4
classe politica incapace in tempo di pace di conservare quella forza, quel cari-
sma e quell’energia morale che sole avrebbero potuto completare l’opera di Vit-
torio Emanuele II, di Cavour e di Garibaldi.
Secondo Arcoleo la rivolta siciliana del gennaio ’48 «segna il preludio di un
movimento che si propaga nella Penisola e oltre le Alpi»
2
, fa insomma da punto
di riferimento per tutti gli insorti d’Europa, grazie all’unità, alla determinazione
e all’anelito di libertà del popolo insulare, che «volle per sé ogni stento e sacri-
ficio e affrontò sorridendo la morte». Nel giugno del 1860, bambino, vide pas-
sare le truppe garibaldine per le vie del proprio paese.
Il trasferimento a Napoli per intraprendere gli studi universitari presso la facoltà
di giurisprudenza lo misero a contatto con una realtà culturale vivacissima, che
alimentò in lui nuovi interessi presto capaci di spingersi molto al di là delle
stesse materie di studio. L’imponente figura di Francesco De Sanctis lo trascinò
impetuosamente nel gorgo delle discipline letterarie, al punto che già nel 1872
l’autore della celebre “Storia della letteratura italiana” si trovò a presentare uno
scritto di Arcoleo sull’autorevole rivista fiorentina “Nuova Antologia”. La for-
mazione letteraria influì moltissimo sulla forma e sulla sostanza dell’opera del
nostro autore, che, oltre ad una visione interdisciplinare delle tematiche affron-
tate, gli diede anche, come ci suggerisce Frosini
3
, una prosa agile ed elegante,
infarcita di metafore, assonanze, allitterazioni, e, addirittura, di una «costruzio-
ne architettonica dei rapporti concettuali». Non si tratta di un elemento determi-
nante per le considerazioni che servono a noi in questo scritto, ma aiuta certa-
mente a comprendere l’originalità e la dinamicità del personaggio. Questa for-
mazione lo trascinò anche inesorabilmente sul fronte storicistico, un metodo che
applicò nello studio dei problemi politici e di quelli giuridici.
Passato anche attraverso il punto d’osservazione del critico teatrale, incominciò
a trovare un po’ di notorietà nel 1881, quando pubblicò «Il Gabinetto nei go-
verni parlamentari», che gli valse il premio dell’Accademia Reale di Napoli per
la migliore monografia di diritto pubblico, sull’onda del quale ottenne la catte-
dra di diritto costituzionale prima a Parma e poi nella “sua” Napoli. Il suo in-
gresso nella cattedrale del diritto non gli impedì però di continuare ad occuparsi
di letteratura e di continuare a fondere le considerazioni tratte dai diversi punti
di osservazione.
2
Giorgio Arcoleo, Uomini e tempi, Milano 1932 - pag. 6
3
Vittorio Frosini, op. cit. a pag. 9 - pag. 11
5
Eppure lo spirito poliedrico di Arcoleo e la sua visione storicistica del divenire,
ove le idee, i conflitti, i rapporti e i sentimenti degli uomini influenzano ineso-
rabilmente lo Stato ed il diritto, finirono per scontrarsi con il pensiero della
scuola giuspubblicistica dominante, che aveva il volto e l’autorevolezza di Vit-
torio Emanuele Orlando. In tempi in cui la modellistica tedesca ed i teorici dello
Stato di diritto avevano iniziato a fare piazza pulita di tutte le teorie alternative
dello Stato e del diritto, facendo leva sul fascino esercitato dalla dogmatica e
dalla sua presunta scientificità, risultò inevitabile che un precursore della scien-
za politica e della complementarità delle scienze sociali come Arcoleo dovesse
finire in un cono d’ombra dal quale solo gli studi delle generazioni accademiche
successive alla Seconda Guerra Mondiale lo avrebbero sottratto. La scuola giu-
ridica di Orlando trovò terreno fertilissimo in un ambiente universitario ove lo
spirito critico verso il regime esistente, dipanatosi attorno alle ambiguità dello
Statuto Albertino, andò via via affievolendosi. Si trattò, in realtà, di un ombrello
protettivo che, chiamando i giuristi fuori dai rapporti fra Stato e società e quindi
fuori dalla politica, li tolse dall’impaccio di dover criticare una classe politica
sempre più incapace di rispondere alle necessità di una nazione in rapida evolu-
zione economica e sociale.
