UNA PAROLA SULLE MOTIVAZIONI DI UN PERCORSO
Il tema del rapporto tra animale umano e animale non umano ormai da anni mi appassiona e, per
questo motivo ancor prima di affacciarmi alla scelta dell’argomento per la mia tesi, ho iniziato ad
informarmi su questo tema controverso.
Provengo da una zona del Veneto ancora molto legata alla vita della natura, dove gli umani devono
condividere molto con i non umani. Sono nata nella zona del Preparco delle Dolomiti bellunesi,
cresciuta tra gli animali che con la mia famiglia ho adottato raccogliendoli abbandonati e in
difficoltà dalla strada, osservando le meravigliose apparizioni degli animali selvatici, senza
dimenticare le loro poco piacevoli incursioni nei nostri giardini. In un certo senso sono stata
introdotta fin da piccola nell’ecosistema, nel suo mutare ad ogni stagione e ad ogni intervento
umano, e devo ammettere che questo ha nettamente influenzato il mio essere nel mondo.
Studiare sociologia ha poi espanso i miei orizzonti, la mia curiosità e la capacità di trovare quelle
informazioni che sono indispensabili quando si vuole capire qualcosa in profondità.
Dopo all'incirca due anni di ricerche e letture ho iniziato la composizione di questa tesi. Per il tema
trattato, molte delle mie fonti sono state di origine anglosassone perché come vedremo nel corso
della trattazione sono stati i paesi anglofoni gli ideatori e i promotori di quella sorprendente risorsa
che è la Humane Education.
In favore dello sviluppo di un mondo dove violenze e crudeltà vengano progressivamente ridotte, e
con l'auspicio che anche in Italia un giorno, sia possibile istituire programmi di Humane Education,
educando i bambini al rispetto e alla compassione verso l'animale, ho scelto di fare della mia tesi di
laurea un veicolo di informazione e diffusione dei principi e dei valori umanitari.
INTRODUZIONE
«[...] certo, l’abbiamo capito, le persone che picchiano i propri figli picchiano anche i propri cani, le
persone che picchiano i propri cani picchiano anche i propri figli, è tutto collegato[...]»2.
Questa semplice dichiarazione fornita dal capo della polizia di Dallas ci dovrebbe far riflettere sul
rapporto che l'uomo ha intrapreso con le altre specie, questa relazione umano-non umano è sempre
stata altamente contraddittoria e carica di significati. Da un lato l'essere umano è affascinato
dall'eterospecifico al punto che non solo siamo estremamente sensibili verso lo zoomorfismo, ma
tendiamo a vedere animali anche dove non ci sono, dando forma animale all'incognito. Lo
dimostrano i personaggi delle fiabe, gli eroi dei fumetti, le figure mitologiche, i giocattoli per
bambini, gli spiriti guida, perfino le divinità. Appare chiaramente come senza l'alterità animale
l'uomo si troverebbe privo di modelli di riferimento. Eloquente è il ricorso all'alterità animale come
spunto per l'estetica, la moda e anche la tecnologia, che sempre più spesso ricalca nei suoi progetti
la biostruttura e il relativo funzionamento di varie specie animali, non a un caso che le prime
rappresentazioni pittoriche della nostra specie avessero come soggetto l'animale. Dal lato opposto il
rapporto dell'essere umano con l'altro animale è caratterizzato da inaudite crudeltà, rituali di
desensibilizzazione e un'ampia varietà di pratiche violente.
In ogni grande evoluzione della storia, lo spunto di cambiare è stato dato dalla generazione giovane,
la rottura degli schemi precedenti necessita di giovani leve che crescendo facciano divenire normali
cose di cui poco prima la massa avrebbe riso. Secondo John Stuart Mill3 tutti i grandi movimenti
inevitabilmente conoscono tre stadi: il ridicolo, la discussione, l’accoglimento. Se pensiamo ai
movimenti che hanno cambiato la storia troviamo conferma a questa teoria. Infatti, chi prima
dell’abolizione dello schiavismo avrebbe preso sul serio un visionario che sosteneva di un giorno
futuro in cui non ci sarebbero più stati né schiavi né padroni? Oppure, prima che Rose Parks si
sedesse nel posto riservato ai bianchi su un autobus negli USA, chi avrebbe immaginato che un
giorno il colore della pelle non avrebbe più legittimato discriminazioni? E ancora, chi prima della
rivoluzione femminile negli anni della contestazione giovanile avrebbe detto che tra uomo e donna
potesse essere imposta quella strana “regola” delle pari opportunità, pari diritti, pari responsabilità?
