato la battaglia riformatrice spingono
perché l’attuazione della “121” faccia sentire a tutta la società civile che “i poliziotti devono veramente
vivere da persone che appartengono a uno stato di diritto” e che il loro dover esser si esprime “nella
18
mano tesa verso la gente”.
Nel 1987 Vincenzo Parisi, a cui Oscar Luigi Scalfaro aveva affidato la direzione della
Pubblica Sicurezza, presentò l’immagine del poliziotto come “pacificatore” che era il nome con cui
veniva chiamato nelle repubbliche di Venezia e Genova. Sottolineando i valori laici, egli condannò
15
la Repubblica, 28 luglio 2001
16
Palidda S., Polizia postmoderna. Etnografia del nuovo controllo sociale, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 30
17
A questo indirizzo si ispira anche la carta europea della polizia dei paesi facenti parte del Consiglio d’Europa. Nel
preambolo si afferma che la polizia è al servizio della legge e della società, non a quello dei governi; la polizia non è un
potere ma un servizio pubblico che garantisce e protegge il libero esercizio dei diritti dei cittadini.
18
Paloscia A., Polizia oltre la riforma, Roma, Editalia, 1992, p. 20
9
il patriottismo fanatico che suonava come rottura di ogni indugio a prendere le distanze dalla
tradizione del militarismo.
Nella costruzione dell’edificio di riforma si consolidarono anche mutamenti nella gestione
dell’ordine pubblico. Diventò norma la pianificazione degli interventi in occasione di
manifestazioni di protesta. Ogni situazione venne esaminata secondo l’importanza, a livello di
coordinamento provinciale e nazionale nell’ambito dei comitati per l’ordine e la sicurezza pubblica.
La svolta strategica si ebbe nel corso degli anni ’60 con l’adozione di una strategia che, nei casi di
azione aggressiva verso i reparti in servizio di ordine pubblico, privilegiava la risposta di
contenimento su quella offensiva grazie all’impiego di scudi, caschi protettivi, guantoni. “Non sarà
mai abbastanza raccomandato il senso della misura nell’impiego della forza” dicevano le istruzioni
diramate nel ’68 dalla Direzione Generale della Pubblica Sicurezza. E si invitava a curare al
massimo la preparazione psicologica del personale che doveva essere messo in grado di resistere
alle provocazioni.
La consapevolezza delle insufficienze e dei ritardi degli apparati della sicurezza diventa negli
anni ’80 una trasparente pagina di storia che dà credito al movimento riformatore. Contribuiscono a
scrivere questa pagina le audizione dell’allora Capo della Polizia Vincenzo Parisi davanti alla
Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle stragi. Dalla sua analisi si ricava distintamente l’idea
della precarietà in cui si trovavano le forze di polizia e i servizi della sicurezza durante gli anni di
piombo. Nella seduta del 14 gennaio 1988 il Capo della Polizia fu sollecitato a spiegare i vuoti
nell’azione dello Stato. La risposta fu data con una distaccata rievocazione storica: fino alle
contestazione del ’68 la storia della polizia era rivolta al passato. La nuova linea sarebbe stata quella
dello stretto garantismo della legalità, della professionalità.
Lo Stato arrivava in ritardo non per dolo ma perché operava nell’immobilismo. Quando ho cominciato la
carriera, la cosa più importante era schedare i comunisti perché il pericolo era visto solo in quella
direzione. La politica dell’ordine pubblico era una politica di forza pubblica. Una bella carica era una
19
giornata di gloria.