Ebbene Giorgio Arcoleo e Gaetano Mosca, con tutte le differenze che dividono
i due, furono forse gli unici nomi, che opposero un modello diverso (e perdente,
direbbero certamente i contemporanei) a quello formalistico di Vittorio Ema-
nuele Orlando e Santi Romano, il più tedesco dei giuristi italiani. Vittorio Fro-
sini
4
vede nella correlazione fra diritto pubblico e scienza politica,
nell’influenza delle forze sociali sugli istituti di diritto pubblico e nell’adozione
del modello inglese come stella polare del rinnovamento, i punti cardine del
pensiero alternativo e certamente non «politically correct», come si direbbe og-
gi, di Arcoleo e Mosca. Se si dovesse riproporre oggi il confronto fra le due cor-
renti probabilmente chi ne uscirebbe con le ossa rotte sarebbe la scuola giuridi-
ca, ma la dimostrazione di questa asserzione è proprio ciò che ci proponiamo di
fare strada facendo.
Oltre all’Arcoleo letterato e a quello giurista, vi fu anche l’Arcoleo giornalista e
parlamentare. Rappresentò ininterrottamente il collegio di Caltagirone dalla XV
alla XX legislatura, difendendo posizioni di centrosinistra, che a volte lo porta-
4
Vittorio Frosini, op. cit. a pag. 9 - pag. 13
6
rono a scontrarsi anche con intellettuali a lui molto vicini, come Gaetano Mo-
sca, assestato su posizioni decisamente più conservatrici. A questo proposito
Frosini
5
cita gli esempi del progetto di legge per l’istituzione del divorzio, so-
stenuto a spada tratta da Zanardelli e Arcoleo, ma osteggiato dai conservatori
come Mosca, e quello della riforma del Senato, pensato in chiave rappresentati-
va dall’allievo di De Sanctis, nella direzione di un rafforzamento della preroga-
tiva regia da Mosca.
Arcoleo fu anche senatore a partire dal 1902, dopo che si dimise con clamore
dalla Camera, nel 1900, in seguito ai provvedimenti autoritari presi dal governo
Pelloux nel periodo critico di fine secolo, quando il regime parlamentare arrivò
ad un passo dal trasformarsi in una dittatura vera e propria. All’interno dei go-
verni Di Rudinì trovò spazio come sottosegretario all’Agricoltura e Foreste.
Le ultime battaglie parlamentari le combatté per riformare la giustizia, in ap-
poggio ad un progetto dell’allora ministro guardasigilli Vittorio Emanuele Or-
lando, che portò all’istituzione del Csm, il primo passo verso una maggiore au-
tonomia della magistratura invocata da quasi cinquant’anni. Fece appena in
tempo a dolersi per lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, che avrebbe tra-
scinato nelle proprie macerie anche quelle dello Stato liberale italiano, prima di
morire a Napoli il 7 luglio del 1914.
II. I modelli tedeschi, dall’organicismo allo Stato persona
Comprendere l’idea di Stato proposta da Arcoleo e metterla a confronto con
quella dei principali giuristi italiani e stranieri del periodo, significa gettare le
fondamenta per capire le diverse concezioni di rappresentanza e le diverse pro-
poste formulate nella seconda metà dell’Ottocento per uscire dalla crisi dello
Stato liberale italiano. Capire che cosa si intende per Stato implica innanzitutto
capire dove sta la sovranità, capire quale margine di libertà e di decisionalità si
lascia alla società, capire fin dove i singoli individui possono influire sulle scel-
te dell’apparato statale e quanta forza di resistervi viene ad essi riconosciuta,
capire il flusso attraverso il quale si produce (o si riconosce) il diritto. Una volta
5
Vittorio Frosini, op. cit. a pag. 9 - pag. 15
7
fissate queste coordinate si potrà procedere all’analisi dei singoli organi dello
Stato, ben conoscendo i pilastri sui quali poggiano le diverse proposte.
