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INTRODUZIONE
Il mondo dell’informatica ha generato più comodità ed
economia nel mondo dell’uomo portando con se però anche notevoli
svantaggi. L’intento dell’elaborato è quello di analizzare attraverso le
innovazioni della comunicazione, con l’avvento dell’internet,
l’evolversi del linguaggio. Per aumentare gli agi, per divulgare
informazioni, per inviare dati e immagini, per avere dei confronti, ma
anche soltanto per divertirsi, diventa indispensabile oggi avere una rete
di comunicazione virtuale. Le innovazioni tecnologiche hanno
influenzato e continueranno ad influenzare la vita quotidiana di ognuno
di noi cambiandone le abitudini, e diventa inevitabile che le rivoluzioni
del sistema tecnico multimediale si impongono nella nostra vita.
Partendo da questo pensiero, ho preso in considerazione
l’analisi linguistica quantitativa e qualitativa dei commenti d’odio sulle
piattaforme social. Per poter comprendere tale analisi si è reso
indispensabile muoversi all’interno della legislatura italiana ed europea,
per capire dapprima le norme che stabiliscono e tutelano la libertà di
espressione e successivamente quelle che ammoniscono l’odio e la
discriminazione. Il tutto senza tralasciare l’evolversi dei modelli
comunicativi tradizionali.
La mia analisi è mirata allo hate speech, ovvero l’incitamento
all’odio sui social network, con uno studio specifico di due delle
piattaforme virtuali, in Italia più famose e utilizzate, quali Facebook e
Twitter. Focalizzandomi su come le loro policies arginano l’odio sul
web e su quanto queste risultino non sufficienti, ho preso in esame
l’ambiente socio-politico-economico come culla del linguaggio
dell’odio. Per tracciare e racchiudere lo hate speech, capirne le
dinamiche e come avviene, si è reso indispensabile partire dalla
differenza di linguaggio e dal codice deontologico della comunicazione
classica, quale il giornale cartaceo, e quella della comunicazione
moderna, che oggi ci riguarda su dispositivi tecnologici.
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Esaminando quattro casi specifici quali, il caso Boldrini, il caso,
il caso Romano, il caso Rackete e il caso Murgia si può intuire quanto
lo hate speech sia diventato parte integrante dell’uomo. Infatti, il
linguaggio d’odio è un linguaggio con degli scopi e delle vittime
specifiche. Esso viene concepito per fare del male, mortificare,
schernire. Questa emergenza viene risolta con la carta dei diritti di
internet, essa mette al centro il rispetto della persona. Uno “strumento
indispensabile per dare fondamento costituzionale a principi e diritti
nella dimensione sovranazionale” poiché la rete internet è prima di tutto
un luogo di crescita per i cittadini. Un secondo strumento è offerto dalla
commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza,
razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza sulla base
di una mozione proposta dalla senatrice a vita Liliana Segre. Infine,
l’iniziativa “Odiare ti costa” che ha come obiettivi principali la
promozione di informazioni, documentazioni e studi su questioni
dedicate in modo preciso agli hate speech e della tutela dei diritti della
persona. Tale iniziativa inoltre fa da sostegno, supporto e aiuto alle
vittime di odio sul web.
Questa tesi ha lo scopo di suscitare una riflessione profonda
prendendo coscienza di quanto sia importante il fenomeno dello hate
speech e di quanto esso debba essere contrastato. Esso ha inquinato i
contenuti comunicativi su scala mondiale alimentando la diffusione di
mis-information (notizie false ma innocue che non ledono nessuno) e
mal-information (notizie vere ma strumentalizzati ad hoc diffuse con
l’intenzione di danneggiare persone, istituzioni o intere comunità.).