Lo spirito del cambiamento non modificò solo le direttive in materia di ordine pubblico. Ha
incoraggiato anche una volontà di ricambio generazionale che negli anni ’80 ha interessato il 40%
del personale. Si avvia così un processo di ringiovanimento (età media per gli uomini: 36; per le
donne 26, agli inizi degli anni ‘90), carico di idealità e fortemente sindacalizzato tanto che si arriva
20
ad avere una forza di 96.000 unità di cui il 75% iscritto ai sindacati. Sono lontani i tempi delle
contestazioni sessantottine da cui ha tratto ispirazione poetica Pier Paolo Pasolini dopo gli scontri
tra universitari e forze dell’ordine a Valle Giulia il primo marzo 1968 presso la facoltà di
architettura.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
(…) E poi, guardateli come si vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida che puzza di rancio,
fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente
è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo, separati,
esclusi (in una esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
21
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
19
Parisi V. cit. in Paloscia A., Polizia oltre la riforma, cit., p. 77
20
Ibid., p. 83
21
Pasolini P.P., “Il Pci ai giovani”, Nuovi argomenti, aprile-giugno 1968
10
I versi pasoliniani sembrano oggi inadatti a descrivere il livello di istruzione degli operatori
della pubblica sicurezza: ragazzi giovani con una cultura paragonabile ai lettori de Espresso o di
Panorama, con un livello culturale superiore alla media italiana. Cambia il profilo ideale del
poliziotto: da servitore dello Stato nei tempi scelbani a uomo dedito al servizio della società civile
in tempi di riforma. Nel 1988 il Capo della Polizia ha affidato a uno staff coordinato dal prefetto
Del Mese (direttore degli istituti di istruzione) il compito di avviare, valendosi delle strutture
universitarie, una ricognizione del profilo generale del personale della Polizia, per individuare
metodologie più atte per il processo globale di formazione. Il professor Umberto Margiotta
dell’Università di Venezia, dopo aver intervistato 2800 operatori, così si esprime:
Il nuovo, insomma, va sovrapponendosi al vecchio (…), non si integra con esso (…). Il comportamento
del nostro campione risulta ipercontrollato e al tempo stesso animato da indici di conflittualità maggiori
di quelli che la semplice osservazione consenta di cogliere. Il rapporto con l’istituzione viene gestito a
partire dalla convinzione che l’istituzione nutre scarsa fiducia nei loro confronti. Permane radicata e
diffusa, al fondo, un’immagine precisa dell’istituzione: quella di una macchina organizzativa che finisce
22
per consumare le persone, quando non giunga a stritolarle nella loro vita personale (…).
Un’amministrazione dello Stato ha scelto quindi di ripensare le sue strategie formative
chiedendo contributi a un pool di prestigiosi istituti di cultura: Università di Venezia, Università
Bocconi di Milano, Politecnico di Torino, esperti di metodologie dell’apprendimento come Elea-
Olivetti, ISVOR-FIAT, IF, IBM-Italia, Istituto Treccani. Dal 1981 al 1991 i corsi di formazione
sono incrementati del 100% e quelli di specializzazione del 96%. Un forte impulso è stato dato alla
formazione linguistica in vista dell’unificazione europea: nel 1993 il 10% del personale era in grado
23
di parlare correntemente almeno la lingua inglese. I risultati di un’altra ricerca effettuata nel 1988
sull’estrazione sociale mettono in evidenza come quasi il 50% dell’organico abbia origini
meridionali; come i poliziotti non provengano esclusivamente da una condizione socio-economica
bassa (operai, affittuari agricoli) ma dalle categorie impiegatizie e quelle professionali. Il
miglioramento del titolo di studio è in linea con quanto accade per tutta la popolazione italiana ma
può allinearsi allo spirito della riforma che attribuisce nuova importanza alla formazione culturale e
a quella professionale attraverso la quale l’operatore partecipa più adeguatamente ai valori sociali
per cui egli opera.
Meno accurato è l’aggiornamento professionale costante dei poliziotti. Le gravi emergenze
degli anni ’80 e ’90 (terrorismo e mafia) e la pressione dell’ordine pubblico porta gli operatori a
presidiare le piazze calde pagando in termini di basso profilo culturale e di aggiornamento. Negli
anni ’70, di fronte alla minaccia del terrorismo, la risposta è stata debole non perché gli spiegamenti
di forze di polizia fossero insufficienti ma perché il rendimento era pesantemente condizionato
dall’insufficiente conoscenza del fenomeno e incapacità di analizzare e prevedere il comportamento
24
del partito armato. In generale la preparazione dei poliziotti riguarda per lo più gli aspetti tecnici
della professione, mentre la maggior parte dei saperi relazionali sono lasciati al buon senso dei
singoli individui. Manca un momento di riflessione per far diventare patrimonio collettivo le
competenze e le abilità spese con lodevole professionalità dai singoli attraverso una formazione
adeguata che stimoli la crescita delle competenze trasversali. Questo disagio professionale è sentito
profondamente dagli stessi operatori che così si esprimono:
Tutto quello che noi sappiamo, lo abbiamo imparato in strada, sulla nostra pelle, e non è così che
dovrebbero andare le cose. Credo sia fondamentale avere le spalle coperte da una buona formazione di
base, per non arrivare impreparati di fronte alle situazioni che questo lavoro ti porta ad affrontare
25
quotidianamente.
