INTRODUZIONE
Kujifungua è il verbo swahili utilizzato per indicare il partorire, e significa aprirsi:
un'apertura simbolica, ma anche letterale, della donna alla vita.
Questo lavoro nasce da un interesse di lunga data nei confronti del corpo
femminile e della maternità, dimensione propria esclusivamente alla donna e che ha
sempre spaventato il mondo maschile, il quale nei secoli e nelle diverse società ha
cercato in vari modi di controllare e gestire la sessualità femminile. Non occorre
andare molto lontano per accorgersi come, all'interno dello stesso sistema medico
occidentale, la gravidanza e il parto siano gestiti e controllati da medici (e non più
levatrici) molto spesso uomini, in quanto decennali politiche/questioni di genere
hanno consentito l'accesso allo studio della medicina solo agli uomini.
Sovente la capacità della donna di dare la vita è stata considerata come
intrinseca, e la donna è stata “ridotta” a questo aspetto generativo, ai suoi organi
riproduttivi. La cultura occidentale affonda le sue radici in tale concezione del
femminile; Ippocrate, nel suo corpus medico, indica la fonte di tutti i disturbi femminili
nell'utero che, “vagando” all'interno del corpo, crea squilibri e malattie, ed è solo con
la gravidanza che si realizza la condizione di normalità per la donna: il suo utero,
giustamente appesantito, è finalmente fermato. Non a caso il termine isteria
(malattia che è stata considerata per secoli – e forse nell'immaginario collettivo lo è
tuttora – prettamente femminile) deriva dal greco ustera (ὑστέρα), utero.
Durante la gravidanza e il parto, le componenti maschile e femminile si
intrecciano, si mescolano, in molte società la partoriente cambia status, per cui nel
momento di massima femminilità viene assimilata al mondo maschile. Ancora una
volta gli esempi rintracciabili nella storia e nello spazio sono molteplici, attingendo
nuovamente al mondo greco emergono una serie di parallelismi tra il guerriero
valoroso e la partoriente così, a Sparta, si usava scrivere il nome solo sulle tombe
degli uomini morti in guerra e delle donne morte di parto.
Questo era il mio background, il passaggio dall'antica Grecia ad un ospedale
africano può non sembrare immediato, ma in realtà a cambiare sono solo le variabili
temporale e spaziale. Il mio interesse si è in un certo senso concretizzato, mi sono
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focalizzata sul parto, non più tanto come momento simbolico quanto come pratica
fisica, corporale. La scelta di un ospedale africano è legata ad una duplice
motivazione, da una parte una curiosità personale nei confronti del mondo africano e
della Tanzania in particolare, dove ho vissuto il mio primo anno di vita, d'altra parte
una scelta “scientifica”, che mi ha portato ad eleggere proprio l'ospedale di
Tosamaganga, nei pressi del villaggio di Ipamba, come terreno di ricerca. Un
ospedale africano ha di più interessante, rispetto ad un ospedale occidentale –
almeno dal mio punto di vista – il fatto che la biomedicina sia stata introdotta nel
contesto locale relativamente di recente, trovandosi quindi a rapportarsi con un
sistema medico già esistente, complesso ed efficace, impersonato nelle figure dei
guaritori. La biomedicina, appoggiata dal potere coloniale, ha a volte ostacolato o
soppiantato le pratiche antecedenti, ma si sono anche creati notevoli fenomeni di
coesistenza e forme ibride, in un gioco di continua appropriazione e ri-creazione
identitaria. Il mio presupposto era che vi fossero tracce della medicina e dello
schema interpretativo locale, pur in un contesto apparentemente occidentale, come
può essere un ospedale. Apparentemente poiché, come è emerso, anche l'ospedale
si trova al centro di una duplice influenza, quella della medicina occidentale (che
spesso esporta i suoi modelli peggiori) e quella della medicina locale (che è
fondamento del modus agendi in molte situazioni). Ritenevo, quindi, che in un
contesto di continua negoziazione fosse particolarmente interessante andare ad
indagare il parto, così denso di significati e rimandi al sistema di conoscenze e
credenze locali. Il parto è spesso percepito come potenzialmente pericoloso, un
momento in cui il confine tra vita e morte si assottiglia, ed è facile subire attacchi di
potenze esterne o di stregoni. Indagando la realtà del parto in un ospedale intendevo
quindi esplorare anche questa dimensione, riscontrare se fosse ancora presente in
un contesto medicalizzato da molti anni (circa cinquanta) o se l'influenza biomedica
avesse in qualche modo modificato questo tipo di percezione. Infine, la scelta
dell'ospedale di Tosamaganga in particolare, era legata al fatto che qui, dal 2012,
l'ONG Medici con l'Africa Cuamm, a cui mi sono appoggiata, ha avviato un progetto
quinquennale, Prima le mamme e i bambini, volto ad incrementare la salute materno-
infantile.