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CAPITOLO 1
I PROBLEMI NEL PROTEGGERE LA LIBERTÀ SENZA
CENSURA: UNA LETTURA FILOSOFICA
1.1.1 Libertà di espressione, consequenzialismo ed hate speech
Il dibattito filosofico sulla libertà in generale e, dunque, sulla
libertà di espressione nello specifico, ha radici storiche lontane ed
esponenti vari che, con fermento, nel susseguirsi dei secoli, hanno
discusso questo tema cercando, ognuno, di far prevalere le proprie
ragioni. Ovviamente, tale discussione non ha esaurito i suoi argomenti
e, ad oggi, nessuna conclusione è stata ancora raggiunta. Conscia della
complessità di questo tema, in questo paragrafo non cercherò di
ricostruire l’intero dibattito filosofico in merito alla libertà di
espressione, ma cercherò di fornire un punto di vista al riguardo. Questa
è una semplice introduzione sulla complessità che porta con sé la
teorizzazione della libertà di espressione, nonché sulla difficoltà di una
conseguente regolamentazione. Prenderò spunto dalla scuola
anglosassone ed americana e cercherò di discutere di alcune “free
speech justifications” (Greenwalt, 1989), ossia alcune teorie che
giustificano la libertà di espressione e capire i limiti nella loro
applicabilità.
Secondo Greenwalt (1989), in una democrazia liberale ciò che
assicura la libertà ad un cittadino è la sua possibilità di fare ciò che
desidera, senza restrizioni. Il governo di questa democrazia deve
intervenire, solo, nel momento in cui, le libere azioni di un cittadino
mettono in pericolo o minacciano i diritti di un altro individuo. Date
queste premesse, allora, dovrebbe essere facile, per le autorità
governative, avere le giuste ragioni che le conducano a regolare la
libertà di espressione qualora questa si verifichi sotto forma di hate
speech, ossia di discorsi d’odio che offendono un altro individuo o
gruppi di individui, qualunque sia la sua definizione e forma (Schauer,
1982). Vedremo, però, come le teorie prese in considerazione in questo
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paragrafo, seppur difendendo la liberà di espressione nella sua totalità,
non siano adeguate a contrastare lo hate speech che ne potrebbe
derivare.
Greenwalt (2016) divide le teorie sulla libertà di espressione in
due gruppi: le teorie consequenzialiste e le teorie non consequenzialiste.
In linea generale, secondo Jamieson & Elliot (2009:241)
“consequentialism is the family of theories that holds that acts are
morally right, wrong, or indifferent in virtue of their consequences.
Less formally, and more intuitively, right acts are those that produce
good consequences”; mentre, per Kamm, (2006:11) “Nonconseque-
ntialism is a type of normative ethical theory that denies that the
rightness or wrongness of our conduct is determined solely by the
goodness or badness of the consequences of our acts or of the rules to
which those acts conform.”. Dunque, ciò che contraddistingue queste
due teorie è il modo in cui esse valutano le azioni, verbali o fisiche,
compiute da una persona. Per i consequenzialisti, un’azione è giusta o
sbagliata in base alle conseguenze che produce che possono essere
positive o negative, mentre, i non consequenzialisti, ritengono che
un’azione non possa essere valutata, giusta o sbagliata, meramente per
le conseguenze che produce ma per caratteristiche intrinseche
all’azione stessa. Ai fini di questa ricerca, prenderò in considerazioni,
brevemente, tre delle principali tesi perno della filosofia
consequenzialista, in quanto più utili alla discussione sullo hate speech.
In primo luogo, è bene citare la teoria del “Marketplace of
Ideas”, ideata da Milton e teorizzata da Mill, secondo la quale il
progresso di una società gioverebbe dell’assenza del controllo dello
Stato su cosa sia ritenuto vero o falso, valido o non valido, accettabile
o aberrante (Sellars, 2016). In più, secondo Yong (2011), fulcro di
questa teoria è che la veridicità, sia delle idee che delle opinioni,
tenderebbe a raggiungere sempre più supporto e, di conseguenza,
questa prevarrebbe sulle idee e le opinioni che, invece, si rivelerebbero
false. Nonostante questa visione positiva, tale teoria risulterebbe
problematica alla luce dello hate speech che potrebbe scaturirsi. Infatti,
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se pur dando illimitata libertà, non ci sarebbero i presupposti per
regolare e, eventualmente, sanzionare i discorsi d’odio in quanto,
questi, vengono percepiti come il prezzo da pagare per esercitare il
diritto di esprimere il proprio pensiero liberamente.