26
Noi non possiamo curare l’aspetto umano, non abbiamo tempo, dobbiamo solo fare il nostro lavoro.
22
Margiotta U. cit. in Paloscia A., Polizia oltre la riforma, cit., p. 84
23
Ricerca che ha visto coinvolte le questure di Bologna, Modena, Forlì e la scuola di polizia di Cesena
24
Paloscia A., Polizia oltre la riforma, cit.
25
Ziglio C. (a cura di), Etnografia delle professioni. Il caso della Polizia di Stato, Roma, Armando Editore, 2000, p.
108
26
Ibid., p. 107
11
Solo in tempi più vicini si sono allargate le esperienze formative degli operatori: dalla
criminalità a problematiche di alto profilo sociale (es. violenza sulle donne e sui bambini, assistenza
27
agli anziani). Ciò nonostante, è radicata l’incapacità di costruire per gli operatori della sicurezza
28
un orizzonte culturale più solido e avanzato. La formazione degli agenti è improntata alla
conformità dei comportamenti, alla gerarchia, all’obbedienza, a scarso senso critico. Manca un
29
diritto premiale, esiste solo quello sanzionatorio. Le commissioni disciplinari sono legate a una
cultura moralizzatrice di basso profilo: puniscono solo alcuni comportamenti legati al servizio ma
non monitorano i sentimenti aggressivi e i comportamenti intolleranti e xenofobi degli agenti. Lo
sforzo formativo rivolto al personale della Polizia, secondo il professore Carlo Ziglio, è ancora
insufficiente e tanto più utile in una professione che si avvia ad essere sempre meno repressiva e
tanto più preventiva sul piano teorico, mentre nelle piazze diventa sempre più autoritaria. Per la
preparazione al summit di Genova l’addestramento ad hoc di istruttori americani a Ponte Galiera a
Roma è risultato inadeguato. Un agente del reparto mobile di Bologna descrive così l’esperienza
poco formativa di addestramento a Roma:
Il corso è nato sull’onda dell’emergenza del G8, mi è sembrato improvvisato. (…) ci insegnavano solo a
reprimere e non a prevenire, il movimento no global ci veniva presentato come il nemico, non c’è stata
nessuna formazione sulle componenti del movimento, nessuna distinzione tra gruppi di violenti e
pacifici. Ci siamo preparati ai grandi lanci di molotov, a camminare tra le fiamme, a scendere dai mezzi
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in corsa.
Un episodio può illuminare sulla scarsa preparazione tecnica degli operatori in strada. Un
network statunitense ha ripreso, il 20 luglio in Piazza Alimonda a Genova, un gruppo di agenti a cui
venivano impartite istruzioni sull’uso della maschera antigas che ognuno di loro aveva in dotazione
personale: alcuni agenti le stavano infilando al contrario. Il servizio è poi andato in onda col titolo:
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last minute training. Uno studio etnografico sulla Questura di Bologna ribadisce come occorra
realizzare un’osmosi tra attività operativa e formazione, trasformando l’intuizione della pratica in
competenza professionale. Emerge, dallo studio condotto dal professor Ziglio, una figura di
poliziotto che dovrebbe saper gestire l’incertezza e la sfera emotiva e dovrebbe pertanto saper
valorizzare le sue competenze comunicative e calibrarle in base all’utenza (minori violentati,
senzatetto, ubriachi, malviventi, immigrati…). Dovrebbe poter rivestire le qualità di mediatore
culturale e educatore istituzionale verso i cittadini extracomunitari ai quali è richiesta
un’alfabetizzazione culturale alla legislazione e alla burocrazia del paese che li accoglie. Tutto
questo fa dire a un dirigente della Polizia Scientifica: “Non sono un buon poliziotto, ma mi ritengo
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un buon conoscitore di uomini”.
