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1.1 - Ibn Abd al-Wahhab: il “risveglio” religioso del secolo XVIII
Il primo vero e proprio “risveglio” si ritrova nel pensiero di Muhammad Ibn Abd al-
Wahhab (1703-1792), che opera in quello che è l’attuale territorio dell’Arabia Saudita.
Rifacendosi al giureconsulto medievale Ibn Taymyyia (preso ad esempio dalla maggior
parte dei pensatori del riformismo e del radicalismo islamico, se pur con diverse
interpretazioni), al-Wahhab afferma la necessità di tornare alle fonti pure della religiosità
islamica per rinnovare la società. Il suo successo è legato al destino della tribù più influente
nella penisola arabica alla metà del XVIII secolo, quella dei Sa’ud, con cui viene stipulata
un’alleanza che persiste ancora oggi e che prevede la spartizione equilibrata fra potere
politico (nelle mani dei regnanti) e potere religioso (nelle mani degli ulema legati ad al-
Wahhab ed ispirantisi al suo pensiero, oggi dominante in Arabia Saudita e che prende il
nome appunto di wahhabismo). Occorre precisare, d’altro canto, che il wahhabismo è una
dottrina puramente conservatrice, nient’affatto riformista onde per cui non può essere
annoverata tra quelle fondamentaliste stricto sensu. Queste infatti si pongono il problema
del Politico e, considerando cruciale per il declino dell’islam l’opera di separazione fra
Religione e Politica attuata dai detentori del potere nei Paesi musulmani nel corso dei secoli,
mettono in discussione il principio dell’autorità costituita. E’ questo l’aspetto discriminante
fra il wahhabismo e il pensiero fondamentalista. Ed è quest’ultimo che interessa la nostra
analisi.
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1.2 - Il riformismo salafita: la Rinascita 800esca
Le prime teorizzazioni che vanno in questo senso sono state formulate da pensatori
ottocenteschi di varia provenienza geografica, ma praticamente tutti operanti in Egitto,
appartenenti alla corrente che va sotto il nome di “Riforma” (islah). Le figure più autorevoli
sono Jamal al-Din al-Afghani (1838-1897), Muhammad ‘Abdu (1849-?) e Rashid Rida
(1865-1935). La soluzione data da questi al problema della decadenza islamica consiste
innanzitutto nel recupero dei valori che si ritengono persi, attingendo direttamente dalla
tradizione culturale islamica e rifiutando ogni contaminazione assiologia esterna (europea e
dunque cristiana, in particolare); la riscoperta dei valori deve avvenire mediante una
rivisitazione del pensiero filosofico arabo e persiano, riaprendo la porta dell’interpretazione
(ijtihad), per troppo tempo rimasta appannaggio degli ulema (Dottori della Legge); al fine di
ricostituire una società ove il primato spetti alla shari’a (Legge coranica) occorre, più che
una rivoluzione, un processo di riforma che richiederà tempi piuttosto lunghi. Il riformismo
salafita, cosiddetto poiché predica il ritorno ai pii antenati (salaf) compagni del Profeta
Maometto, manifesta un netto rifiuto verso il diritto consuetudinario, verso il marabuttismo
1
e nei confronti di qualsiasi forma di avvicinamento o conciliazione con altre religioni.
Centrale è la rivendicazione del diritto di interpretazione dei testi sacri, condito con la critica
serrata al ruolo degli ulema e dei faqih (giurisperiti), accusati di aver detenuto il monopolio
della materia religiosa, contribuendo alla chiusura dell’interpretazione. La riapertura
dell’ijtihad segna una rottura con dieci secoli di ortodossia. Sul piano politico il pensiero
salafita rimane tradizionale. E’ assente la condanna globale ai governanti musulmani
esistenti (aspetto invece centrale nei radicali contemporanei), con conseguente svalutazione
del ruolo dello Stato, il cui unico compito è quello di far applicare la shari’a. Va sottolineato
che «il pensiero salafita è ossessionato dalla ricostruzione dell’umma e in particolare dal
ripristino del califfato».
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1
Testualmente Olivier Roy in “L’échec de l’islam politique”, Coll. Esprit / Seuil, 1992 a pag. 49: «Il [il
riformismo salafita, n.d’a.] refuse, comme tous les réformismes fondamentalistes, le droit coutumier (‘adat,
‘orf), le maraboutisme (croyance aux puovoirs d’intercesion de certains individus dotés de la barakat, ou
charisme divin) et le rapprochement avec d’autres religions». Questi individui dotati della baraka sono detti
“marabutti”, da cui il nome della credenza. Tale credenza è frequente tra le confraternite muridi dell’Africa
centrale e maghrebina.
2
Olivier Roy, “L’ échec de l’islam politique”, op. cit., pag. 50.