Il nostro punto di partenza è la Germania, protagonista fin dalla prima metà del
secolo, quando ancora un vero e proprio Stato tedesco non esisteva,
dell’elaborazione di un modello che tanta fortuna avrebbe trovato in Italia. In
realtà parlare di un’unica proposta è quantomeno improprio, perché nel solco
della tradizione principale si sono scontrati diverse proposte e diversi approcci
metodologici, ma è indubbio che l’idea di uno Stato persona cui spetta l’ultima
parola su ogni aspetto della vita dei cittadini e che trova come limite al proprio
potere solo quell’argine che esso stesso discrezionalmente decide di darsi ha
trovato fra gli accademici tedeschi molti paladini., soprattutto dopo il 1871
quando Bismarck incominciò a costruire il proprio cancellierato forte.
Già nel 1802 Savigny rifiutava la politica, intesa come rappresentanza di inte-
ressi particolari e come proposta di trasformazione basata su una precisa visione
della storia e del mondo, come fondamento della legge
6
. Le regole che gover-
nano la vita di una società vengono dalla società stessa, che le produce fisiolo-
gicamente nella sua dinamica organica quotidiana, così come il corpo umano
produce i propri anticorpi o riproduce i propri tessuti senza un disegno preciso e
razionale dell’intelletto. Il vero diritto diventa allora quello privato, che nasce
spontaneo nelle relazioni di tutti i giorni per regolare la vita ed i rapporti fra gli
individui, quello pubblico può solo cercare di ispirarsi ad esso. La legge è un
prodotto della storia, non uno strumento per rispondere ai bisogni dei cittadini
come la corrente razionalista ancorata all’illuminismo della Rivoluzione Fran-
cese sosteneva senza troppa fortuna, contrapponendosi a Savigny, e lo Stato de-
ve limitarsi ad assicurare ai ceti il rispetto delle regole fondamentali, senza al-
cuna facoltà di influire sulla struttura stessa della società, già bastante a se stes-
sa. C’è molta fiducia nel divenire e nell’autosufficienza del “consorzio umano”,
in questa proposta, ma d’altra parte c’è anche una forte sottovalutazione dello
sviluppo economico in atto, della crescente tensione fra istituzioni e cittadini e
della progressiva inadeguatezza di questo Stato “leggero” di fronte alle forti
modificazioni in atto.
I più autorevoli oppositori di questa linea di pensiero “romantica”, destinata in
ultima istanza a legittimare la Restaurazione avviata dal Congresso di Vienna
6
Maurizio Fioravanti, Giuristi e costituzione politica nell’Ottocento tedesco, Milano 1979 – pag. 27
8
nel 1815, furono prima Friedrich Hegel e poi Lorenz von Stein. Entrambi sotto-
linearono con forza proprio questa nuova dinamicità e complessità della vita so-
ciale ed economica e con esse la necessità dello Stato di rinnovarsi e di porsi
come guida dello sviluppo e come regolatore delle dinamiche in atto. Il ruolo
che i suoi “colleghi” della scuola storica (Savigny e compagni, appunto) era as-
segnato agli intellettuali viene qui attribuito alle istituzioni, mentre compito de-
gli accademici diviene quello di fornire le conoscenze necessarie ai governanti
esplorando le nuove scienze sociali, strumento necessario per affrontare i pro-
blemi del nuovo sistema produttivo e dei nuovi conflitti in atto
7
. Vista
dall’esterno ed a posteriori sembrerebbe la svolta decisiva verso una concezione
più moderna della scienza e del diritto, invece non fu questa l’opzione che uscì
vincente dal dibattito.
Ed infatti, anche dopo il 1848, vediamo primeggiare personaggi come Ahrens, i
quali riaffermano la capacità della società di darsi le regole migliori e di darsi
un diritto in sé razionale ed organico. Lo Stato è quindi legittimo per il fatto
stesso di esistere, ma si tratta sempre, benché autoritario e privo di meccanismi
giuridici di legittimazione, di uno Stato che può fare solo da arbitro, mantenen-
dosi esterno alle vicende.