La ricerca si è via via costruita intorno all'oggetto principale, il leitmotiv che la
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percorre interamente: il parto, come pratica corporale. L'obiettivo dell'indagine mirava
a comprendere come le donne del villaggio, e quelle che venivano da lontano per
partorire, percepissero il parto, se fosse pericoloso o meno, perché avessero scelto
di partorire in ospedale e come interpretassero un eventuale evento avverso. Queste
domande hanno aperto il campo ad un'esplorazione più ampia, che mi ha portato ad
affrontare il tema della stregoneria, dell'attribuzione di colpa e del “senso” del male, il
tutto con un'attenzione particolare alla dimensione sociale. Questi tre elementi sono
profondamente intrecciati tra loro e concorrono insieme a risolvere il problema
fondamentale dello spiegare la disgrazia, per poterla accettare e superare. Ogni
società (e ogni individuo) elabora i propri modelli culturali di reazione e spiegazione
del male e, durante la mia permanenza sul campo, mi sono proposta di capire quali
fossero quelli delle donne di Ipamba. Ma ogni società elabora anche la propria
concezione di malattia e di terapia. Ampio spazio ho dedicato quindi alla medicina
locale, leggendola come un elemento in equilibrio precario tra contrapposizione e
coesistenza con il sistema biomedico. In molti sistemi medici locali africani la malattia
è considerata come una rottura dell'ordine, ed è sulla dimensione sociale e personale
che i guaritori agiscono. Il sintomo, diversamente dal sistema biomedico, è
completamente slegato dalla diagnosi e dalla terapia. Visto l'oggetto della mia
indagine, il male e la sofferenza erano rappresentati dai rischi legati al parto per la
vita della madre e del neonato. È emerso come la dimensione materna sia più
significativa in relazione al periodo precedente, mentre quella del neonato seguente,
il parto. I l parto in sé riveste un duplice interesse, in rapporto alle aspettative e ai
timori delle partorienti e sul piano medico-ostetrico. Ho affrontato il parto da due punti
di vista, quello etico e quello emico: utilizzando anche i dati delle cartelle cliniche
delle donne che hanno partorito tra gennaio e aprile, raccolti da due ostetriche
italiane, ho analizzato i concreti rischi medici, relazionandoli con i rischi percepiti
dalle partorienti.
In questo continuo intrecciarsi di dimensioni, anche il neonato ricopre una
posizione importante, su due piani principali: quello della mortalità perinatale e
infantile (e dunque legato ad un discorso medico ma anche sociale e culturale), e
quello delle pratiche intorno al suo corpo (ad esempio l'allattamento o il taglio del
cordone ombelicale).
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Nel complesso ho adottato un approccio descrittivo, ogni sezione è
interdipendente, e vi è un continuo dialogo tra la mia esperienza etnografica, le
etnografie di altri che si sono confrontati con tematiche analoghe, e la letteratura
antropologica, cercando di non perdere di vista l'oggetto della mia indagine: la
gravidanza e il parto nell'ospedale di Tosamaganga.
Metodologia
La mia esperienza sul campo ha avuto luogo tra aprile e giungo 2013 a Ipamba,
un villaggio della Tanzania centro-occidentale, a circa quindici chilometri da Iringa,
una città piuttosto grande (con poco più di 100.000 abitanti). Adiacente al villaggio vi
è l'ospedale di Tosamaganga, che prende il nome dalla vicina missione, fondata
subito dopo la conquista tedesca da monaci benedettini (1896) per poi passare sotto
la responsabilità dei padri missionari della Consolata (1923). L'ospedale è di
proprietà della diocesi del distretto di Iringa ma, di fatto, è gestito da tre enti: la
diocesi stessa, il governo tanzaniano e Medici con l'Africa Cuamm, a cui mi sono
rivolta per avere un appoggio logistico. Medici con l’Africa Cuamm è una ONG di
Padova che opera in sette paesi africani con interventi a lungo respiro in ambito
medico. Dal 1968 è presente nell'ospedale di Tosamaganga e ha edificato una guest
house, dove una volta venivano ospitati i medici e gli infermieri espatriati nei primi
mesi di permanenza in Tanzania. Non avevo un ruolo ufficiale nei confronti della
ONG, prima di partire avevo chiesto alla sede centrale di poter alloggiare nella guest
house e frequentare l'ospedale, richieste che mi sono state accordate facilmente. Il
mio progetto originario quindi prevedeva di trascorrere molto tempo in ospedale,
esplorando anche la questione dell'efficacia dell'operato del Cuamm nel contesto
locale, soprattutto in relazione al progetto Prima le mamme e i bambini. Tuttavia, una
volta arrivata in Tanzania ho incontrato alcune difficoltà a frequentare l'ospedale con
l'assiduità necessaria: alcuni, tra il personale espatriato, si sono dimostrati diffidenti
se non francamente ostili al mio lavoro. Pertanto ho deciso di modificare il mio
progetto spostando l'attenzione dall'ospedale al villaggio: pur continuando ad
accedere al Reparto di Maternità (anche se sporadicamente), ho smesso di
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frequentare la sala parto, dove la mia presenza era ai limiti della liceità, sebbene
chiedessi sempre il permesso di trattenermi e assistere ai parti alla caposala o
all'assistant medical officer presente.