Un’altra teoria consequenzialista è quella che prende la
denominazione di “Democratic Self-Governance” (Sellar, 2016), ideata
da Meiklejohn, secondo la quale il principale ruolo dello Stato è quello
di proteggere, tramite la costituzione, la libertà individuale così da
assicurare che le persone partecipino, liberamente ed in egual misura,
autogestendosi, a qualsiasi dibattito socio-politico. Allo stesso tempo,
però, lo Stato non deve, in nessun modo, operare alcuna censura sulla
libertà di espressione in quanto minerebbe il diritto di partecipazione e
di opinione, dei propri cittadini, alla vita sociale e politica. Secondo
questa ottica, ciò che più è importante non è che tutti esprimano la
propria opinione, ma che ciò che ha un certo grado di rilevanza non
rimanga taciuto (Meiklejohn, 1960). Questa teoria è più tollerante verso
una regolamentazione della libertà di espressione, nel preservarla, ma,
allo stesso tempo, risulterebbe inefficace nel contrastare i discorsi
d’odio. Infatti, seguendo questo ragionamento, si darebbe troppa
fiducia agli individui nell’autogestire la democrazia e, dunque, potrebbe
capitare che i gruppi di potere maggioritari prevarrebbero su quelli
deboli e marginalizzati (Hertz & Molna, 2012). Inoltre, se ciò che viene
detto ha una rilevanza per il dibattito in corso ma, allo stesso tempo,
risulta essere un discorso offensivo, questo non verrebbe bloccato ma
tollerato, nonostante la gravità delle parole espresse.
L’ultima teoria presa in considerazione è “The tolerant society”
(Bollinger, 1988), secondo la quale tutti i tipi di discorsi, anche quelli
estremisti, devono essere protetti e tollerati per far sì che le politiche
democratiche possano funzionare al meglio. Come evidenziato da
Strauss (1986), il fulcro di questa teoria è l’idea che se uno Stato non
riesce a tollerare i discorsi d’odio, allora non sarà nemmeno capace di
imparzialità e di tolleranza verso quei discorsi, che invece, non hanno
nulla di estremo e che, piuttosto, apportano valore ad un ipotetico
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dibattito. Anzi, dice Strauss (1986) che Bollinger sostiene che il vero
scopo della libertà di espressione è di insegnare alle persone il self-
control, inducendole a tollerare persino i discorsi d’odio che,
diversamente, verrebbero censurati. Questo perché, secondo l’autore,
l’essere umano è incline all’intolleranza, per cui è importante capire e
controllare i nostri “impulsi” verso di essa altrimenti, se non controllati,
avrebbero conseguenze devastanti.
Come si evince dalle tre teorie prese in esame, se da un lato vi è
lo sforzo di preservare la libertà di espressione nella sua forma e
sostanza, dall’altro si propone, incessantemente, la problematica dello
hate speech che, secondo le teorie consequenzialiste, non è altro che il
risvolto della stessa medaglia e, dunque, non può essere marginalizzato
ma solo tollerato. Ovviamente, la filosofia, soprattutto nel campo della
liberà, si scontra con la giurisprudenza e, come vedremo in seguito, sia
l’Italia che l’Unione Europea, nel tempo, non sono state incline ad
adottare una dottrina consequenzialista, ma hanno sempre cercato di
proteggere i propri cittadini da ogni forma di odio, consapevoli della
loro memoria storica. Nuovamente, però, prima di determinare nello
specifico lo hate speech, penso sia doveroso parlare, ancora, di libertà
di espressione nel suo concreto e vedere come, effettivamente, tale
libertà ed i discorsi d’odio siano legati imprescindibilmente.
1.2.1 La presenza dello hate speech nel concetto di libertà di
espressione
Definire cosa sia lo hate speech non è semplice, ma risulterebbe
ancora più complicato farlo senza prima introdurre il concetto di libertà
di espressione. Per questo, prima di inoltrarmi nel mondo dello hate
speech, cercherò di definire quali siano i contorni di questa libertà,
partendo dalla seguente affermazione: “The term “freedom of speech”
is used to capture those discursive acts – often political in nature – that
can be imparted or received, without constraint or censorship,
particularly on the part of government authorities. It is also known
according to other 3 terms such as “freedom of expression,” or in