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fondi sull’apporto determinante di una larga fascia di
sublavoranti,
i quali soltanto possono garantire il godimento, a una
cerchia sempre più stretta, di certi privilegi? Le garanzie
occidentali connesse al lavoro, non sono che l’ultimo esempio in
ordine di tempo di tale meccanismo: quando era possibile a
spese dei surplus petroliferi, esse sono state allargate a fette
sempre più grandi della popolazione occidentale; mancando
quelli, si è cominciata a restringere sempre più, la cerchia. Ma la
gran parte era sempre costituita dal lavoro senza regole,
schiavistico, fosse esso prodotto anche fuori confine: era quello,
a garantire i più alti guadagni grazie al suo costo irrisorio!
Che il semplice rilevamento di questo dato di fatto
costituisca di per sé una questione di filosofia politica o, come
diceva Norberto Bobbio, di costruzione della pòlis, non sembra
contestabile né in maniera relativa né in maniera assoluta, dal
momento che tutte le società politiche occidentali sono state
edificate sulla pietra d’angolo del lavoro. E se questa pietra
dovesse essere incrinata e rischiare di spezzarsi sotto il peso
della costruzione che essa pur dovrebbe sorreggere, allora non
sarebbe una perdita di tempo cercare di analizzare le cause che
a questo risultato hanno portato, e se esse siano di natura
contingente o immanente; se conoscibili o no; se appartengano
all’uomo o solo a questa particolare forma di società; se, in
definitiva, esse possano essere conosciute e sanate o se rispetto
ad esse – posto che siano conoscibili – non vi sia soluzione
alcuna.
Già il solo impegnarsi in un’impresa del genere, con
l’auspicio di conseguire qualche risultato, dovrebbe essere
considerato benevolmente, non fosse altro che per il fatto che
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l’emergenza del fenomeno della disoccupazione a livello
mondiale costringe a riflettere sul perché non siano state ancora
adottate soluzioni, vere. Se quelle prospettate non siano state
all’altezza, o se semplicemente non siano state prese in
considerazione contando sulla panacea del mercato. In entrambi
i casi questo contributo potrebbe servire – quantomeno – a
quietare la coscienza di chi lo ha scritto, per aver fornito a chi si
dovesse trovare a leggerlo una visione che, per quanto parziale
essa possa essere, almeno non cerca di dissimulare un
problema di fondo rispetto al quale molti autori di ben altra
levatura si sono pronunciati, ma che non sembra sia stato
rilevato nella sua vera portata dal sentire non diciamo comune,
ma nemmeno della comunità accademica, scientifica e,
soprattutto, politica. Lo dimostra il fatto – incontestabile – che il
profilo di molte discipline sia rimasto lo stesso di vent’anni fa,
nonostante la caduta di molte illusioni; e anche che certe parole
chiave come diritto del lavoro o sociologia del lavoro si riferiscano
a mondi sempre più introvabili nella realtà odierna, fatta di un
sempre più imponente dilagare del lavoro informale, il che altro
non è che un eufemismo per denominare la schiavitù nell’era
postmoderna.
La domanda fondamentale a cui si tenta di rispondere è se
il lavoro abbia o no quella dignità morale, sociale e politica che
gli è stata attribuita oggi dall’affermazione definitiva dell’etica
utilitaristica, la quale ha trovato nel mercato la sua realizzazione
compiuta. Da molto tempo, come è noto, moltissimi pensatori si
sono posti questo problema e hanno fornito il loro punto di vista
prospettando le proprie soluzioni. Ed è certo che se si deve
riconoscere quale pensiero abbia avuto la meglio nel millenario
confronto fra i sostenitori del lavoro e i suoi detrattori, è ai primi
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che si deve ascrivere la vittoria. Anche se - e questo pure è un
aspetto che si cercherà di analizzare in questo testo - è ben
strano che nell’Occidente si tenga in grandissima considerazione
(almeno apparente) il pensiero dei Greci, ma non se ne tragga
con coerenza insegnamento alcuno, dimodochè lo studio del loro
pensiero diventi più o meno un gioco da salotto Ancien Règime,
come dimostra proprio l’imperio dell’etica utilitaristica che
sembra render vana qualunque dissertazione (compresa questa),
di fronte alla concreta realtà della primazìa dei valori
commerciali su tutti gli altri.
