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LE ORIGINI DELLA “SCIENZA DELLA NATURA UMANA”
Il tentativo di David Hume di costruire una scienza intorno alla natura umana, nel periodo in cui
venne progettato e attuato (prima metà del XVIII secolo), non era un episodio isolato. Era infatti
piuttosto diffusa, in particolar modo nella Scozia in cui Hume ricevette la sua formazione culturale,
la tendenza ad affrontare e discutere i complessi problemi derivanti dai rapporti fra religione e
morale. Tali problemi venivano affrontati in un’ottica influenzata dal metodo elaborato da Newton
per la scienza della natura, che, con il suo rifiuto delle ipotesi, il suo basarsi sull’esperienza ed il
suo rifiuto di indagare la natura intima della realtà per dedicarsi solo ad una spiegazione del suo
funzionamento, sembrava potesse fornire una base solida e razionale alla filosofia.
Secondo quanto ci riferisce lo stesso filosofo, la sua ricerca nacque dalla personale insoddisfazione
per come fino a quel momento erano state condotte le discussioni filosofiche, oltre che dalla
ambiziosa convinzione di poter dire una parola definitiva che ponesse fine alla confusione e
mettesse ordine nell’infinita serie di opinioni discordanti in cui era sempre stato diviso il sapere.
Scrive Hume nell’introduzione del “Trattato sulla natura umana”:
“Principi accettati ciecamente, conseguenze mal dedotte dai principi, mancanza di coerenza nelle parti e di
evidenza nell’insieme: ecco quel che si incontra dappertutto nei sistemi dei più eminenti filosofi, e che ha
fatto cadere in discredito la stessa filosofia.”
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Hume si propone di riorganizzare il mondo della filosofia partendo dalla natura umana, vale a dire
da quella che secondo lui è la base di ogni sapere e che, se studiata in modo approfondito, potrà
porre fine allo stato di confusione:
“E’ evidente - prosegue - che tutte le scienze hanno una relazione più o meno grande con la natura umana, e
anche quelle che sembrano più indipendenti, in un modo o nell’altro, vi si riallacciano. Perfino la
matematica, la filosofia naturale e la religione naturale dipendono in un certo qual modo dalla scienza
dell’UOMO, poiché rientrano nella conoscenza degli uomini, i quali ne giudicano con le loro forze e facoltà
mentali. E’ impossibile prevedere quali mutamenti e progressi noi potremmo fare in queste scienze se
conoscessimo a fondo la portata e la forza dell’intelletto umano, e se potessimo spiegare la natura delle idee
di cui ci serviamo e delle operazioni che compiamo nei nostri ragionamenti. (...) Accingendoci, quindi, a
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David Hume, Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari 1998, trad di A. Carlini, libro 1, p. 5.
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spiegare i princìpi della natura umana, noi in realtà miriamo ad un sistema di tutte le scienze costruito su di
una base quasi del tutto nuova, e la sola sui cui possano poggiare con sicurezza”.
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Ritroviamo la stessa insoddisfazione per lo stato in cui versava la filosofia e il proposito di
intervenire per cambiare le cose anche nella prima testimonianza che abbiamo del progetto
humeiano riguardante una "scienza della natura umana", una lettera del 1734 scritta da uno Hume
ventitreenne al medico John Arbuthnot per raccontare le vicende che lo avevano portato, nel 1729,
ad un esaurimento nervoso:
"... trovai che vi era in me quasi la stessa inclinazione per le opere di logica e di filosofia che per quelle di
poesia e di autori eleganti. - scrive il filosofo - Chiunque abbia conoscenza dei filosofi e dei critici sa che
finora non vi è nulla di stabilito nell'ambito di queste due scienze e che esse contengono poco più che
interminabili dispute perfino nei loro punti fondamentali."