Sicuramente qualcuno lo pensava, lo idealizzava, fantasticava ma, poi alla fine il resto della
popolazione scherniva e derideva queste idee “bizzarre” se andava bene, perché poteva anche
andare male e queste stranezze potevano essere oggetto di punizioni ben più severe della derisione.
L'argomento di cui ci accingiamo a trattare è appena entrato nella seconda delle fasi descritte da
John Stuart Mill, almeno per quanto riguarda l'Italia.
Tutto questo deve farci pensare che la nuova sensibilità verso gli animali, verso le loro sofferenze e
le loro necessità, pur non essendo ancora completamente condivisa dalla popolazione Italiana, abbia
buone probabilità di un positivo sviluppo futuro. L'atteggiamento più civile e coerente verso gli
animali è in via di affermazione ma nonostante ciò, spesso viene considerato ridicolo a causa
soprattutto di un retaggio culturale di stampo machista, tipo delle culture mediterranee, nel quale
soffrire per un animale, mostrandosi sensibili non è un segno di virilità e pertanto è tacitamente
sconsigliato se non proibito.
Uno dei problemi che toccano la nostra relazione con le altre creature non umane è la vita
metropolitana che inibisce il rapporto uomo-animale, cosa che non può che tradursi in una perdita
per entrambi questi soggetti. Pensiamo ad esempio a quei bambini ai quali veniva chiesto dove
avrebbero collocato le mammelle ad una mucca disegnata, molti rimanevano pensierosi, ma c’è
2
Ben Click, Capo della Polizia, Dallas, Dipartimento della Polizia del Texas, Crudeltà su animali e violenza
domestica interpersonale, Dossier pubblicato su Orizzonti nr.110- Marzo 2007
3
Mill J.S., On Liberty, 1859; cit. in Manzoni A., In direzione contraria: pensieri, parole e passioni dalla parte degli
animali, Casale Monferrato, (AL), Edizioni Sonda srl., 2009.
stato anche chi addirittura le ha posizionate sul dorso del bovino. Oppure di un bambino durante
una visita con la sua classe ad una fattoria educativa confessò di non aver mai pensato che i polli
avessero le piume, egli credeva fossero per natura glabri come si comperano in negozio. E ancora,
un altro bambino che avendo sempre visto le cosce di pollo al banco del supermercato confezionate
in vaschette da sei non sapeva che un pollo di zampe ne ha solo due.
Il problema salta all’occhio proprio quando parliamo con questi futuri adulti: non sono informati sul
non umano, non sono culturalmente preparati dalla scuola in modo sufficiente, e come si sa, la non
conoscenza è una porta spalancata per l’abuso e la violenza, non conoscere, non capire l’altro rende
molto più ostico l’atto del rispetto e contemporaneamente molto più semplice l'abuso e la
prevaricazione.
Molti dei conflitti tra esseri umani, dei soprusi, e dei genocidi partono dalle convinzioni, errate e
scientificamente infondate, che l’Altro sia irrimediabilmente troppo diverso da noi. Quando non si
conosce, la paura diventa uno dei carburanti più efficienti nell’innescare razzismo, discriminazione,
violenze ed abusi. La violenza è figlia dell'ignoranza.
Non deve poi essere sottovalutato che gran parte delle manifestazioni che utilizzano animali hanno
come pubblico privilegiato i bambini, i quali vengono accompagnati dagli adulti a visitare animali
imprigionati o sottoposti ad abusi, quando non a farsi parte attiva nelle molestie a loro danno.
Risultato inevitabile è un'educazione all'insensibilità, a non riconoscere nell'altro essere vivente,
animale umano o non umano, i segnali di dolore, a ritenere normali le manifestazioni di dominio del
più forte sul più debole: questa è la strada opposta allo sviluppo dell'empatia.
I bambini a seconda dell'età tenderanno a fare una sovrapposizione tra ciò che vedono e l'atmosfera
di festa che respirano, in questo modo l'atmosfera divertente di giorno di festa sarà associato allo
spettacolo della sofferenza dell'animale e i ricordi non saranno in grado di scindere spontaneamente
queste realtà.
La capacità di individuare e riconoscere i sentimenti e le emozioni degli altri, di vedere la realtà da
un punto di vista che non sia esclusivamente il proprio, è invece fondamentale nella vita delle
persone: permette di strutturare il proprio comportamento tenendo conto delle esigenze dell'altro,
con il risultato spesso di inibire comportamenti aggressivi e disfunzionali.