Il livello di disaffezione al lavoro o il senso di impotenza professionale risulta alto tra gli
operatori di polizia. Questo è un dato che Ziglio ha saputo rivelare: molti agenti di polizia si
paragonano a netturbini. Le loro mansioni vengono descritte metaforicamente come un ripulire le
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strade dalla sporcizia. Le conseguenze negative nell’esercizio di una professione poco “nobile”
viene così descritta:
Questo lavoro ti cambia. Ti rende la vita difficile. Dopo un po’ che stai in mezzo alla strada, accanto alla
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sporcizia e a chi fa di essa un modo di vivere, ti irrigidisci.
27
Paloscia A., Polizia oltre la riforma, cit.
28
Zinola M., (a cura di), Ripensare la polizia, Genova, Fratelli Frilli Editori, 2003, p. 11
29
Intervista ad Alessandro Pilotto, poliziotto, “Dietro uno scudo e sotto l’elmetto: nessuno sa chi siamo” in Zinola M. (a
cura di), Ripensare la polizia, cit., pp. 123-136
30
Gubitosa C., Genova. Nome per nome, Piacenza, Editrice Berti, 2003, p. 71
31
Ferraris M., I silenzi della zona rossa, cit., p. 113
32
Ziglio C. (a cura di), Ripensare la polizia, cit., p. 98
33
Ziglio C. (a cura di), Etnografia delle professioni. Il caso della Polizia di Stato, cit., p. 108
34
Ziglio C. (a cura di), ibid.
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Tra le cause di insoddisfazione del lavoro tra i più giovani vi è, al primo posto, la pericolosità.
La percentuale più bassa si registra tra coloro già in servizio negli uffici operativi delle questure, a
conferma dell’esistenza di una distanza tra timore del crimine e rischio effettivamente corso dagli
operatori che non sono sempre costretti a un confronto diretto e quotidiano col crimine. Tra gli altri
aspetti negativi: problemi familiari, di abbandono del paese d’origine, di svolgimento di un lavoro
che condiziona la vita privata. Il maggior timore che esiste tra gli allievi agenti è di svolgere un
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lavoro che può renderli invisi al pubblico.
Il disagio professionale può verosimilmente creare dei cattivi “Pigmalioni” che antepongono lo
spirito di corpo o di corporazione alla denuncia di carenze e sospensioni di procedure democratiche
da parte di colleghi colpevoli di pestaggi e cariche brutali. Dopo quindici anni di “emergenze” in cui
sembrava inopportuno porsi la domanda, le violenze di Genova interrogano l’Italia su cosa sia la
polizia italiana, sui risultati concreti e sul grado di attuazione del processo di svecchiamento delle
strutture poliziesche postriforma. Non è un caso che un libro, edito a due anni di distanza dai fatti di
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Genova, si intitoli Ripensare la Polizia. Ci si sente autorizzati a domandarsi se i metodi repressivi
polizieschi adottati a Genova siano l’eccezione o una nuova linea di tendenza. Le risposte non sono
rassicuranti perché, al di là degli orizzonti di rinnovamento aperti dalla legge di riforma del 1981,
permangono delle questioni irrisolte. Le aspettative sono spesso frustrate da uno sviluppo delle
carriere fortemente burocratico e scarsamente meritocratico. Resistenze di strutture interne, che
temono di perdere il potere, osteggiano una modalità di accesso ai ruoli trasparente e politicamente
indipendente e creano dissidi e attriti con le altre quattro forze di polizia con le quali manca la
cooperazione, a rischio di gravi sovrapposizioni nei servizi investigativi e di repressione del crimine.
La promozione rimane l’unica via per ottenere un aumento di stipendio. Come dice il professor
Margiotta la questione principale è che la polizia non è riuscita a dotarsi di un sistema efficiente di
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premi e punizioni. Altrettanta consapevolezza di queste mancanze appartiene anche agli
appartenenti alla polizia che dichiarano di essere divenuti difensori di una “legalità arrangiata”:
(…) non vediamo una vera cultura della legalità neanche nel nostro ordinamento interno. Per essere
trasferiti bisogna essere raccomandati. I nostri agenti difendono la legalità ma nella loro istituzione non la
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vedono rispettata religiosamente. Insomma, a partire dalla formazione, ognuno si deve arrangiare.