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Hume scrive poi che proseguendo nello studio di questi "punti fondamentali", sentiva crescere in lui
una ritrosia a sottomettersi a qualsiasi opinione precedentemente stabilita e contemporaneamente il
desiderio di poter trovare "...un qualche nuovo mezzo con cui si potesse stabilire la verità."
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"Dopo molto studio e riflessione al riguardo, quando avevo circa 18 anni, parve che si aprisse di fronte a me
una nuova scena del pensiero la quale mi entusiasmò oltremodo e mi fece, con un ardore naturale in un
giovane, rinunciare ad ogni altro piacere o occupazione per dedicarmi interamente ad essa."
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Quali fossero i contenuti di questa "nuova scena di pensiero" è cosa ancora oggi dibattuta dagli
studiosi. Quel che è certo è che la "nuova scena" doveva riferirsi ad un progetto costruttivo, ad una
iniziale fiducia nelle proprie possibilità di raggiungere un punto fermo che era sempre mancato
nella storia della filosofia, e non poteva quindi consistere in quello scetticismo totale di cui è
ammantata la figura del filosofo in una discutibile e diffusa “interpretazione popolare”.
Questa opinione pare essere confermata, oltre che dalle pagine introduttive del Trattato sopracitate,
dal modo in cui prosegue la lettera al medico scozzese:
"Trovai che la filosofia morale trasmessa a noi dagli antichi soffriva dello stesso inconveniente che era stato
riscontrato nella filosofia naturale, di essere cioè interamente ipotetica e di dipendere più dall'invenzione che
dall'esperienza. Ognuno si affidava alla propria fantasia nell'erigere schemi di virtù o di filosofia, senza
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Id.
3
Lettere, in Hume, Opere filosofiche vol. 4, Laterza, Bari 1987, trad. M. Del Vecchio, p. 248.
4
Id.
5
Id.
4
considerare la natura umana, da cui deve dipendere ogni conclusione morale. Decisi, pertanto, di fare di
quest'ultima l'oggetto principale del mio studio, la fonte da cui avrei derivato qualsiasi verità sia nel campo
della critica che in quello della morale."
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Definire chiaramente quali e quanti furono gli autori che contribuirono alla formazione di Hume
non è un problema di semplice soluzione. E’ facile però immaginare che la ricerca vada condotta
sui suoi contemporanei, specialmente quelli che si occuparono di problemi inerenti la natura umana,
la cui filosofia non soffriva del difetto di essere “interamente ipotetica”, come era invece secondo
Hume quella dei filosofi antichi. Tale ipotesi è confermata dalle pagine introduttive del Trattato, in
cui Hume parla dei “recenti filosofi inglesi” che, portando la scienza dell’uomo sopra un nuovo
terreno, hanno contribuito al suo progresso, dando al paese un onore paragonabile a quello derivato
precedentemente dal progresso nelle scienze naturali.
Una indicazione più chiara ci è fornita dall’ “Estratto del Trattato sulla natura umana”, pubblicato
anonimo nel 1740 per tentare di richiamare l’attenzione del pubblico e della critica sull’opera
principale in seguito al suo clamoroso insuccesso (clamoroso soprattutto se confrontato con le
grandi aspettative che vi riponeva Hume). In quest’opera, la cui paternità è stata a lungo discussa,
ma che pare molto ragionevole attribuire a Hume, si cita apertamente Bacone come il “padre della
fisica sperimentale”. Vengono anche ricordati Locke, Shaftesbury, Mandeville, Hutcheson e Butler
come coloro i quali hanno avuto il merito di eliminare le ipotesi e di basarsi sull’esperienza nelle
loro indagini sulla natura umana. Si parla inoltre molto chiaramente dell’autore del Trattato come
di un filosofo facente parte di questa illustre tradizione a causa della comune intenzione, condivisa
con gli autori sopracitati, di rinunciare ai principi ultimi e di estendere la conoscenza fin dove ce lo
permettono le nostre facoltà.