Va precisato che, essendo lo scopo di questa trattazione
un discorso di natura sostanzialmente filosofica intorno al tema
del lavoro, si cercherà accuratamente di evitare lo scivolamento
verso territori ad esso non congeniali e comunque non utili,
quali potrebbero essere: quello dell’economia (come la
conosciamo oggi, ossia quella delle formule e dei diagrammi
quale essa è divenuta almeno da Walras e Pareto in poi); o quello
della statistica e delle tabelle e dei dati continuamente
aggiornabili, che renderebbero già vecchia questa operetta un
attimo dopo averla terminata. Non parliamo inoltre del rischio al
quale ci si esporrebbe riguardo alla attendibilità, attualità e
pregnanza delle fonti; né, peggio ancora, alla legittimità della
loro interpretazione, se i dati - e non la teoria – fossero il
sostegno di questo scritto. Se poi si commettesse perfino l’errore
di entrare in ambiti disciplinari nei quali si parla di “mobilità”,
“esuberi”, o “superminimi”, si perderebbe completamente di
vista la prospettiva di questo elaborato: non è un discorso
all’interno di un sistema dato, circa le sue possibilità di
emendazione, ma un discorso sulla validità dei presupposti che
reggono il sistema.
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Per tali ragioni si farà riferimento alla ben vasta letteratura
esistente in materia, non per presentarne una esaustiva
antologia commentata, bensì solo per trarne tutti gli spunti che
possano essere ritenuti sufficienti a esaurire teoreticamente il
tema della fine del lavoro, senza badare alla provenienza e alle
date, ma semmai cercando di evitare percorsi inutili. I dati e i
riferimenti da queste fonti desunti saranno – apprezzata
l’autorevolezza e quindi la certezza della precisione e della
congruità del loro rilevamento – ritenuti più che sufficienti
all’impostazione della prima parte di questa dissertazione.
Qui si inserirà la conclusione che – tenendo conto delle
soluzioni al problema proposte – cercherà di mostrare quali
possano essere i falli in ciascuna proposta e quale invece – per
onestà intellettuale – si ritiene debba essere quella adottabile.
Nella seconda parte, invece, una volta esaurita la
discussione intorno al fenomeno della fine del lavoro, si cercherà
di penetrare all’interno del nòumeno del lavoro, cioè della
coerenza teoretica che dovrebbe sorreggere gli assunti che nel
corso di secoli si sono incaricati volta a volta di definire,
spiegare, santificare o demonizzare il travaglio umano.
Se sia possibile ascrivere esso nell’ambito dell’attività
umana al pari di altre o se non si tratti invece di costrizione
legata alla sopravvivenza. Se esso sia l’edificatore dell’essere
umano o il suo demolitore. Se il lavoro sia strutturante della
personalità o destrutturante di essa. Se esso sia indispensabile
alla comunità dal punto di vista sociologico o solo da quello
economico, dando per intesa una loro sostanziale differenza. Si
cercherà in definitiva di verificare – se possibile – quali siano le
basi sulle quali si regge l’edificio umano della società, posto che
essa sia davvero fondata sulla divisione del lavoro come alcuni
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autori sostengono, o se non sia invece altro a forgiare i legami
della struttura sociale. Di quale natura, in definitiva, possa
ritenersi essere fatta la pietra d’angolo cui abbiamo prima
accennato. E, quindi, se essa sia davvero indispensabile o no.
Il tema, naturalmente, è ancora più vasto del precedente; e
ciò del resto appare giusto, almeno per coloro i quali ritengono
non potersi esaurire tutto al solo esame dei fenomeni.
Fortunatamente, anche in questo campo specifico della
speculazione vi sono parecchi contributi di cui dar conto e da
raffrontare per sostenere il proprio punto di vista, e
naturalmente si cercherà di darne conto ma, anche qui, senza
alcuna pretesa di essere esaustivi nel novero degli autori (ben
altri hanno scritto opere monumentali e preziosissime sul
lavoro, e non è certo questa l’intenzione), bensì cercando invece
di esaurire le argomentazioni, le teorie, a sostegno di questa o
quell’altra tesi, nel tentativo di trarre delle conclusioni che
possano essere utili – se non a rischiarare completamente il
problema – almeno a fare piazza pulita, secondo la lezione di
Francesco Bacone, di tutta una serie di sottili quanto inutili
distinguo che spesso nascondono la vacuità di molte posizioni,
sì da arrivare – assumendosene tutte le responsabilità, certo –
alla definizione netta, non equivoca, non edulcorata, di una
posizione chiara e coerentemente argomentata.