Le crudeltà perpetrate sugli animali comportano la costruzione di atteggiamenti altrettanto violenti
nei confronti degli umani.
Esiste una stridente contraddizione alla base della nostra percezione degli altri animali. Da una
parte essi sono l'espressione della bellezza della natura che afferma sé stessa celebrando la vita,
nella gioia e nella libertà, dall'altra invece rivelano la pochezza dell'uomo che afferma sé stesso
nella sopraffazione dell'altro, in questa logica gli animali dello zoo, gli animali dei circhi e quelli
impiegati nelle sagre sembrano esistere all'unico scopo di soddisfare la fugace e superficiale
curiosità degli esseri umani verso il regno animale. Una curiosità che se soddisfatta attraverso questi
spettacoli non porterà ad una conoscenza corretta del mondo animale ma ad una conoscenza deviata
dall'intervento eccessivamente invasivo dell'uomo. Ci si deve chiedere quindi se è questo quello che
desideriamo che i bambini apprendano dall'universo animale, se vogliamo che siano questi i contatti
con l'animale che condizioneranno il loro sviluppo. È possibile allora che ponendoci questi
interrogativi ci capiti di percepire che sarebbe molto più corretto presentare ai bambini il mondo
animale com'è in realtà, ovvero come dovrebbe essere se il dominatore umano non avesse
sopraffatto.
Nella conoscenza reciproca, nel gioco del riconoscimento dello stato d'animo dell'altro, è allora
possibile stabilire una relazione complessa e profonda in cui ciascuna delle due parti, quella umana
e quella animale, non può che arricchirsi.
Tutta la storia dell'umanità ci ha visto al fianco degli animali: nella nostra società contemporanea,
nell'habitat innaturale delle città, gli animali non possono sopravvivere da soli in modo autonomo,
l'essere umano però ne ha un tale bisogno che siamo andati sempre più circondandoci di quelli
domestici, o che abbiamo addomesticato: dei quali essendo essi totalmente dipendenti da noi,
diventiamo in toto responsabili.
Su questa linea di pensiero, dagli anni 70 in poi sono state effettuate numerose ricerche per studiare
il rapporto tra crudeltà sugli animali e violenza interpersonale. Queste ricerche4, compiute
principalmente negli USA, hanno dimostrato che:
-Più del 70% delle donne abusate tra le pareti domestiche riferisce che i loro maltrattatori hanno
minacciato di ferire o uccidere i loro animali domestici o l'hanno fatto.
-Più del 30% delle donne maltrattate con figli riferisce che i loro figli hanno ferito o ucciso animali
domestici.
-Tra il 25 e il 50% delle donne maltrattate nelle pareti domestiche, ritarda l'abbandono della
situazione di abuso per timore di quello che potrebbe accadere agli animali domestici lasciati soli in
quella situazione. Questo vale soprattutto per le donne senza bambini.
-Il 40% delle donne maltrattate riferisce che sono state costrette a prendere parte ad atti sessuali con
animali come parte del mantenimento dello stato di terrore domestico.
-Circa il 50% degli stupratori ha commesso atti di crudeltà verso gli animali da bambino o da
adolescente.
-Il 30% dei molestatori di bambini ha commesso atti di crudeltà verso animali da bambino o da
adolescente.
-Il 15% degli stupratori stupra anche animali.
-Nel 80% delle case in cui le agenzie di protezione animale statunitensi hanno rilevato abusi o
trascuratezze su animali ci sono state precedenti indagini da parte di agenzie per il benessere
infantile che hanno rilevato abuso fisico e trascuratezza sui bambini.
Negli Stati Uniti questi risultati sono ormai accettati e supportano il lavoro di Forze di Polizia, FBI,
magistrati ed educatori, infatti da molti anni la ricerca psicologica ha dimostrato che la violenza
perpetrata dai bambini e dagli adolescenti nei confronti degli animali è spesso associata a disturbi
psicologici ed in particolare ad atteggiamenti e comportamenti aggressivi nei confronti delle
persone. Inoltre, la crudeltà verso gli animali nei bambini e negli adolescenti può preludere ad
atteggiamenti e comportamenti antisociali di questi soggetti da adulti.