Fra la corrente “romanista” e quella “razionalista” iniziò a nascere anche una
corrente “germanista”, alimentata da giuristi più vicini allo Stato tedesco ed ai
suoi problemi di legittimazione che alle astrazioni dei predecessori. Il capofila
di questi innovatori fu Carl Friedrich von Gerber, un personaggio che acquistò
in breve grandissimo prestigio. Il suo punto di partenza è lo Stato tedesco, inte-
so come prodotto unico e straordinario della storia, come sintesi di diritto ro-
mano e razionalità, come punto di arrivo istituzionale per governare la moderni-
tà senza dover gettare la tradizione e l’armonia. Uno Stato nel quale non trova-
no spazio gli interessi personali, le ideologie e le istanze che pretendono di met-
tere sullo stesso piano incapaci e dotti. Uno Stato legittimo, perché prodotto
della straordinaria originalità della storia tedesca, la cui struttura e le cui regole
di funzionamento devono essere fissate dai giuristi attraverso una dogmatica
che risponde a criteri di pura razionalità. Il diritto diventa unicamente un pro-
dotto del lavoro di laboratorio, sganciato dalle istanze della politica proprio per
7
Maurizio Fioravanti, op. cit. a pag. 13 – pag. 83
9
sottrarlo ai condizionamenti delle ideologie, dei giudizi di valore e delle pro-
messe dei demagoghi.
Il più noto dei germanisti fu Bluntschli, debitore di Savigny quando sostiene
che lo Stato è un prodotto naturale del «Volk», frutto di un graduale processo
storico e non dell’arbitraria e contingente volontà dei consociati. A differenza
dell’illustre predecessore, però, egli non vede l’individuo impotente di fronte al-
la necessarietà del divenire storico, ma soggetto attivo in grado di modificare le
istituzioni rispondendo ai bisogni del popolo. Per dirla con le parole di Fiora-
vanti «…l’uomo non può modificare a proprio piacimento il contesto in cui vi-
ve, determinato dalle forze della tradizione, ma non per questo deve dichiararsi
impotente, rinunziando ad un qualsiasi ruolo attivo nell’ambito del processo
storico»
8
. Per Bluntschli non esistono problemi di rappresentatività delle istan-
ze popolari, perché lo Stato è già in sé un prodotto naturale della società e porta
già in sé la capacità di rispondere agli «input» provenienti dai ceti. Le associa-
zioni di cittadini perseguono interessi particolari e non devono avere un ruolo
dentro a questo sistema perfetto. L’unico limite posto al monarca e al suo Gabi-
netto, sganciati dalla dipendenza delle camere, è una Costituzione forgiata, pe-
rò, non secondo criteri di funzionalità o principi di legittimazione, ma traslando
nel campo del diritto lo status quo.
L’alternativa di Lorenz von Stein viene allontanata con forza, una scienza dello
Stato fondata sullo studio degli apparati pubblici e sulla loro capacità di rispon-
dere alle istanze della società non può trovare alcuno spazio. Bisognerà aspetta-
re la fine degli anni Cinquanta per vederla rivalutata da Rudolf von Gneist, il
quale si accorse che la negazione del ruolo attivo della borghesia all’interno
delle istituzioni altro non faceva che allontanare sempre più lo Stato dalla socie-
tà, esponendolo al rischio di esserne travolto d’impeto.
Gneist guardava con ammirazione al modello inglese e al suo self-government e
studiò il modo per applicarlo alla realtà tedesca, seppur in chiave conservativa,
dato che la sua preoccupazione primaria era quella di fornire alle classi più ele-
vate (nobiltà ed alta borghesia) gli strumenti adeguati per controllare le dinami-
che sociali ed intervenire prima di dover fronteggiare una rivoluzione di tipo
giacobino. L’organicismo di Savigny e Bluntschli sembra lontano anni luce: lo
Stato non è più il prodotto naturale della società, ma uno strumento razionale,
8
Maurizio Fioravanti, op. cit. a pag. 13 – pag. 183
10
assolutamente autonomo da essa, da consegnare alle élite affinché lo usino per
governare il mutamento in atto. La differenza da Stein sta nel fatto che qui il
nuovo ordine viene concepito per permettere allo Stato di eliminare il conflitto
sociale attraverso la mediazione delle istituzioni locali, mentre lì la conflittualità
viene ritenuta il prodotto inevitabile di un nuovo contesto da governare affron-
tando le contraddizioni stesse.