E’ da ritenersi insopportabile infatti, l’atteggiamento
intellettuale di coloro i quali riempiono (e pubblicano!) centinaia
di pagine zeppe di note e di rimandi, per poi non riuscire ad
essere chiari nell’esposizione del proprio punto di vista, il quale
anzi spesso non esiste, essendo il vero scopo di certi scritti,
nonché il costume di molti intellettuali a partire da certi maestri
del nostro idealismo in poi, quello di scavarsi una nicchia nella
quale ben sistemarsi per – una volta al riparo da critiche –
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mettersi a discettare di calligrafia, di grammatica e d’ortografia:
tutto meno che di filosofia, anche quando ci si dice filosofi. In
questa modestissima opera almeno questa disonestà
intellettuale verrà evitata. Se poi essa opera serva a qualcosa o
no lo giudicherà chi legge, ma se non altro non le si potrà
imputare l’ambiguità o la finta imparzialità.
In ragione di ciò, oltre che per ragioni proprio estetiche e di
rispetto per chi legge, si cercherà di evitare di riempire ciascuna
mezza pagina dell’esposizione di note spesso solo superflue:
quando una citazione verrà ritenuta davvero importante sì da
essere necessario un suo commento, essa sarà inserita nel corpo
del testo (naturalmente con un carattere diverso). Altrimenti, il
rimando tipico, necessario a dar conto della paternità o
comproprietà di certe idee, sarà quello cosiddetto autore/data
che, fortunatamente legittimo sia in ambito accademico che
letterario, viene oggi sempre più spesso utilizzato con grande
giovamento innanzitutto del lettore, verso il quale si dovrebbe
tutta l’attenzione, e che invece spessissimo viene trascurato a
favore o di vanità proprie, oppure di omaggi se non a persone
certamente a modelli verso i quali ci si sente debitori.
Si utilizzerà invece la fatidica nota a piè di pagina solo per
riferire immediatamente data e provenienza della citazione,
aborrendosi il sistema della nota a fine capitolo o, peggio, a fine
trattazione.
Auspicando che la lettura possa risultare davvero
piacevole, sì da essere – se non convincente – almeno non
noiosa, si spera altresì di riuscire a fornire un contributo che
possa risultare utile, se non al conseguimento di un nuovo
traguardo, almeno all’ammissione che il tema di cui si tratta non
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è tema che possa essere trascurato, né dalla comunità
scientifica, né da quella politica, né dalla società nel suo
complesso: perché è il tema della sua esistenza.
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Prima parte: Il tramonto di una civiltà
“E’ giunto il tempo in cui gli uomini non faranno più ciò che
possono fare le macchine”, scriveva Marx annunciando (era il
1857) che il capitalismo tendeva inesorabilmente verso
l’abolizione del lavoro, il che, a sua volta, ne comporterebbe la
morte.
Questa teoria, ripresa nel 1932 da Jacques Duboin e, più
recentemente, in Italia, da alcuni marxisti “autonomi”, corrisponde
finalmente a dei fatti osservabili.
Ecco perché il tema della abolizione (o della riduzione) del
lavoro obbligato è più sovversivo che mai. Se tutti prendessero
coscienza che non ci sono più, virtualmente, dei problemi di
produzione ma solo un problema di distribuzione – cioè di equa
suddivisione delle ricchezze prodotte e di equa ripartizione, tra
tutta la popolazione, del lavoro socialmente necessario – il
sistema sociale attuale avrebbe forti difficoltà a conservarsi.
Cosa diventerebbe la disciplina del lavoro, l’etica del
rendimento, l’ideologia della competizione, se ciascuno sapesse
che è tecnicamente possibile vivere sempre meglio lavorando
sempre meno e che il diritto a un “reddito pieno” non ha più
bisogno di essere riservato a coloro che forniscono un “lavoro a
tempo pieno”?
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Affinché l’ordine attuale non venga scalzato nei suoi
fondamenti ideologici, è meglio che queste cose non si sappiano.
Si dirà dunque alla popolazione non che essa non avrà più
bisogno di lavorare molto ma che “il lavoro mancherà”; non che
noi avremo sempre più tempo libero, ma che “ci saranno sempre
meno posti di lavoro”. Si presenteranno le promesse
dell’automazione come delle minacce; si tenterà di fare in modo
che i lavoratori si disputino fra di loro i troppo scarsi lavori, invece
di lottare insieme per un’altra razionalità economica.
La disoccupazione, in effetti, non è solo una conseguenza
della crisi mondiale: è anche un arma per ristabilire l’obbedienza
e la disciplina nelle imprese.