Purtroppo a livello europeo l'indifferenza legislativa e istituzionale attuale verso queste forme di
violenza domestica su animali non aiuta nel fronteggiarle. Questo disinteresse è principalmente
dovuto a:
1. mancanza di riconoscimento sociale dei diritti degli animali;
2. errata credenza che i maltrattamenti su animali siano cosa rara mentre chi si è occupato di
questo problema è riuscito a dimostrare che soltanto il 5% di questi reati finisce sui giornali;
3. i casi di crudeltà sugli animali sono erroneamente considerati come crimini isolati che non
hanno alcuna relazione con altri comportamenti umani come la violenza interpersonale.
Date queste difficoltà la diffusione della Humane Education è di estrema utilità nell'educazione
delle giovani generazioni all'empatia e al rispetto verso gli animali , cosa che si traduce di converso
in rispetto anche verso gli esseri umani. Maggior interesse da parte delle istituzioni educative verso
episodi di violenza o abusi nei confronti degli animali, porterebbe ad una pubblica condanna e
disapprovazione verso questi episodi, tanto da diffondere un nuovo messaggio di pace, gentilezza e
rispetto verso tutte le creature viventi.
Dobbiamo ricordare infine le parole di Arluke, illuminanti a questo proposito:
«Le persone che commettono un singolo atto di violenza sugli animali sono più portate a
commettere altri reati rispetto a coloro che non hanno abusato di animali. Come segnale di un
potenziale comportamento antisociale, che include ma non limitato alla violenza, atti isolati di
crudeltà nei confronti degli animali non devono essere ignorati dai giudici, psichiatri, assistenti
sociali, veterinari, poliziotti e tutti coloro che incappano in abusi sugli animali durante il proprio
4
Ascione F.R., Bambini e animali. Le radici dell'affetto e della crudeltà, Torino, Cosmopolis snc, 2007
lavoro».5
Nei prossimi capitoli affronteremo le diverse sfaccettature del problema della violenza infantile
verso gli animali, portando in rilievo le potenzialità della Humane Education nel far fronte a questi
episodi violenti, e nel coltivare in questo modo una generazione di bambini rispettosi e
compassionevoli verso tutti gli esseri viventi.
5
Arluke A., What animal abuse tells us about humans; cit. in Ascione F.R., Bambini e animali. Le radici
dell'affetto e della crudeltà, Torino, Cosmopolis snc, 2007.
CAPITOLO 1: NOI E L’ALTRO
1.1 L'Altro, diverso o differente?
Sul piano semantico, dei significati, va sottolineato come vi sia uno scarto tra la nozione di
"differenza" e quella di "diversità"6. Quest'ultima deriva da divergere e la sua etimologia latina
indica, nella particella "di", il senso dell'allontanarsi, mentre nella parola "vertere" emerge il senso
dell'inclinarsi verso, volgersi verso. Il significato etimologico rimanda all'espressione "allontanarsi
cambiando direzione". La "differenza" è costituita dalla particella "di" e dalla parola "ferre" che in
latino significa portare, in questo termine ritroviamo il senso dell'allontanarsi ma in questo caso
"portando qualcosa", un arricchimento.
Bateson7 diceva che una informazione è una "differenza che produce una differenza": io posso
avere l'idea della differenza solo perché questa sta nella mia testa e riesco a cogliere così una
differenza di significato. Ciò conferisce all’educazione un ruolo importantissimo: quello di aiutare a
vedere e pensare in termini di differenza per cogliere ed elaborare dei significati che rimandino ad
una relazione tra me e la differenza stessa; tra me e gli altri, per davvero.
Questo è il senso più radicale, sul piano epistemologico, della differenza: l'incontro con essa ci fa
crescere, cambiare, conoscere. Per capire, per organizzare il nostro mondo abbiamo bisogno di
confrontarci con differenze di ogni genere.
Nel corso del testo userò i termini diverso e diversità al posto dei termini differente, differenza,
questo in quanto, per una maggiore e migliore chiarezza ho ritenuto più adeguato utilizzarre tra i
due il termine più usuale, forse più universale. È importante però essere a conoscenza del fatto che
il senso che intendo dare alla parola diversità nella mia trattazione è quello di differenza che
arricchisce apportando qualcosa.
Uno degli aspetti fondamentali dell’esperienza umana è il rapporto con il diverso. Ciascun essere
umano fa parte di una realtà in cui tutto è diverso da lui. Naturalmente, problematico sul piano
psicologico non è tanto il rapporto con gli elementi inanimati della realtà (gli oggetti) ma è il
rapporto con gli altri esseri viventi.