Nello stesso periodo in cui Gneist studiava nuove forme di governo locale e
nuove forme di collaborazione fra nobiltà e borghesia per contenere i conflitti
sociali anche Gerber ruppe con la tradizione organicista e cominciò a pensare
ad uno Stato autonomo in tutto e per tutto dalla società, in grado di imporre au-
toritativamente le proprie scelte. Un ordine etico-giuridico in grado di regolare
tutta la vita collettiva (alla maniera degli organicisti) diventa insufficiente, per-
ché per tenere a freno la conflittualità delle classi sociali, non più armonicamen-
te integrate fra di loro, adesso serve uno strumento forte, ovvero uno Stato giu-
ridico basato su un diritto pubblico legittimo in sé e non più semplice emana-
zione di quello privato, come avrebbe voluto il suo maestro Savigny. Nasce la
figura dello Stato persona, in grado di contenere la ribellione della società civile
nella forma della rivoluzione sociale e la prevalenza dei conflitti economici sul-
le tradizionali mediazioni etico-politiche; esso impone unilateralmente il diritto,
«concretizzazione in termini istituzionali di valori storici già consolidatisi nella
collettività intera»
9
, assicurando imparzialità e razionalità. I limiti posti al pote-
re di questo tipo di Stato non possono che essere interni ad esso e si trovano
nella sua capacità di rispecchiare al meglio lo spirito del proprio popolo, capaci-
tà che peraltro nessuno ha la facoltà di sindacare. Perché esista una autonoma
“Staatsgewalt” lo Stato non può essere sottoposto ad un ordinamento superiore
(quello naturale presente nella società), ma deve avere piena libertà di azione
per imporre la propria volontà. Non si tratta di un rifiuto totale di quella conce-
zione del diritto che vuole la legge riconosciuta nella società piuttosto che crea-
ta dal nulla, quanto del rifiuto di sottoporre lo Stato a ordinamenti che gli sono
superiori, perché questo postulato lo vincolerebbe al giudizio di qualche tipo di
magistrato e metterebbe in forse quel libero arbitrio che gli è proprio in quanto
Stato
10
.
9
Maurizio Fioravanti, op. cit. a pag. 13 – pag. 307
10
Ibidem – pag. 275
11
Su questo punto troverà come energico avversario Otto Bähr, per il quale anche
la macchina statale, essendo una comunità naturale come tutte le altre (famiglia,
gente, culto religioso), solo un po’ più grande e complessa, deve essere sottopo-
sta alla legge per offrire delle garanzie ai singoli individui
11
. Il diritto è una ne-
cessità che l’uomo avverte non appena si dà una morale e non appena dà vita ad
organizzazioni stabili, serve per tutelare le singole libertà ed esiste anche quan-
do non è codificato. Per garantirne il rispetto è presente sempre una qualche
forza (morale o fisica) che lo rende coattivo. Lo Stato è quindi giuridico in
quanto regolato al suo interno e nei rapporti con la comunità dal diritto e per
questo esso stesso, il punto più alto di organizzazione raggiunto dall’uomo, de-
ve rispondere del proprio operato ad una Costituzione, che è il prodotto della vi-
ta della società, ma che è codificata e riconosciuta dai giuristi.
Non siamo ancora arrivati alla proposta di una Corte Costituzionale in grado di
giudicare l’operato delle singole parti dello Stato, ma non siamo neanche di
fronte allo Stato gerberiano che non risponde a niente e nessuno del proprio o-
perato. I singoli cittadini, inoltre, quando vedono violati i propri diritti, possono
ricorrere al giudice ordinario contro i singoli provvedimenti amministrativi.
Perché la legge, intesa in senso formale, si stacchi dal diritto inteso in senso ma-
teriale, bisognerà aspettare Paul Laband. Si tratta di una rivoluzione nell’ambito
del dibattito giuridico, che avrà enormi ripercussioni anche in Italia, dove, gra-
zie all’opera di Vittorio Emanuele Orlando questa concezione del diritto riusci-
rà a dominare dagli anni ’80 fino alle sogli del Ventennio fascista. Ciò che defi-
nisce la legge non è più il suo contenuto, ma la sua forma, che rende un atto im-
perativo dello Stato persona una regola insindacabile. Le rappresentanze popo-
lari partecipano al potere legislativo, ma solo con poteri consultivi, dato che la
continuità con la tradizione e la capacità di prescindere dai conflitti fra interessi
può essere garantita solo dal Re e dalla burocrazia.