(Andrè Gorz, 1980, da Addio al proletariato)
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Capitolo I
L’esaurimento del lavoro
1. La caduta delle illusioni
Gli è che se si dicesse esplicitamente “schiavi”, diventerebbe
tutto più chiaro.
Senza inutili infingimenti linguistici che finiscono per
essere spazzati via dall’esplosione delle contraddizioni con le
realtà che dovrebbero descrivere, probabilmente ne trarrebbero
immediato giovamento innanzitutto la qualità della
comunicazione, che è il vero specchio di una civiltà, ma poi – per
conseguenza – tutte le scienze umane, siano esse volte alla
ricerca sociologica come a quella politologica, così a quella
economica. Non essendo queste scienze costrette a inseguire
verità apparenti, e poi a tentare di dimostrarle arzigogolando con
un corredo di contorsioni perifrastiche degne del peggiore
Barocco, potrebbero – liberate da questa incombenza –
illuminare verità vere.
Una di queste verità è che il lavoro umano non è più
necessario, ma si continua a pensarlo tale, o tale a volerlo far
credere (De Masi, 1994, 1997a) nel tentativo di mantenere in
piedi la messinscena di una civiltà – quella del lavoro – ormai al
suo declino (Forrester, 1996).
La letteratura in materia è diventata oggi abbastanza vasta
ma, a prescindere da questo, potrebbe bastare anche il semplice
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senso comune a constatare come quella della piena
occupazione, della quale sono stati riempiti gli auditori, e le
piazze, per oltre 50 anni dal Secondo Dopoguerra in poi, si sia
rivelata oggi per quello che probabilmente è sempre stata (a
parte le illusioni dei booms economici), ossia nient’altro che una
verità apparente, alla quale però fanno ancora mostra di credere
anche coloro i quali avrebbero tutti gli strumenti per accertarne
la falsità; e che tuttavia non sembrano volersi rassegnare,
nonostante la crescente piena di studi sempre più precisi sul
fenomeno da un lato, e la schiacciante montagna di fatti terribili
e inappellabili dall’altro.
Il punto è che ormai ci si trova immersi in una temperie
culturale - tipica dei momenti di grande crisi, come se ne sono
succedute diverse nella storia dell’umanità – nella quale per la
paura di abbandonare un modello appena consolidato, ossia
quello della primazìa del lavoro che ha meno di duecento anni di
vita (Méda, 1995; Rifkin, 1998a), si tende a reagire
emotivamente (Schiavone, 2001). E allora, piuttosto che
analizzare con serenità quello che avviene, si tende a sminuirne
la portata, si cerca di cambiare il punto di vista, di ritoccare i
parametri di valutazione, o addirittura di criticare la veridicità di
alcune rappresentazioni, magari criticando direttamente l’autore
dell’analisi; tutto questo per non abbandonare un mito che ha
avuto, e sembra avere tuttora, l’indiscusso vantaggio di un
fascino profondo che è nel contempo il miglior strumento forse
mai inventato – in tutta la storia dell’umanità – di controllo e
pacificazione sociale.
Il guaio è però che - come tutti i miti che hanno una
grande forza persuasiva tale da ordinare le masse - nel caso in
cui questi dovessero cominciare a mostrare attraverso le crepe
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della propria struttura il vuoto che si cela dietro di essa, le
reazioni delle in precedenza ordinate masse potrebbero diventare
distruttive oltre ogni immaginazione.
Così sembra sia accaduto per il crollo dell’Antico Regno
d’Egitto, quando le continue siccità e conseguenti carestie
sgretolarono le credenze popolari nell’infallibilità del faraone, e
dunque nella sua divinità, e quindi nella struttura sociale
ordinata dai sacerdoti, che finì per implodere in un gorgo di
atrocità disumane.
E’ questa, forse, la ragione di tanta emotività nel
rapportarsi al tema della fine del lavoro: se ne intuisce la
incommensurata forza disgregante e, piuttosto che cercare di
verificarne la fondatezza con spirito analitico, si cerca di versare
altro incenso per glorificare ancor più il mito della intangibilità
del lavoro, inventando palliativi come la formazione continua
tout au long de la vie, o la ricollocazione e altri equivalenti, che
falliscono sistematicamente (Méda, 1995, De Masi, 1997).