L’essere umano ha da sempre dovuto gestire il rapporto con l’altro da sé, e fin dagli albori della
storia umana, nel processo di aggregazione comunitaria, ha sentito la necessità di autodefinirsi,
insieme al gruppo dei pari, in contrapposizione all’altro, loro; questo altro può essere l’umano di
sesso opposto, di razza diversa, proveniente da luoghi lontani, e molto altro.
La definizione di sé a partire dalla rappresentazione dell’altro permea ogni stato della vita umana, è
pertanto spunto per riflessioni determinanti allo scopo di riuscire in quella che Sclavi chiama
“gestione creativa dei conflitti”8, questa pratica è di estrema utilità per la buona riuscita della
convivenza sociale.
L’altro è stato generalmente definito come quell’entità che a noi si oppone per una o più
caratteristiche, siano queste biologiche, geografiche, sociali, ideologiche. Ma questo altro è parte
del noi perché solo in rapporto ad esso possiamo dare la definizione di noi, perciò senza l’altro non
ci sarebbe un noi, non ci sarebbe nulla, nessuno.
L’altro può assumere connotazioni infinitamente diverse perché le categorie di noi e loro sono
categorie mutevoli, in continua definizione, condizionate dal tempo e dal luogo in cui vengono
definite. Non esiste una categoria fissa di altro, perché l’altro non è un’entità costante, definita una
volta per tutte, ma l’esito sempre temporaneo di un processo di distinzione reciproca e di
vicendevole esplorazione. Essendo l’essere umano un essere eminentemente sociale, esso ha
6
Zingarelli N, Lo Zingarelli 2007. Vocabolario della lingua italiana, Editore Zanichelli, 2006.
7
Bateson G. , Mind and Nature: a necessary unity, Bantam Books, 1980; tr. it. Longo. G., Mente e Natura,
Adelphi, 1995.
8
Sclavi Marianella, Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte,
Mondadori Bruno, 2003.
ininterrottamente a che fare con altri esseri che possono essere ricondotti ,a seconda dei contesti,
nella categoria del noi o in quella del loro. Il gruppo del noi si crea in base ad un fattore di
uguaglianza riscontrabile in ciascun appartenete al gruppo e in base a questo fattore viene distinto
l'altro, che generalmente ne è privo o presenta forme diverse dello stesso fattore.
In questa dinamica di reciproca definizione, un ruolo particolarmente importante lo ricopre il
linguaggio. L’atto di nominare è di estrema importanza perché attraverso il nome assegnatogli,
l’oggetto o il soggetto nominato acquisisce senso e viene riconosciuto. Ciò che non è degno di
nome non è degno di essere riconosciuto, non c’è, non esiste perché non è significativo
Visibili solo nella loro relazione reciproca, eguaglianza e differenza nel definirsi determinano una
spirale creativa di significato: il campo della rappresentazione. La rappresentazione di sé è alla base
di ogni relazione sociale, Goffman9 nel suo famoso testo, ci rammenta come la rappresentazione del
sé permei ogni momento della nostra vita quotidiana, essendo questa un’esistenza di carattere
sociale. Senza la capacità di elaborare rappresentazioni non è possibile condurre una vita
relazionale.
1.2 Filosofia del rapporto con l’Altro.
Nel descrivere e rendere dicibile l’altro, sono state, e tutt’oggi vengono utilizzate differenti logiche,
queste hanno un ampio potenziale esplicativo sul modo di concepire l'altro, infatti come afferma
Hartog10 parlare degli altri è chiaramente un modo per parlare di noi, la polarità loro- noi
costituisce il framework ineliminabile; descrivere e definire l’altro non è che un cercare di definire
il noi in opposizione ad esso. Le quattro principali direttrici nelle quali si possono riassumere le
logiche più frequentemente utilizzate nel definire l’altro sono:
1) logica dell’inversione (per l’altro non troppo diverso da me, ne accentuo le differenze per
evitare che ci sommergano le somiglianze);
2) logica della mancanza (l’altro è un essere incompleto);
3) la logica dell’eccesso (l’altro è esagerato, smoderato, soprattutto per quanto riguarda le pulsioni
sessuali);
4) logica della combinazione/alterazione (l’altro è un misto, è disordine, confusione che necessità
di venire riordinato dal noi).
Appare chiaro come, la categoria di altro non è che un contenitore, pronto per essere riempito di
volta in volta, a seconda della situazione, con i caratteri necessari a differenziarsi dal diverso.