Il rifiuto delle ipotesi e il primato dell’esperienza ci riportano ad Isaac Newton, dal quale, come
abbiamo già avuto modo di accennare, la filosofia scozzese del tempo era stata fortemente
influenzata. Le sue opere e le sue idee iniziarono a diffondersi molto presto, come è provato dal
fatto che i “Philosophiae naturalis principia mathematica” poco dopo la loro pubblicazione, che
risale al 1687, vennero inseriti nei programmi di insegnamento incontrando qualche resistenza
soltanto presso gli insegnanti più anziani, probabilmente a causa delle difficoltà derivate dalle
complesse spiegazioni matematiche contenute nell’opera.
Ciò che colpì maggiormente i pensatori scozzesi del pensiero di Newton furono soprattutto le sue
idee riguardanti il metodo scientifico. Un contributo decisivo al diffondersi di queste idee, tra le
quali ricordiamo il rifiuto delle ipotesi, la necessità di basarsi sull’esperienza e l’osservazione e il
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Id., p. 252.
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tentativo di raggiungere pochi e semplici principi che potessero spiegare il maggior numero di
fenomeni, venne da autori come Richard Bentley, Samuel Clarke e George Cheyne, le cui opere,
che ebbero un grande successo di pubblico e di critica in Inghilterra fra la fine del 1600 e il primo
quindicennio del 1700, trattando problemi teologici da una prospettiva di orientamento
sperimentale, contribuirono ad aprire la strada all’ampliamento del campo di applicazione del
metodo newtoniano dall’ambito strettamente scientifico/naturalistico a quello teologico/morale.
Fortemente debitori nei confronti delle idee di Newton furono due degli insegnanti di Hume
all’Università di Edimburgo (che frequentò dal 1721 al 1725), James Gregory e Colin Maclaurin.
Quest’ultimo, ritenendo che solo la filosofia naturale (newtoniana) poteva offrire un valido
sostegno alla religione naturale, si riallacciava proprio alle speculazioni di Richard Bentley,
George Cheyne e Samuel Clarke.
L’influenza di Francis Hutcheson sul pensiero humeiano è testimoniata, oltre che da alcune
ammissioni dello stesso Hume, dal fatto che nel 1740, l’autore si rivolse a lui per avere un parere
sulla propria opera prima della pubblicazione della terza parte del Trattato, quella dedicata in modo
specifico a problemi morali.
Hutcheson era uno dei più importanti studiosi di filosofia morale del tempo, le sue opere, come
“Inquiry concerning the original of our ideas of beauty and virtue” del 1725, e il suo insegnamento
presso l’università di Glasgow, ebbero una vasta risonanza, grazie anche al loro andare incontro alle
esigenze di libertà intellettuale che molti fra studenti e docenti cominciavano a sentire limitate dalla
forte influenza del clero presbiteriano locale e dai vecchi metodi di insegnamento.
Una delle sue idee fondamentali (causa di pesanti attacchi da parte del clero) è che la nostra
possibilità di distinguere il bene dal male non dipende dalle Sacre Scritture o da Dio, ma da un
senso o sentimento morale.
Secondo un importante filone interpretativo che fa capo a Norman Kemp Smith, l’influenza più
determinante sulla nascita della “nuova scena del pensiero” sarebbe proprio quella di Hutcheson
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.
Kemp Smith tende a ridurre l’aspirazione humeiana a costruire un sistema della natura umana e a
negare che lo scopo del Trattato sia quello di proporre una filosofia di natura scettica.
Secondo questa fortunata interpretazione lo scopo principale del primo Hume era quello di costruire
un’anatomia dell’intelletto e la “nuova scena del pensiero” deriverebbe in gran parte
dall’ampliamento di alcune idee hutchesoniane.
