7
1.1 RAPPRESENTAZIONE
«Non esisto: dunque sono. Altrove. Qui»
3
.
Qui. In una scena dove sta l’artefice – e non l’attore. Dicono i critici: Carmelo Bene non è
attore, poiché non interpreta che se stesso. Diversamente, i grandi attori tramutano, trasfigurano
se stessi in personaggi altri, col solo aiuto di un costume e di parole prestabilite, impresse in un
copione mandato a memoria – vissuto?
In scena, interpretare è una particolare postura mentale che cerca di mediare attraverso il teatro delle
situazioni estranee come il voler rappresentare e il voler comunicare. Interpretare, decade nelle
ristrettezze e nei lavori forzati della filologia che confluiscono generalmente nella pre-testualità e da
qui nasce l’equivoco del regista, dell’attore, del critico e della drammaturgia, attraverso le clausole di
una convenzione che non cessa di legiferare, non facendo poi altro che «riferire» una umanità
condizionata e massacrata altrove […] Interpretare significa inserirsi in una pratica del senso che si
serve degli strumenti disponibili come di un alfabeto sempre chiuso in se stesso, come un linguaggio
capace tutt’al più di estrinsecarsi in metafore e codici ossessivi, e dunque ripetuti come una coazione.
4
Interpretare è essere «non-morto», Vampiro-Attore, che si adatta al poverismo della
rappresentazione, riducendosi ad imitare «gli arroganti, improvvisati ego-guitti spettatori»
5
.
Ovvero, come dice Lacan, «i meriti della messa in scena sono grandi […] ma non dimentichiamo
che sono così importanti solo per il fatto che, se mi permettete questa libertà di linguaggio, se il
nostro terzo occhio non si eccita abbastanza – lo si masturba un po’ con la messa in scena»
6
.
Il mio disprezzo per l’attore contemporaneo è qui nella sua tanto ricercata simulazione, nel suo
elemosinare una sciagurata attendibilità; nella sua ormai troppo provata incapacità di rimettere in
gioco ogni sera il modo stesso di far teatro; nel suo terrore imbecille d’autoemarginazione; nel suo
noioso cicalare di «crisi del teatro» e perciò mai tentato abbastanza dal valzer d’un teatro della crisi;
nella sua tecnica (se mai così può definirsi un limite penoso) esclusivamente maschia.
7
La rappresentazione è vana, come vano è il teatro che vorrebbe fingersi altro, ed occultare la
crisi fondamentale implicita nell’attore-hypokrités: quella del soggetto. L’attore, insomma, non
può far altro che interpretare continuamente se stesso.
Re-praesentare o inter-pretari. Porsi dunque come ri-evocatore, presupponendo un passato,
un qualcosa che già è successo e che si ri-propone come – peraltro utilissimo – esercizio di
memoria, oppure farsi mediatore di qualcosa che non-mai è successo, e che avviene ora-qui,
nell’inumano istante, e qui si sgretola e non sarà?
Carmelo Bene non sceglie la via della rappresentazione, e il suo «se stesso», come già visto,
sulla scena non può esistere, e però, comunque, è. Nel teatro del non-rappresentabile «il
soggetto-Attore è tale in quanto attore non è»
8
. Solo così esso diventa infinito: «È l’infinito della
mancanza di sé»
9
, mancanza che riguarda tutta l’esistenza, che è un venir meno. Il teatro –
l’unico possibile teatro – si dà nel malessere dell’attore, nella conflittualità interiore tra il non
essere dell’attore ed il ri-emergere – sic! – della volontà di rappresentare. «Non ci si può esibire
3
BENE, La voce di Narciso, cit., p. 995.
4
JEAN-PAUL MANGANARO, “Drammaturgie” di Carmelo Bene (un attore senza spazi), in Per Carmelo Bene,
cit., p. 110.
5
BENE, La voce di Narciso, cit., p. 999.
6
Cfr. CAMILLE DUMOULIÉ, Omaggio a Carmelo Bene, “poeta increato del soffio”, in A CB, Roma, Editoria &
Spettacolo 2003, p. 15.
7
BENE, Autografia d’un ritratto, in Opere, cit., p. XXV.
8
BENE, La voce di Narciso, cit., p. 999.
9
Ibidem.
8
nello stesso teatro dove si è di scena»
10
. Carmelo Bene è in scena ma vorrebbe non esserci.
Manda sempre la sua controfigura… Vorrebbe poter sparire, negarsi, togliersi di scena. Il
contrasto si riassorbe in un Uno. Non è questione di narcisismo se il protagonismo diviene totale:
«l’esposizione sulla scena del suo mal-essere non è che l’effetto o il residuo di chi si è assunto il
peso e la responsabilità di un non-essere che è il vero, unico dramma»
11
.