Secondo Colombo11 l'altro è lo straniero, la categoria di straniero è colui che viene da lontano, che
ha sembianze diverse dal noi e che parla una lingua incomprensibile. L'altro è un essere diverso,
così lontano e così strano che rappresenta contemporaneamente:
1. la diversità esterna al gruppo del noi, quella diversità che va esclusa, va mantenuta fuori al
fine di scongiurare un un contagio tra noi e loro;
2. la diversità interna al gruppo del noi viene assimilata nella speranza di omologarla alla linea
di condotta condivisa.
9
Goffman E., The presentation of self in everyday life, Anchor Books, New York, 1959; tr. It., La vita quotidiana
come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969.
10
Hartog F., The mirror of herodotus. The representation of the other in the writing of history, University of
California Press, Berkeley, 1988; cit. in Colombo E., Rappresentazioni dell’Altro. Lo straniero nella riflessione
sociale occidentale, Milano, Guerini studio, 2004.
11
Colombo E., Rappresentazioni dell’Altro. Lo straniero nella riflessione sociale occidentale, Milano, Guerini
studio, 2004.
La categoria di altro che propone Colombo nel suo testo è caratterizzata da alcune specificità,
l'altro è considerato il diverso perché proveniente da lontano, perché portatore di diverse
consuetudini sociali, perché possiede un diverso idioma.
Analizzando questo concetto di altro come straniero, ritengo che la categoria di altro proposta da
Colombo sia in parte applicabile anche all'animale. L'autore si concentra su un'idea di alterità che è
prettamente umana, lo straniero è un umano che provenendo da altrove non riconosciamo come
parte del noi. A mio parere alcune delle caratteristiche della categoria di altro che propone Colombo
sono applicabili anche all'animale, soprattutto quella che concerne il linguaggio e quella della
diversità di atteggiamenti e comportamenti.
Infatti se osserviamo la particolarità della percezione che abbiamo dello straniero troviamo molti
punti di contatto rispetto alla percezione che abbiamo dell'animale:
1. sia lo straniero che l'animale appaiono diversi da noi dal punto di vista morfologico, alcuni
tratti fisici dello straniero differiscono dal noi, come l'animale presenta caratteristiche
biologiche diverse da quelle umane, allo stesso tempo condividiamo con lo straniero le
strutture biologiche fondamentali del nostro organismo come con gli animali condividiamo
alcune strutture, con alcuni di più con altri meno;
2. sia lo straniero che l'animale si esprimono attraverso codici linguistici diversi e a noi poco
comprensibili, la differenza linguistica può rivelarsi una barriera alla comprensione e
all'accettazione dell'alterità, sia essa animale o umana.
Sul primo punto è utile precisare come in questa reciproca esplorazione, il noi e l'altro si scoprano
fisicamente diversi, nella forma o nella sostanza oppure solo esteticamente, rimane comunque come
punto saldo la scoperta di una diversità visibile al primo sguardo. In questo senso ritengo che la
categoria di altro che costruisce Colombo sia applicabile anche all'animale. L'animale come lo
straniero presenta alcune caratteristiche che lo distinguono dal noi pur avendone
contemporaneamente altre che con il noi condivide.
In riferimento al secondo punto è fondamentale sottolineare come la mancanza di un codice
comunicativo comune sia fonte di una forte percezione di distanza interpersonale, e diversità
perfino quando si tratta di una relazione tra esseri umani, lo conferma anche la storia.
Gli slavi d’Europa chiamavano il loro vicino tedesco nemec, il muto; i maya dello Yucatan
chiamavano gli invasori toltechi i nunob, i muti, e i maya cackchiquel si riferiscono ai maya mam
come ai balbuzienti, a volte come i muti. Gli stessi aztechi chiamavano le popolazioni a sud di Vera
Cruz nonoualca, i muti, chiamando tenime ovvero barbari, o popoloca, selvaggi coloro che non
parlavano il “nahuatl”. Da tutto ciò si evince che anche le antiche civiltà precolombiane attuavano
lo stesso atteggiamento, ad esempio dei conquistatori spagnoli nei confronti dell’altro, del diverso.