7
N. K. Smith, The Philosophy of David Hume, Macmillan, London 1941.
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L’intuizione fondamentale di Hume sarebbe stata quella di estendere l’azione del sentimento, che
Hutcheson limitava al campo morale ed estetico, al campo gnoseologico, facendo dipendere da esso
oltre alla possibilità di compiere valutazioni morali, anche il modo in cui strutturiamo gli elementi
della conoscenza, come la credenza nella concatenazione di causa ed effetto e nell’identità
personale.
La dottrina di Hume sarebbe inoltre il risultato del conflitto fra l’influenza hutchesoniana, che si
configura in senso biologico, e l’influenza del metodo elaborato da Newton per le scienze il cui
influsso portava ad un orientamento meccanicistico.
Un’altra influenza fondamentale sul pensiero di Hume è stata certamente quella di John Locke, che
con il “Saggio sull’intelletto umano”, pubblicato nel 1690, era stato l’autore di uno dei più completi
tentativi di dare una descrizione del funzionamento della mente umana.
Numerosi sono i punti di contatto con l’opera di Hume. In primo luogo il proposito di Locke è
quello di descrivere i poteri e le possibilità della mente allo scopo di determinare le questioni nelle
quali è possibile raggiungere un certo grado di certezza, e come Hume, anche se in modo più
moderato, nell’introduzione del suo capolavoro parla dello stato di confusione in cui si trovano le
scienze e la filosofia ed esprime il proposito di tentare di eliminare o almeno limitare questa
confusione, derivata appunto dalla scarsa conoscenza delle possibilità dell’intelletto. Anche per
quanto riguarda l’ambito della ricerca possiamo notare delle forti somiglianze; in entrambi
l’impostazione è di tipo fenomenologico: Hume riprenderà da Locke l’identificazione dell’ambito
della ricerca con ciò che è presente alla mente (percezioni e idee) e con il funzionamento
dell’intelletto, ma sarà più rigoroso nell’eliminare dalla speculazione i corpi materiali e le radici
fisiche dei fenomeni psichici.
Come nota Roberto Gilardi
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la penetrazione delle idee lockiane nella cultura scozzese fu sempre
accompagnata da un velo di ambiguità. Se da un lato, infatti, venivano accettate molte delle
conclusioni relative alla teoria della conoscenza, oltre all’approccio empiristico alla speculazione
filosofica, non poteva essere dimenticata la denuncia di Lord Shaftesbury (1671-1713) contenuta in
un suo saggio del 1709, secondo cui la filosofia di Locke, se spinta fino alle estreme conseguenze,
avrebbe portato ad un pericoloso orientamento di tipo hobbesiano. Secondo Shaftesbury, infatti,
non c’era molta differenza fra chi, seguendo Locke, faceva derivare la virtù da semplici sensazioni
piacevoli e chi, d’accordo con Hobbes, negava la stessa idea di virtù.
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R. Gilardi, Il giovane Hume, Vita e Pensiero, Milano 1990, p. 285 e seguenti.
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Proprio per combattere questo tipo di orientamento, Shaftesbury aveva tentato di distruggerne la
base dando vita ad un orientamento sentimentalistico che avrebbe avuto una vasta risonanza e
avrebbe influenzato molti dei pensatori scozzesi successivi, fra cui Hutcheson e lo stesso Hume.
Secondo Shaftesbury in ogni uomo esiste un sentimento morale innato, una tendenza alla generosità
verso il prossimo che supera le tendenze egoistiche, fra cui soprattutto l’identificazione del bene
morale con il proprio piacere personale.
Queste argomentazioni potrebbero costituire una delle fonti di ispirazione del discorso humeiano a
proposito del principio della simpatia, che il filosofo utilizzerà anche per difendere il suo sistema
dalle accuse, analoghe a quelle che furono rivolte a Locke, di portare avanti un discorso di
orientamento hobbesiano negando ogni vera differenza fra virtù e vizio.