È così che il non-attore si trova nel vuoto teatrale. A monologare, cioè a sospendere il
dialogo. Ma come ottenere tale sospensione?
Recitare a nessuno (e comunque mai rivolti al partner di turno).
Come i pazzi, appunto.
Gelosamente custodire (esibire-nascondere) i propri gesti.
Smontare la frase, la parola stessa; disorganizzare la sintassi.
Affidare il suono alla strumentazione fonica.
Espropriare la dizione dal palcoscenico delle patibolari abitudini del «già sentito», disattendendola nel
volume dell’amplificazione elettronica. (Il concerto-dialettico della scena di «prosa» è risibilmente
disertato anche dall’«umorismo involontario»).
12
Il copione non va inteso come un botta e risposta di battute dette in prosa, ma come partitura
musicale. E questo non svilisce certo la concezione dell’attore, ma anzi, da una condizione di
artigianato la porta ad un livello maggiore, quello della creazione. Il teatro non ha bisogno di
interpreti, ma di poeti; meglio, il non-attore si muta in artefice-operatore, perfetta fusione tra
attore critico e istrione-cabotin
13
. Cabotin inteso come commediante nella sua padronanza
tecnica, che pone ostacoli ed intralci. Si crea uno stato di variazione continua, gli stessi ostacoli
ed intralci creati dall’attore nella sua lingua sono quelli presenti sulla scena. Deleuze parla di «un
lavoro “d’impedimento” sulle cose e i gesti (costumi che ostacolano i movimenti invece di
assecondarli, accessori che intralciano lo spostarsi, gesti troppo rigidi o eccessivamente
“fiacchi”)»
14
.
Bene dice che i suoi sono «saggi critici», che non vengono scritti ma agiti. Ma in che modo?
Non si tratta di «criticare» Shakespeare, né di un teatro nel teatro, e tanto meno di una parodia o di una
nuova versione dell’opera shakesperiana eccetera… Bene procede diversamente, ed è più nuovo. […]
Non procede per addizione, ma per sottrazione, per amputazione. […] Per esempio, amputa Romeo,
neutralizza Romeo nell’opera originaria. Allora tutta quanta l’opera, dato che le manca adesso un
pezzo scelto non-arbitrariamente, forse oscillerà, girerà su se stessa, poggerà su un altro lato.
15
Si fa in modo che le parole cessino di essere «testo». Si sperimenta ciò che può rimanere dopo
aver sottratto questi elementi. E cosa rimane? Rimane meno del testo di partenza. Ovvero rimane
un testo minore. Ancora Deleuze sottolinea:
Bene s’interessa molto alle nozioni di Maggiore e Minore. […] Bene dice anzitutto che è stupido
interessarsi all’inizio o alla fine di qualche cosa, a dei punti di origine o di termine. Ciò che è
interessante non è mai il modo in cui qualcuno comincia o finisce. L’interessante è in mezzo, ciò che
succede nel mezzo. […] E il centro, non vuol dire affatto essere nel proprio tempo, essere del proprio
tempo, essere storico; al contrario. È ciò per cui i tempi più diversi comunicano. Non è né lo storico,
né l’eterno, ma l’intempestivo. È proprio questo, un autore minore: senz’avvenire e senza passato, ha
solo un divenire, un centro attraverso cui comunica con altri tempi, altri spazi. […] È come se ci
10
Ivi, p. 1016.
11
PIERGIORGIO GIACCHÈ, Carmelo Bene – antropologia di una macchina attoriale, Milano, Bompiani 1997, p. 51.
12
BENE, La voce di Narciso, cit., p. 1002.
13
Cfr. GIACCHÈ, Carmelo Bene, cit., p. 49.
14
GILLES DELEUZE, Un manifesto di meno, in Per Carmelo Bene, cit., p. 205.
15
Ivi, p. 193.
9
fossero due operazioni opposte. Da un canto si eleva a «maggiore»: di un pensiero si fa una dottrina,
di un modo di vivere si fa una cultura, di un avvenimento si fa Storia. […] Allora, operazione per
operazione, chirurgia per chirurgia, si può concepire l’inverso: in che modo «minorare» (termine usato
dai matematici),
in che modo imporre un trattamento minore o di minorazione, per sprigionare dei divenire contro la
Storia, delle vite contro la cultura, dei pensieri contro la dottrina, delle grazie o delle disgrazie contro
il dogma.