Infatti i Conquistadores ritenevano gli indiani dei selvaggi privi di linguaggio, emerge così la
fondante importanza che il linguaggio assume nel considerare l’altro12. Superare la barriera
linguistica è una tappa fondamentale per l'integrazione, allo stesso modo per entrare in relazione
con l'animale è necessario accantonare la logica “se non parla la mia lingua, allora non ne parla
nessuna”, e attuare un atteggiamento propositivo di comprensione dell'altro essere, in questo caso
animale. Mettendo in luce come nel rapporto con l'altro animale non solo la lingua è diversa ma
addirittura il codice di espressione non è condiviso è possibile capire come la categoria di altro
come straniero utilizzata da Colombo sia particolarmente adeguata a valicare i confini di specie.
Nell'ottica antropocentrica l'essere più diverso, o meglio lo straniero assoluto è l'animale, questo
essere senza linguaggio, senza vesti che appare strano, dal punto di vista fisico ma anche
comportamentale, tanto diverso, da essere quasi opposto al noi, tanto simile da rischiare di esserne
incluso.
12
Todorov T., La conquete de l’Amerique. La question de l’autre, édition du Soleil, 1982; tr. It. La conquista
dell’America. Il problema dell’altro, Torino, Einaudi editore, 1984
Nello scoprire l’io attraverso l'altro, la forbice è tra la differenza che si converte in ineguaglianza e
l’eguaglianza che si trasforma in identità. Nell’incontro con l’altro, l’accento può cadere sulle le
differenze che ci contraddistinguono, oppure sulle somiglianze che ci accomunano. A seconda della
scelta, il risultato potrà essere l’esclusione o l’inclusione. Questa doppia possibilità vale per
entrambi i casi, sia quando l'altro è un essere umano che quando è un animale.
Axel Honneth13 filosofo e studioso della pratica del riconoscimento, ritiene che il conflitto sociale
non è mai solo una lotta per il mero controllo delle risorse, per imporre agli altri la propria volontà o
il proprio potere ma è una continua lotta per l’affermazione del sé individuale e collettivo. Il
conflitto è in fondo una lotta per essere riconosciuti nel proprio valore da parte dell'altro e perciò
alla sua radice c’è sempre la mancanza di riconoscimento.
Secondo questo studioso, tre sono le modalità di offesa che esprimono un mancato riconoscimento:
1. offesa nella propria integrità fisica;
2. offesa nella comprensione normativa di sé;
3. offesa nel senso di vedere negato ogni valore sociale al proprio modo di essere, alla propria
cultura.
Da un’analisi di queste tre esperienze negative l’autore trae una distinzione tra tre modalità positive
del rapporto che l’attore sociale ha con sé stesso, queste sono generate da altrettanti tipi di relazioni
di riconoscimento:
1. la fiducia in sé stessi come prodotto del riconoscimento implicito nella relazione d’amore;
2. il rispetto di sé stessi come prodotto del riconoscimento implicito nella relazione giuridica;
3. l’autostima come prodotto del riconoscimento implicito in una relazione improntata alla
solidarietà.
L’integrità delle persone umane dipende in maniera costitutiva dall’esperienza del riconoscimento
intersoggettivo. Perciò i soggetti, al crescere della coscienza della loro individualità sviluppano
anche una crescente dipendenza dai rapporti di riconoscimento offerti dal mondo sociale in cui
vivono. L’immagine normativa del sé di ogni persona non può che basarsi sulla possibilità della sua
continua riconferma dalla parte dell’altro. Quindi l’esperienza del dispregio implica il rischio di una
violenza che può portare al crollo l’identità dell’intera persona. L’esistenza di differenze interne tra
le singole forme di spregio è indicata dal fatto che noi siamo intuitivamente inclini a introdurre
gradazioni anche nel corrispettivo concetto di rispetto.
Attuando la stessa logica è possibile ampliare questo modello esplicativo alle azioni tra tutti gli
esseri viventi, infatti l'integrità di ogni soggetto di una via, animale o umano che sia, dipende
dall'esito del procedimento di riconoscimento che l'altro mette in atto nella vita quotidiana. Se il
riconoscimento ha luogo allora l'essere vivente verrà riconosciuto come tale e rispettato, nel caso in
cui si verifichi un mancato riconoscimento l'essere in questione rischierà di essere soggetto a
differenti offese che possono andare dai soprusi, alla violenza arrivando anche all'uccisione.
Il mancato riconoscimento è legato all'incapacità di immedesimazione del sé nell'altro, senza la
capacità di mettersi nei panni dell'altro non è possibile provare compassione e perciò i rischi di
violenza aumentano. Riuscire a comprendere l'altro assumendo la sua prospettiva è l'unico modo
per apprendere l'abilità di provare empatia.