Non tutti i giuristi si appiattirono però sul metodo giuridico, qualche voce fuori
dal coro continuò a farsi sentire, puntando il dito contro il punto debole di que-
sto impianto concettuale, ovvero la mancanza di legittimazione di uno Stato as-
soluto che risponde solo a sé stesso del proprio operato e di un diritto che pre-
scinde dai contenuti e si accontenta della forma. Otto von Gierke accusa Laband
di aver costruito un sistema giuridico nel quale le singole parti si collegano at-
11
Otto von Bähr, Lo Stato giuridico in «Biblioteca di Scienza Politiche, Torino 1892 – pag. 298
12
traverso pure astrazioni logiche, facendo terra bruciata della realtà che le cir-
conda
12
. Il diritto, secondo lui, ha una propria dimensione autonoma, ma ha an-
che profonde connessioni con la storia ed i valori di un popolo, che devono es-
sere studiate, e chi le nega non fa altro che nascondere le basi del diritto stesso.
Il Volk, che nella concezione organicistica produce fisiologicamente le strutture
e i rapporti di potere dello Stato, qui non ha più alcun ruolo, dice Gierke, rima-
ne sulla scena un solo soggetto autoritario che tutto può. Ciò che gli sta a cuore
non è solo restituire uno spazio alla rappresentanza popolare, ma anche restitui-
re un ruolo attivo alla scienza giuridica, altrimenti atrofizzata in compiti di pura
descrizione e ripetizione delle volontà legislative. Ma personaggi come Gierke
erano destinati alla sconfitta, perché l’evoluzione della costituzione materiale
tedesca e le esigenze della classe dirigente spingevano verso una concezione a-
stratta del diritto, un diritto che non doveva porsi, insomma, troppi problemi di
legittimazione né troppi quesiti sulla missione e sui fini dello Stato autoritario
bismarckiano.
III. I modelli italiani: Orlando, Santi Romano e Mosca
La giovane scienza giuridica italiana è ancora priva di una qualche tradizione
nel momento in cui Vittorio Emanuele Orlando, nel 1885, si appresta ad inau-
gurare il proprio corso di Diritto Costituzionale all’Università di Modena con
una prolusione volta a separare nettamente ordine giuridico ed ordine politico
13
.
Sarà pur vero che il binomio Stato-società, secondo l’influsso giusnaturalistico,
era già lo schema principale che la disciplina giuridica utilizzava per raccogliere
i propri enunciati, ma è anche vero che i modelli oscillavano fra una prospettiva
monistica (prevalenza di uno dei due termini) ed una dualistica (equilibrio e
dialettica fra essi)
14
. La società veniva vista come un insieme eterogeneo di in-
dividui e di gruppi sociali in conflitto e gerarchicamente disposti, i quali non
potevano fare a meno di uno Stato in grado di tenere unito il tutto.
Con Orlando le prospettive dualistiche vengono confinate nell’ombra, e ben
presto rimane solo il suo Stato giuridico al quale la società si piega come un
12
Maurizio Fioravanti, op. cit. a pag. 13 – pag. 359
13
Giulio Cianferotti, Il pensiero di V. E. Orlando e la giuspubblicistica italiana fra Ottocento e Novecento, Milano 1980 –
pag. 99
14
Pietro Costa in Stato e cultura giuridica in Italia dall’unità alla Repubblica, Bari 1990 – pag. 98
13
suddito al proprio monarca, senza possibilità di esercitare un diritto di resisten-
za esterno a quei diritti pubblici soggettivi riconosciuti unilateralmente dallo
Stato ai cittadini.
Il punto di partenza ha un che di «savignano»: le forme di governo, così come
le leggi che governano una società, non si possono scegliere, ma sono il portato
della storia. Contro Stuart Mill, Orlando afferma infatti che esse sono il frutto
«delle condizioni etnologiche ed economiche di una data società, delle qualità e
quantità dei sentimenti, degli usi, dei pregiudizi e così via»
15
. Il giurista sicilia-
no mette subito le mani avanti anticipando le critiche che avrebbe attirato su di
sé, quelle secondo cui «proclamando l’immancabilità della giuridica evoluzio-
ne, vada a ricadersi in un funesto fatalismo storico, che ne inaridirebbe le sor-
genti di ogni politica attività»
16
. In realtà, secondo lui, il dibattito politico esiste,
ma è limitato alla scelta delle modalità attraverso le quali i princìpi generali che
regolano il funzionamento delle varie società devono essere attuati.: «La neces-
sità dei fenomeni giuridici e della trasformazione storica di essi attiene alla con-
siderazione obiettiva, è conseguenza dell’osservazione di quei principi nei loro
nessi logici e in rapporto alla successione storica di essi; mentre la cooperazione
intelligente degli uomini, come fattore indispensabile al progresso… è una veri-
tà subiettiva, derivante cioè da quell’intima coscienza ,… che il loro benessere
dipende dall’esercizio attivo, continuo ed intelligente delle loro facoltà»
17
.