Somiglia, tutto questo, al meccanismo di rimozione
intellettuale attuato dall’alto durante la decadenza dell’ Impero
Romano, quando per contrastare il dilagare del cristianesimo
che si riteneva - forse – facesse proseliti per la presenza di valori
edificanti, gli si contrappose il mito, e il culto, di Mitra, uno dei
pochissimi dèi portatore di soli valori positivi (James, 1957). Il
risultato però non deve essere stato dei migliori, se, a parte
l’affermarsi del cristianesimo, Mitra scomparve nel
dimenticatoio, senza guadagnarsi nemmeno un posto
nell’Olimpo latinizzato tramandatosi fino a noi.
Così, il campo della discussione si divide in due fazioni che
in realtà non discutono affatto: piuttosto si affrontano, cercando
di sminuirsi a vicenda. Oppure si ignorano, lasciando, ad
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esempio, che la mole degli studi sempre più puntuali
sull’annunciata fine del lavoro continui ad aumentare, e
contando sulla indiscutibilità d’imperio dei valori commerciali
che tutto ordinano.
Del resto, come si potrebbe dar loro torto? Non è forse vero
che gli Stati nazionali vengono sistematicamente scavalcati
dall’incrociarsi di interessi economici mondiali (Poggi, 1998)? E
non è forse vero che il declino degli Stati nazionali si palesa
evidente proprio in quell’àmbito? Là, dove trattati internazionali
come il NAFTA e il GATT hanno spogliato i governi locali del
diritto di sindacare in materia di lavoro e ambiente? Là, dove
istituzioni come la WTO non rispondono ad alcun governo; e
possono addirittura imporre sanzioni alle nazioni che vìolano gli
accordi commerciali (Rifkin, 2000)?
Si può quindi immaginare come sia facile accada che simili
temi vengano semplicemente snobbati, anche in ambito
accademico, nonostante l’evidenza dei fatti induca molti studiosi
a rappresentare con precisione situazioni di disagio dilagante, e
a reclamare la necessaria attenzione su di esse.
2. La fine del lavoro garantito
Ma i fatti sono così eclatanti che bastano da soli a dare la
misura della definitiva rottura non solo del modello che si era
creduto consolidato della piena occupazione, ma anche del suo
correlato, il lavoro garantito dalle leggi e protetto dagli umori del
mercato: anche quello, via via sempre meno diffuso, è divenuto
oggi praticamente introvabile, perfino nel settore pubblico. E
non perché sia venuto a sfaldarsi lo stato di diritto, ma
perché questo – almeno rispetto al lavoro – era solo una
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facciata, la quale poteva rimanere in piedi solo fino a
quando lo permettevano gli ultrasurplus del petrolio
d’Oriente, come basta a dimostrare la coincidenza dell’inizio
della recessione con la crisi petrolifera. E la prova, ancora
una volta, è nei fatti.
Un attento studioso del lavoro come Ulrich Beck arriva ad
affermare senza mezzi termini:
Ciò che è sempre più evidente è la nuova analogia, nelle tendenze di sviluppo del
lavoro salariato, tra il cosiddetto Primo e il cosiddetto Terzo Mondo. Ciò a cui
assistiamo è l’irruzione della precarietà, della discontinuità, della flessibilità,
dell’informalità, all’interno dei bastioni occidentali della piena occupazione. (…)
la varietà, la confusione e l’insicurezza delle forme lavorative , biografiche ed
esistenziali del Sud, si espande nel cuore dell’Occidente.
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E, a prova della solidità delle argomentazioni usate, non
manca l’esempio indiscutibilmente paradigmatico:
La Germania rappresenta un caso emblematico dell’evoluzione delle società
occidentali: negli anni Sessanta solo un decimo dei lavoratori apparteneva alla
categoria dei cosiddetti precari. Negli anni Settanta era già un quinto, negli anni
Ottanta un quarto, mentre negli anni Novanta si tratta ormai di un terzo della
popolazione attiva. Se si mantiene questo ritmo, e molti indizi fanno pensare che
così sarà, tra dieci anni soltanto un lavoratore dipendente su due occuperà un
posto di lavoro a tempo pieno, mentre gli altri lavoreranno per così dire “alla
brasiliana”.
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Naturalmente, pare inutile dover esplicitare come la
locuzione riferita al Brasile serva all’autore per sintetizzare in
una sola parola – più avanti userà infatti “brasilianizzazione” –
l’immagine certamente efficace di un mondo del lavoro senza
regola alcuna, senza protezione alcuna, senza garanzia alcuna,
senza certezza alcuna: un mondo insomma nel quale possono
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Ulrich Beck 1999 Il lavoro nell’epoca della fine del lavoro/Tramonto delle sicurezze e nuovo
impegno civile, pag. 3
2
Ulrich Beck 1999 citato, pag. 4