La capacità fondamentale per essere in grado di capire l' altro è quindi riassumibile nel
meccanismo identificato da Mead14 :l'assunzione della prospettiva dell’altro generalizzato. Questo
meccanismo garantisce al sé l’appagamento di determinate pretese, insieme all’imposizione
13
Honneth A., Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un’etica post-tradizionale, Rubettino Editore,
1993.
14
Mead G.H., Mind, self, and society, Chicago, 1934, tr. It. Mente, sé e società, Firenze, 1966.
normativa di certi doveri nei confronti degli altri. La capacità di assumere la prospettiva di un altro
si radica a sua volta in un’interazione antecedente che reca i tratti della cura esistenziale, quella
predisposizione che spinge alla cura e alla protezione dell'altro in difficoltà; esistono presupposti
cognitivi impliciti nel modo in cui i bambini acquistano la capacità di assumere la prospettiva di un
altro.
Lo sviluppo nel bambino delle capacità di pensare e agire è da intendersi come un processo che si
svolge mediante il meccanismo dell’assumere la prospettiva altrui (Piaget, Mead, Davidson, Freud).
L’acquisizione delle abilità cognitive nel processo di sviluppo del bambino è legata in modo
peculiare alla formazione delle relazioni comunicative primarie. Il bambino impara a rapportarsi a
un mondo di oggetti stabili e costanti assumendo la prospettiva di una seconda persona e quindi
decentrando gradualmente la propria prospettiva inizialmente egocentrica. L’identificazione
emotiva con altri rappresenta il presupposto necessario perché avvenga quell’adozione della
prospettiva altrui che a sua volta conduce allo sviluppo del pensiero simbolico.
Ritengo pertanto che il concetto di “riconoscimento” che Honneth descrive sia applicabile in modo
ampio sia agli umani che agli animali partendo dal presupposto che se l'essere umano non riconosce
l'animale come soggetto di una vita, ovvero come parte di una categoria del noi esseri viventi,
l'animale viene ridotto ad oggetto e perdendo i connotati dell'essere vivente viene esposto a
trattamenti inadeguati rispetto al suo status.
Anche il meccanismo identificato d Mead è perfettamente applicabile al di là delle barriere di
specie, infatti, la capacità di mettersi nella prospettiva dell'altro sia esso animale o umano è
fondamentale per essere capaci di provare compassione ed empatia verso l'altro. Senza
immedesimazione non è possibile comprendere gli stati emozionali di chi ci circonda e pertanto è
difficile sentirsi motivati a prestare loro cure e sostegno.
Honneth compie un ulteriore passo quando spiega come al mancato riconoscimento risulti
frequentemente associata la pratica reificante. Per reificazione15 Honneth considera la pratica
secondo la quale viene mercificato di ciò che merce non è; la reificazione è dovuta ad un mancato
riconoscimento che porta a trattare qualcosa di non mercificabile nei termini dello scambio
economico, un atto di svalutazione causato da un mancato riconoscimento sociale. Con questo
concetto l'autore intende quel processo di svalutazione di un soggetto che fa si che esso venga
trattato come oggetto. Trattare come cosa inanimata un essere vivente secondo l'autore è una pratica
reificante, in questo senso è possibile ampliare questo concetto anche all'animale, in quanto spesso
trattato come merce,cosa o oggetto nonostante il suo essere soggetto di una vita e per questo
inadeguato a ricoprire il ruolo di merce inanimata.
Ci sono tre tipi di riconoscimento:
1. amore;
2. diritto;
3. solidarietà.
Nell’esperienza dell’amore è contenuta la possibilità della fiducia in sé stessi, nell’esperienza del
riconoscimento giuridico è contenuta la possibilità del rispetto di sé stessi, nell’esperienza della
solidarietà è contenuta la possibilità dell’autorealizzazione individuale. Le forme del
riconoscimento proprie dell’amore, del diritto, della solidarietà, rappresentano protezioni
intersoggettive che tutelano e assicurano quelle condizioni della libertà interna ed esterna da cui
dipende il processo di autonoma articolazione e di realizzazione di fini di vita individuali.
Riconoscimento è perciò sentirsi obbligati a comportarsi verso una persona in una qualche sorta di
modo benevolo in base alla percezione della visibilità sociale della stessa.
Il soggetto oggetto dell'atto di riconoscimento e per ciò di rispetto, acquista una motivazione a
15
Honneth A., Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento, Roma, Meltemi, 2007.