Nemmeno la scienza ha dunque uno spazio di discrezionalità, perché essa deve
solo individuare i principi latenti che regolano un organismo sociale e codificar-
li per trasformarli in legge. Il diritto positivo vive nella coscienza comune di un
popolo, quindi il legislatore trova, non crea, ed il giurista codifica.
In quanto ai problemi di sovranità non esiste alcun ente più sovrano dello Stato,
perché se così fosse esso non potrebbe più esercitare il proprio potere, ma sa-
rebbe comunque subordinato a qualche organo più potente del governo, del Par-
lamento, della magistratura. Le uniche garanzie per i cittadini sono le regole di
autolimitazione che lo Stato si pone, a patto, però, che non possa mutarle a pro-
prio piacere, perché altrimenti sarebbero del tutto inutili. Il dubbio che questo
impianto logico abbia il proprio tallone d’Achille nella limitazione del concetto
di sovranità statale, nella sua legittimazione e nell’incapacità di produrre delle
15
Vittorio Emanuele Orlando, Diritto pubblico generale, Milano 1954 – pag. 353
16
Ibidem – pag. 354
17
Ibidem – pag. 355
14
garanzie per i cittadini si insinua dunque nella mente di Orlando, ma pur con-
fessando questa difficoltà e pur disconoscendo le soluzioni proposte da altri au-
tori (negare che fuori da un’autorità sovrana possa esistere diritto), ne esce ag-
grappandosi ai peccati di gioventù del diritto pubblico, una disciplina che da
poco comincia ad affrancarsi dalle altre e quindi ha bisogno di tempo per trova-
re la propria dimensione specifica: «Noi giuristi abbiamo fatto un po’ come un
astronomo, il quale avendo esattamente determinato i caratteri di una stella (qui
si riferisce alla lunga tradizione del diritto privato ndr) pretenda di farli valere
per tutti i corpi celesti»
18
.
Man mano che la figura di Orlando acquista prestigio all’interno del mondo ac-
cademico e culturale italiano questi aumenta il proprio distacco da tutte quelle
problematiche che egli definisce come filosofiche e non attinenti al diritto, ov-
vero la natura e la funzione dello Stato. Lo Stato è sovrano per definizione, se
non lo fosse non sarebbe Stato nel senso moderno del termine: si tratta di un
postulato giuridico che, come avviene nell’analisi matematica, sta a fondamento
di un’intera scienza e non può essere dimostrato
19
. Si tratta di una battaglia che
ha come obiettivo finale l’affermazione dell’autonomia della scienza giuridica,
finalmente capace di scavarsi una nicchia all’interno della quale vige la sua
competenza e quindi la sua assoluta autonomia dalle altre discipline che troppo
spesso in passato si sono mescolate nello studio del diritto pubblico.
Rispetto alla concezione tedesca di Rechtstaat qualche differenza però esiste,
come mette in nuce Giulio Cianferotti
20
. La scuola germanica prosegue dritta
verso la propria strada, annullando ogni diritto individuale del cittadino, che fi-
nisce per diventare mero e proprio suddito, il giurista siciliano, invece, ricava
dei diritti pubblici subiettivi che vengono sì concessi unilateralmente dall’ente
dotato della sovranità ultima, ma rimangono a garanzia dell’individuo e diven-
tano un vincolo per lo Stato stesso.
Di fatto l’unica realtà di cui deve occuparsi il giurista rimane la forma giuridica,
che rende diritto la legge, tutto il resto viene via via espulso dal diritto pubblico.
Per osare le parole dello stesso Cianferotti: «La complessità del reale, le do-
mande generali, il nesso tra sapere scientifico e potere statale, tra competenze
disciplinari e Stato, le scelte valutative, i principi di razionalità materiale, i refe-
18
Vittorio Emanuele Orlando, I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico, Modena 1925 – pag. 29
19
Giulio Cianferotti, op. cit. a pag. 18 – pag. 143
20
Ibidem – pag. 87
15
renti politici, sociali ed ideologici delle forme teoriche, i rapporti con la politica,
con la vita e con la storia, divengono scientificamente “invisibili”, perché la
scienza del diritto pubblico conosce solo le forme fissate dallo specialismo giu-
spubblicistico»
21
.