16
In questo modo si arriva a comprendere più a fondo l’operazione di Bene. La variazione
continua, gli ostacoli posti ai movimenti, ai gesti ed alle parole stesse, sono necessari per
sottrarre dall’evento teatrale la rappresentazione, che – sic! – rappresenta gli elementi di Potere,
di maggioranza. Ossia rappresenta il Maggiore, che è proprio ciò contro cui l’intempestivo, il
«minore» Bene si scaglia. Con un intento che si può dire, infine, politico: quello di costituire una
coscienza di minoranza, da non intendersi come fatto elitario, ma come un impegno a divenire, a
«costituire la propria variazione intorno all’unità di misura dispotica»
17
, per sfuggire al sistema
di potere che costituisce ognuno come parte di maggioranza. La coscienza minoritaria, liberata
dalle interpretazioni imposte e dalle soluzioni a portata di mano, può sprigionarsi e trasformarsi,
finalmente, in luce.
Più si giunge a questa coscienza di minoranza, meno ci si sente soli. […] E sotto l’ambizione delle
formule, c’è il più modesto giudizio di ciò che potrebbe essere un teatro rivoluzionario, una semplice
potenzialità innamorata, un elemento per un nuovo divenire della coscienza.
18
16
Ivi, pp. 197-198.
17
Ivi, p. 215.
18
Ivi, p. 216.
10
1.2 OPERA
Quel che conta nell’ARTE non è il prodotto artistico, ma il PRODURSI dell’artefice in rapporto al
quale (qui Jacques Derrida è impeccabile) l’OPERA non è che una ricaduta residuale … un
escremento (nell’etimo) = ciò che si separa e cade … dall’organismo vivente … dalla vita! … l’Arte è
La Vita … come IRRIPETIBILITÀ dell’EVENTO … vivente una volta sola! …
E perciò l’opera è il materiale morto … è il cadavere … evacuato dall’evento! … Il destino d’ogni
opera d’ARTE non è nell’OPERA = È ARTE … ALL’OPERA! … è il prodursi dell’artista che
trascende l’OPERA … (è la SENSAZIONE! che ci investe davanti alle tele di Francis Bacon) …
19
In contrapposizione, vorrei citare Federico Fellini:
[…] io ho questa diffidenza, questa resistenza a pormi tra il pubblico e il film nel tentativo di dare
chiavi di lettura o interpretazioni, spiegazioni; mi sembra di togliere al film il suo fascino più segreto,
che è quello appunto di apparire diverso a ciascun singolo spettatore. […] Preferirei, appunto, che il
film parlasse, comunicasse ai livelli consci o inconsci, il suo messaggio, i suoi miti, la sua favola,
quello che vuol dire, nella maniera più diretta.
20
Il quesito che si pone riguarda il contrasto tra artista ed opera nella creazione – se di creazione
si può davvero parlare. In entrambe le opinioni, l’opera viene intesa come qualcosa che si stacca
dall’artista, e comunque qualcosa dentro cui l’artista necessariamente deve morire. Meglio, non
esserci. Le due opinioni si differenziano nel momento in cui si deve decidere «da che parte stia
l’arte».
Ad ascoltare Flaubert e le sue invettive in punto di morte contro Emma Bovary, si dedurrebbe
che l’opera sopravviva all’artista senza avvertirne la necessità, e diventi la vera arte. Da qui si
può arrivare a ritenere che l’artista sia solo un mezzo tramite cui l’opera si manifesta (tramite
ispirazione?), e che sia alla fin fine solo un caso che chi crea sia questo artista e non un altro.
Altro potrebbe semmai essere il luogo in cui le opere esistono prima di manifestarsi, ovvero
prima di scegliere da chi farsi mostrare.
Di questa opinione è anche Pirandello:
Essi [i personaggi] si sono già staccati da me; vivono per conto loro; hanno acquistato voce e
movimento; sono dunque già divenuti di per se stessi, in questa lotta che han dovuto sostenere con me
per la loro vita, personaggi drammatici, personaggi che possono da soli muoversi e parlare; vedono
già se stessi come tali; hanno imparato a difendersi da me; sapranno ancora difendersi dagli altri.
21
L’opera non solo sopravvive all’artista, ma anche lo trascende, fino a non aver più nulla a che
fare con lui. Sarebbe dunque un vano concetto l’autorialità, ancora difeso da qualche società
degli autori ed editori, da ministeri ed oscuri musei che parlano dello stile di un autore attraverso
le opere che egli non ha creato, le quali sussistono tranquillamente alla morte corporale di colui
tramite il quale si sono mostrate.