L’inefficace sistema di punizioni produce nella polizia giustificazioni al ricorso alla violenza
gratuita. L’incentivo al ricorso alla “mano forte” viene anche dall’inefficacia della pena e dalla
lentezza del sistema giudiziario.
Arresti uno e tre giorni dopo quello ti telefona per annunciarti che è libero, che si vendicherà. Allora ti
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chiedi perché proprio tu dovresti essere l’unico fesso a rispettare sempre e comunque la legge.
Nella promozione di comportamenti arbitrari e discriminatori ha inciso una campagna
elettorale del maggio 2001 incentrata sulla “tolleranza zero” e sulla solidarietà alle polizie. La
mutata scena politica, avvenuta con il successo elettorale delle forze moderate e di destra, ha
legittimato il vice questore di Genova (Giovanni Aliquò) a parlare di rivoluzione copernicana.
Fino a ieri imperava il concetto buonista della sinistra, per la quale il poliziotto è candidato a prenderle e
può reagire solo pro-forma. Ora non più. Siamo stufi di beccare sputi e pietre negli stadi e in piazza. La
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polizia deve essere autorizzata a difendersi da quattro imbecilli che cercano a ogni costo lo scontro.
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Questo timore può essere spiegato anche dalla paura degli allievi di perdere, una volta inseriti in una realtà operativa,
l’atmosfera caratterizzata dalla bassa competitività e dallo spirito di reciproco aiuto, tipici di un corso di addestramento
e che riducono le forti differenze interindividuali relative alle capacità risolutive di un compito. Balloni A., Vittime,
crimine, difesa sociale, Bologna, Clueb, 1989, p. 88
36
Zinola M., (a cura di), Ripensare la polizia, cit.
37
Intervista a Margiotta U., la Repubblica, 28 luglio 2001, p. 7
38
Filippo Saltamartini, segretario generale del SAP (Sindacato Autonomo di Polizia), cit. in Gubitosa C., Genova.
Nome per nome, cit., p. 41
39
Dichiarazioni di alcuni funzionari di polizia raccolte ne “La polizia dopo Genova. ‘In guerra come a Sarajevo’ e fra i
reduci cresce la voglia di tolleranza zero”, la Repubblica, 28 luglio 2001, p. 7
40
Intervista a Giovanni Aliquò, la Repubblica, 28 luglio 2001, p. 7
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Il vicequestore è il segretario del sindacato di polizia che accoglie tra i suoi iscritti circa l’80%
dei funzionari sindacalizzati. Pertanto è legittimo chiedersi se l’efferatezza della polizia a Genova sia
una violenza di “nicchia” o, invece, “di gruppo”, “di tendenza”, di una polizia che non sembra aver
accolto i frutti della riforma democratica del 1981 e che ha fatto parlare di Genova come ritorno al
passato e a vecchi schemi di gestione dell’ordine pubblico violenta e autoritaria. Funzionari della
Polizia, dopo i giorni caldi di Genova, hanno dichiarato di essersi trovati di fronte una polizia
diversa. Angela Burlando, ex vicequestore di polizia e ora consigliere comunale a Genova, ammette:
Ci siamo scoperti diversi (…) diversi dalla realtà di confronto e di inserimento con la cosiddetta società
civile, diversi dal non farsi trascinare nella violenza e dal non perdere il controllo delle situazioni, diversi
dalla polizia per la quale abbiamo lavorato per anni e anni e la cui sostanza, per alcuni, sembra essere
rimasta sui calendari delle scuole. (…) ci siamo “visti” e scoperti diversi da come pensavamo di essere,
da quelli che credevamo di essere. È in questo concetto che potremmo riassumere “il giorno dopo” il G8
per le diverse forze di polizia. Ma, soprattutto, per la polizia di stato, smilitarizzata, democratizzata e
sindacalizzata dopo anni di lotte dure, di rischi personali pesanti per tutti quelli che ci hanno creduto e,
purtroppo, negli ultimi anni abbandonata ad una logica di formazione contraria ad alcuni principi
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ispiratori della riforma dell’81.
41
Intervista ad Angela Burlando, “Ci siamo scoperti diversi da quelli che credevamo di essere…”, in Zinola M., (a cura
di), Ripensare la polizia, cit., pp. 73-92
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