Un ulteriore problema che ho dovuto risolvere è stato quello linguistico, non tanto
per la mia ignoranza della lingua locale, quanto per la difficoltà di trovare un
interprete. In Tanzania si parlano lo swahili, l'inglese e svariate lingue locali, nella
zona di Iringa lo hehe. Avevo cominciato a studiare lo swahili prima di partire, e ho
poi continuato con un maestro tanzaniano, ma la mia padronanza linguistica, anche
alla fine della permanenza, non mi permetteva di gestire conversazioni complesse.
Dello hehe ho imparato solo le formule di saluto. Era comunque previsto che avessi
un interprete, tuttavia è stato difficile trovare qualcuno di adatto. Relazionandomi con
donne e partorienti, volevo che il mio accompagnatore fosse una donna, ma nel
villaggio le ragazze, e le donne in generale, hanno una conoscenza limitata
dell'inglese. Le infermiere lo parlano meglio, a vari livelli di competenza, ma sono
risultate molto poco disponibili nei miei confronti. E comunque preferivo che non
fosse una figura con una posizione ufficiale, essendo l'oggetto della mia indagine
legato anche alla competenza medica. Alla fine ho scelto un ragazzo, Jeremy, con
una buona padronanza linguistica e molto tempo libero. Tuttavia, come sono venuta
a sapere più avanti, suo padre nel villaggio è considerato un potente stregone, per
cui mi è sembrato poco opportuno fare domande sulla stregoneria con lui presente.
Ho ovviato al problema utilizzando, quando necessario, altri interpreti.
I miei incontri sono stati a volte casuali a volte organizzati. Il primo periodo l'ho
trascorso conversando liberamente con le persone che incontravo nelle mie
esplorazioni del villaggio, alcuni si sono rivelati più socievoli, altri meno. Una volta
instaurata una rete di conoscenze ho cominciato ad approfondire l'oggetto della mia
indagine con le donne che mi erano sembrate più disponibili, e con esperienze più
interessanti, anche se non tutte hanno accettato di accordarmi un incontro. All'inizio
registravo le conversazioni (chiedendo il permesso) ma mi sono presto resa conto
che il discorso era molto frenato, meno fluido, le mie interlocutrici si chiudevano e
mostravano disagio. Ho quindi abbandonato il registratore, prendevo semplicemente
appunti. Molti degli spunti più interessanti mi sono giunti da conversazioni casuali,
non programmate. In appendice la trascrizione fedele delle conversazioni che ho
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avuto.
Letteratura di riferimento
Nella mia indagine ho incrociato molti ambiti e tematiche, non ho seguito una
prospettiva particolare, ho ricavato spunti da vari autori, di diverse epoche storiche e
correnti antropologiche, pur restando la mia visione generale fondamentalmente
legata a Geertz e all'antropologia interpretativa. Per quanto riguarda la tematica del
rischio, ho fatto riferimento essenzialmente a Douglas, Lupton e Ligi. Sulla
stregoneria invece gli autori di riferimento sono stati Evans-Pritchard e Bellagamba.
Sull'interpretazione del male e il problema del senso mi sono richiamata soprattutto
ad Agué, Herzlich e ancora Douglas per l'attribuzione di colpa. Remotti è stato utile
sia dal punto di vista teorico più generale sia per la parte etnografica, assieme ad altri
africanisti come Allovio e Micheli e autrici che hanno svolto ricerche analoghe alla
mia, come Allen ma soprattutto Holten. Per la parte più prettamente legata
all'antropologia medica rimando a Quaranta e Pizza, per questioni inerenti alla
maternità a Quattrocchi e Ranisio.
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