Breve parentesi. È forse per il timore e la consapevolezza di non essere immortali che per anni
alcuni non-artisti hanno proposto opere degradabili, che comunque non avrebbero potuto loro
sopravvivere perché si sarebbero disfatte prima. Così l’illusione d’arte che si è esposta non è
riuscita neppure a superare la materialità umana. Non è dunque un caso che molti critici abbiano
parlato di morte dell’arte. Certo: l’arte non può che morire quando la si appronta già con l’odore
di putrefazione (anche se un discorso unitario è impossibile, e pare che, oggi, ci siano segnali di
vita)…
19
BENE, Quattro momenti su tutto il nulla – momento quattro (arte); il testo è disponibile sul sito
http://www.lostraniero.net/aprile02/bene.html.
20
Le favole di Fellini – Diario ai microfoni della Rai, Roma, Rai Eri 2000, p. 132.
21
LUIGI PIRANDELLO, Sei personaggi in cerca d’autore, in Le opere, Milano, Mondadori 1985, p. 561.
11
Ma torniamo al nostro discorso.
L’opera d’arte – quando è vera arte – secondo questa opinione è quella che ha maggior
rilevanza nel mistero creativo. L’artista è secondario.
Non la pensa così Bene.
«Non si dà capolavoro d’arte. Fuor dell’opera, si è capolavoro»
22
. Secondo Bene l’opera non
è che «escremento» (in questo, Piero Manzoni è impeccabile). Certo, questo non è possibile per
il talento – che fa quello che vuole – ma solo per il genio – che fa quello che può –, per il genio
che eccede le proprie opere, poiché solo l’atto dell’esecuzione artistica può essere considerato
Arte. «Quanto è veramente geniale e artistico si trova nel DUCTUS … nel gesto della firma, più
che in ciò che resta della firma …»
23
. L’artista ancora una volta è artefice e non autore. L’Arte è
Vita; tutto ciò che non è vitale non può essere considerato artistico. L’opera quindi, se anche
resiste alla morte dell’autore, non gli sopravvive, giacché ha smesso di aver vita nel momento
stesso in cui è stata realizzata. E questo determina che secondo Bene sia l’opera ed essere
secondaria.
Forse è un poco ozioso schierarsi da una parte o dall’altra, come se fosse possibile pensare di
risolvere in modo drastico un problema tanto dibattuto, e come se la scelta decisiva potesse
ridursi alla distinzione tra «arte come artista» e «arte come opera».
In tutto questo bailamme si rischia di dimenticare che, approfondendo un poco la riflessione,
ciò che davvero rimane non sta nell’opera e nemmeno nell’artista, ma nell’idea. L’idea che ha
generato l’opera – forse anche l’artista –, l’idea che si espande anche oltre il limite fisico
dell’opera e del corpo. L’idea – ad esempio – di Otello, che diviene paradigmatica della gelosia
anche per chi non conosce assolutamente la vita di Shakespeare né ha mai letto una riga del suo
testo originale, o del sorriso della Gioconda, tanto dibattuto anche da chi non è mai stato a Parigi.
L’idea. L’idea che scavalca l’hic et nunc di creatore e creatura e diventa, essa sì davvero,
intempestiva.
E dunque, se è questo ciò che resta, a che serve interrogarsi se tale idea sia nata da un pensiero
umano, troppo umano, o se sia frutto di un’ispirazione proveniente da un qualche altro luogo che
non sia la quotidiana e così squallida, a volte, realtà? (Ah, la realtà…!)
Comunque, da tanti anni siamo abituati a studiare un autore come vita e opere, e la
convinzione comune è che le due cose siano assolutamente inscindibili. Si dice che non si può
comprendere l’opera di un autore senza sapere tutto della sua vita, perché l’opera ne è infarcita.
E non è detto che non sia così.
È però evidente che l’ossequioso rispetto per una perlomeno dubbia autorialità può, nei casi
estremi, condurre ad un’impossibilità d’azione nei confronti di un testo o di una qualsiasi opera.
Così la Gioconda non avrebbe mai potuto portare i baffi – e Bene non avrebbe mai potuto
ottenere i suoi «saggi critici»…
Bene, appunto. Ma se al contrario si nega ogni possibilità autoriale, come ci si può
riconoscere artefici? Van Gogh sostiene che «quando si dice: io non sono pittore, è allora che
bisogna dipingere!»
24
. E Bene? Che cosa ha fatto, o, almeno, che residui ha lasciato? Vediamoli:
squartamento del linguaggio e del senso nella discrittura scenica (de-composizione cartacea-orale-
musicale del testo)
disarticolazione del discorso succubo del significante
togliere di scena (contro la confezione cultuale della «messa in…»)
22
BENE, Autografia d’un ritratto, cit., p. XXXVII.
23
BENE, Quattro momenti su tutto il nulla, cit.
24
Ibidem.