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Il pensatore di più antico riferimento nella corrente islamista è il giurista medievale
Ibn Taymyyia (1263-1328). Potremmo dire che il nucleo centrale della sua analisi
rappresenta una sorta di presa di distanze dal pensiero di un autore a lui antecedente: il
filosofo e teologo Abu Hamid Ghazali (1058-1111). Quest’ultimo elabora la posizione
cosiddetta “quietista”. Di fronte all’invasione dei turchi selgiukidi egli si fa interprete del
versetto coranico «la fitna è peggio dell’uccidere» nel senso che al conflitto che può
distruggere l’intera comunità dei credenti è preferibile l’ordine ingiusto (che pur essendo
tale, rappresenta un male minore). Il quietismo prevede, in definitiva, la rinuncia al diritto di
resistenza contro il sovrano “empio”, cioè colui che non applica i dettami della Legge
coranica. Contro questa posizione, con la quale si potrebbe molto sinteticamente spiegare il
declino della cultura islamica contro cui si batte il movimento islamista, si colloca appunto
l’opera di Ibn Taymyyia. Egli si oppone al potere dei mongoli, invasori e convertiti in
seguito all’islam, che hanno deciso di applicare la yasa (il loro diritto consuetudinario)
poiché ritiene che il dovere del sovrano sia di rendere la propria autorità legittima attraverso
l’osservanza della Legge divina; è giusto quindi praticare il jihād (combattimento sulla via
di Dio) contro il governante empio.
1.3 - I Fratelli Musulmani egiziani: nasce il fondamentalismo islamico contemporaneo
I Fratelli Musulmani (Ikhwan al Muslimun) sono il primo gruppo a porsi il tema
dell’islam politico. Alla stregua del riformismo salafita, questi ritengono necessario il
ritorno alle fonti (Corano e Sunna), richiedono tassativamente l’applicazione della shari’a e
rivolgono una critica serrata a ulema e faqih. La differenza sta nel fatto che mentre la
Riforma rimane un movimento elitario, i Fratelli Musulmani divengono movimento di
massa. Il movimento di al-Banna manifesta un netto rifiuto verso i modelli occidentali,
considera indispensabile per la fondazione dello stato islamico una profonda modifica delle
coscienze di ciascun individuo e ritiene centrale l’appello (da’wa) all’islam, la
reislamizzazione della società.
L’obiettivo di al-Banna è quindi quello di operare un attento lavoro di islamizzazione
della società, finalizzato, una volta mutate le coscienze degli individui, all’accesso al potere
per imporre un modello di Stato ispirato alla Legge coranica. Al-Banna sostiene che l’Islam
è un sistema totale che contempla «tutto quanto concerne l’uomo in questo mondo e
nell’altro…l’islam è fede e culto, patria e nazionalità, religione e Stato, spiritualità e azione,
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Libro e spada».
3
L’attività di docente di scuola elementare e i contatti con la gente nella
stessa città di Ismailiyya accrescono la sua convinzione sull’esigenza della predicazione: in
breve tempo la sua figura acquisisce una straordinaria popolarità che, peraltro, è trasversale
alle diverse classi sociali del piccolo centro egiziano. Il progetto, ancora, è quello di «dare
vita ad una microsocietà islamica all’interno della più grande società egiziana, secolarizzata,
corrotta e occupata dagli inglesi».
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Nel programma di al-Banna ci sono la creazione e la
gestione di scuole coraniche, mediante cui curare un progetto di educazione culturale e
religiosa dal basso.
La presenza degli inglesi in Egitto e negli adiacenti territori palestinesi è fondamentale
per l’evoluzione del pensiero di al-Banna – ed in generale dell’islamismo – in senso anti-
occidentale e anti-sionista: nel 1936, volontari dei Fratelli Musulmani vengono spediti nei
territori palestinesi per prendere parte alla rivolta contro i coloni ebrei e gli stessi inglesi. Al-
Banna definisce lo scontro jihād. Nel 1948 un altro gruppo di Fratelli musulmani combatte
nel primo conflitto arabo-israeliano.
E’ risaputo che «la vittoria degli israeliani e la fondazione dello Stato di Israele
passano alla storia come la nakba, la catastrofe cioè l’espulsione dai luoghi sacri».
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La colpa
viene attribuita al “governante empio”, reo di essere divenuto complice delle potenze
coloniali dell’Occidente.
Nel frattempo, nel 1944, al-Banna si candida alle elezioni parlamentari e viene eletto.
E’ ormai divenuto un personaggio dall’alta caratura politica e religiosa.
Nel dicembre 1948 un militante dei Fratelli Musulmani uccide il primo ministro al-
Nuraqshi: questi non agisce per conto dell’associazione, tuttavia la stessa viene ritenuta
responsabile. Due mesi dopo, nel febbraio 1949, al-Banna viene assassinato dai servizi
segreti. L’associazione rimane in piedi nonostante il duro colpo e decide di unire le sue forze
agli “Ufficiali Liberi” di Nasser con cui partecipa alla rivoluzione del 23 luglio 1952, in
seguito alla quale questi prende il potere. Rovesciando la monarchia di re Faruk, la
Fratellanza percepisce tangibile il suo piano di islamizzazione della società ma questo cozza
con il progetto del nuovo raìs, progetto che ha una ispirazione nazionalista e non islamista.
Inizia un periodo di tensioni interne e di conflitto ideologico che si conclude con un fallito
3
«Messaggio al V Congresso», Courant actuel dans l’Islam: les Frères Musulmans, n. 61, 1981-1982, p. 35.
4
Enzo Pace, “Sociologia dell’islam”, ediz. Carocci 2004, pag. 180.
5
Roberto Balducci, “La bomba Hamas. Storia del terrorismo islamico in Palestina”, Datanews, Roma 2006,
pag. 16.