In netta antitesi all’ottimismo morale di Shaftesbury si pose Bernard Mandeville (1670-1733), che
con la sua celebre “Favola delle Api” immagina un alveare la cui organizzazione e la cui vita
degenerano nel momento in cui viene deciso di eliminare il vizio, che, combinato nel modo giusto
con la virtù, viene considerato un elemento che può dare il proprio contributo al benessere della
società.
Probabilmente Hume ammirava Mandeville oltre che per il suo modo “scientifico” di affrontare i
problemi inerenti la natura umana, che lo accumunava con gli altri pensatori citati nell’Estratto,
anche per la spregiudicatezza con cui esponeva le sue idee, idee che, in Inghilterra, suscitarono
grandi discussioni e lo esposero alle accuse di ateismo ed immoralismo (come successivamente
sarebbe accaduto allo stesso Hume).
Trattando dei filosofi che contribuirono alla formazione di Hume, un nome importante è quello di
George Berkeley, le cui idee iniziarono a circolare in Scozia soprattutto attraverso le discussioni e i
dibattiti in cui solevano intrattenersi i Rankenians (nome che deriva dalla taverna nella quale
solitamente si riunivano) un gruppo di studenti e professori che a Edimburgo, intorno al 1716 e fino
alla fine degli anni ‘20, aveva iniziato a riunirsi per discutere di vari problemi filosofici in modo
razionale e libero dando una consistente spinta al progredire della cultura scozzese dell’epoca. I
membri del club, fra i quali si contavano personaggi come il preside della Facoltà delle Arti
edimburghese William Wishart, Charles Mackie, che diventò nel 1719 docente di storia universale
e civile nella stessa università, e il già ricordato Colin Maclaurin, mantennero per qualche anno una
corrispondenza con Berkeley su argomenti derivanti dalle sue idee metafisiche.
Quando Hume parla nel Trattato del “grande filosofo” che ha affermato che le idee astratte non
sono altro che idee particolari congiunte con una parola che da a queste idee la possibilità di
richiamarne altre simili, si riferisce chiaramente a Berkeley, e afferma addirittura che tale scoperta
8
deve essere considerata “(...)una delle maggiori e più importanti che siano state fatte in questi ultimi anni
nella repubblica delle lettere”.
Berkeley potrebbe aver costituito un’influenza per Hume, al pari di Locke, anche per quanto
riguarda l’orientamento fenomenologico. Egli infatti, per arrivare a negare l’esistenza stessa della
materia, partiva dalla constatazione che gli unici oggetti a noi presenti sono le idee, e non la realtà
in sé, formulando il noto principio “esse est percipi”.
Certamente l’orientamento finale della filosofia di Berkeley (la negazione della materia e la
conseguente constatazione che le idee sono prodotte in noi da Dio secondo regole che
corrispondono alle leggi naturali) non poteva essere condiviso da Hume, ma il suo limitare gli
oggetti che ci sono presenti alle idee può essere stato una fonte di ispirazione per il fenomenismo di
Hume, come anche le già ricordate opinioni lockiane.
Una ipotesi molto interessante sugli inizi della filosofia di Hume è quella di Luigi Turco
9
, che
suggerisce di insistere, più che sui tentativi di identificare il contenuto della “nuova scena del
pensiero”, sull’esperienza di vita dello stesso Hume e in particolare sulla lettera del ‘34, tramite la
quale è possibile gettare una nuova luce su tutta la speculazione successiva.
Turco nota alcune somiglianze tra la lettera in questione e lo svolgimento della filosofia humeana.
La lettera mostra l’iniziale fiducia nelle proprie possibilità di costruire un sistema di verità stabili da
contrapporre alle verità parziali dei filosofi del passato e la successiva perdita della speranza,
mentre nella vicenda storica della filosofia humeana notiamo gli iniziali interessi sistematici svolti
in forma di trattato, il crollo della speranza di costruire un sistema e l’approdo a una filosofia più
accessibile.
Una forte somiglianza, secondo Turco, intercorre inoltre tra la lettera del ‘34 e la conclusione del
primo libro del Trattato: in entrambe infatti troviamo un filosofo disperato e insicuro sia delle
proprie facoltà intellettuali che delle possibilità della filosofia in generale, filosofia che in entrambi
i testi, con un uso della retorica molto simile, viene contrapposta alla vita di tutti i giorni, priva
dell’astrattezza che caratterizza le speculazioni intellettuali.
Tali somiglianze dimostrerebbero che il Trattato, e con esso tutta la filosofia di Hume, prevedeva
fin dall’inizio un esito scettico, essendo il filosofo già passato attraverso la traumatica scoperta
relativa all’impossibilità di costruire una vera scienza della natura umana.
Secondo questa interpretazione tutto il Trattato è leggibile sia come una storia, sia come l’ennesimo
esperimento mentale, analogo ad altri esperimenti disseminati da Hume nel corso della sua opera,
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L. Turco, Lo scetticismo morale di David Hume, Clueb, Bologna 1984
9
una storia che ripercorre la vicenda autobiografica di Hume ed un esperimento che mostra come
non sia possibile un sapere sistematico e ‘scientifico’ intorno all’uomo.
Come abbiamo detto, si tratta di un ipotesi molto interessante, che merita approfondimenti, ma
sembra comunque un po' azzardato dire, come fa Turco:
“L’esito scettico del trattato rientra nella pianificazione del ‘31, non meno del contrasto tra filosofia e vita
ordinaria, tra ragionamento metafisico e senso comune.”
Appare forse più semplice e anche più credibile pensare che Hume, dopo l’iniziale crisi di cui parla
nella lettera del ‘34, abbia comunque intrapreso il tentativo di costruire la propria scienza basata
sulla natura umana (come testimoniano il sottotitolo e le prime pagine del trattato).
Successivamente, resosi conto delle contraddizioni in cui era caduta la sua filosofia e di essersi
imbarcato in un’impresa chimerica tentando di inserire in un sistema una materia che per la sua
stessa natura non poteva avere questa destinazione, avrebbe scritto la famosa conclusione del primo
libro del Trattato. In queste pagine avrebbe semplicemente attinto all’esperienza autobiografica
dell’esaurimento e della sfiducia per dare più forza ad un discorso teso da un lato a mettere le mani
avanti per quanto riguarda il successo della propria opera (sul quale Hume, nonostante la speranza
che da questa potesse derivare la possibilità di vivere solo dei frutti del suo ingegno, aveva molti
dubbi) e dall’altro a giustificare la propria intenzione di passare ad un modo di fare filosofia
completamente diverso.
Abbiamo dunque ripercorso in modo molto sintetico alcune delle influenze strettamente filosofiche
che hanno contribuito a formare la “nuova scena del pensiero”, e dunque l’inizio della filosofia di
Hume. E’ emersa la figura di un filosofo figlio del clima intellettuale del suo tempo, un filosofo che
non poteva non essere toccato dal nuovo modo “scientifico” di affrontare i problemi morali e
filosofici. Ci pare dunque evidente che l’originalità di Hume non vada cercata negli inizi. Come già
abbiamo detto, il tentativo di dare vita ad una “scienza della natura umana” che introducesse in
ambito filosofico il rigore e la precisione raggiunti dalla scienza della natura non era una novità
assoluta, ognuno dei filosofi citati aveva tentato di stabilire una sua scienza che trattasse i problemi
della natura umana, ognuno aveva proposto le sue soluzioni a tali problemi.
Riteniamo che l’originalità della scienza della natura umana di Hume vada quindi cercata negli
sviluppi successivi della sua filosofia, quegli stessi sviluppi che lo avrebbero costretto non a
rinunciare al progetto scientifico, ma a riformularlo secondo principi che erano emersi nel corso
dell’indagine, nella consapevolezza dell’impossibilità di trattare la scienza della natura e la scienza
dell’uomo con gli stessi criteri.