Man mano che il nuovo Stato unitario italiano prendeva forma e la sua econo-
mia si sviluppava, trascinando con sé una nuova dialettica sociale sempre più
dirompente, l’inadeguatezza di un modello come questo, incapace di spiegare il
perché le istituzioni non fossero più in grado di armonizzare la vita dei cittadini
e di rispondere alle loro richieste (sbocco inaudito per una teoria organicistica
come quella di Savigny), qualche sostenitore di questo impianto si pose seria-
mente il problema di conciliare una teoria che negava qualsiasi fonte di legitti-
mazione dal basso e una realtà in cui lo Stato appariva sempre più lontano dalle
istanze reali dei suoi cittadini e ben lungi dal riuscire a governare il conflitto so-
ciale attraverso il consenso piuttosto che utilizzando la mera repressione in no-
me del proprio potere assoluto. Il più illustre di essi fu senza dubbio Santi Ro-
mano, il cui modello di Stato giuridico cercò di offrire ai cittadini più garanzie
di quante ne offrissero i precedenti, nella speranza di poter salvare questa impo-
stazione che negava il concetto di sovranità popolare e quello di diritto naturale,
pur riconoscendo dei veri e propri diritti pubblici soggettivi agli individui.
Contro Gerber, accanito difensore di quella tradizione tedesca che negava la
possibilità logica di limitare il concetto di sovranità, Santi Romano sostenne che
il diritto, per sua natura, regola rapporti fra soggetto e soggetto, non fra soggetto
e oggetto come volevano i gerberiani e quindi i singoli possono godere di diritti
propri
22
. Con questo il giurista siciliano non intendeva in alcun modo reintro-
durre dalla finestra ciò che era stato faticosamente cacciato dalla porta (il diritto
naturale), ma semplicemente apportare qualche aggiustamento allo Stato giuri-
dico.
Il cuore della sua manovra è l’idea che la sovranità dello Stato nella sua globali-
tà non possa essere intaccata, ma negli atti dei singoli organi sì. Per chiarire
meglio il proprio impianto teorico Santi Romano si impegna in una minuziosa
classificazione dei diritti pubblici esistenti, che, a suo dire, fa tabula rasa delle
precedenti (per lo più inservibili) e ricava uno spazio autonomo per il cittadino
21
Giulio Cianferotti, op. cit. a pag. 18 – pag. 213
22
Santi Romano, «La teoria dei diritti pubblici subiettivi» in Primo trattato completo di diritto amministrativo, Milano
1900 – pag. 117
16
senza bisogno di mettere in crisi il modello dominante. Karl Popper giudiche-
rebbe quest’opera come un tentativo di adattare un paradigma a nuove e sempre
più innegabili contraddizioni nella speranza di farlo sopravvivere ai tempi e di
ritardarne il completo (ed ineluttabile) superamento.
Il primo diritto di cui occupa nella sua minuta catalogazione non può che essere
quello di supremazia, riservato allo Stato in quanto unico soggetto originario di
diritti. Fin qui nulla di nuovo, anzi vi sono passaggi che potrebbero essere sot-
toscritti da moltissimi giuristi tedeschi del periodo: «…lo Stato esercita dei veri
e propri diritti sulla persona dei sudditi, non solo obbligandoli a delle prestazio-
ni personali, ma anche disponendo della loro vita»
23
. Come Vittorio Emanuele
Orlando, però, considera vincolante per lo Stato le leggi che questi emana per
limitare il proprio strapotere originario, ed è da qui che hanno origine i diritti di
libertà, negli spazi lasciati volontariamente vuoti da chi detiene la sovranità. Se
questa sfera viene toccata arbitrariamente da qualche organo amministrativo al-
lora il cittadino può ricorrere alla magistratura esercitando un proprio diritto
pubblico, che non è originario come vorrebbero i teorici della sovranità popola-
re, ma concesso. Si tratta di un passaggio fondamentale per capire la differenza
fra dispotismo e stato di diritto. Passando rapidamente sopra ai diritti civici,
quelli che garantiscono determinate prestazioni dall’amministrazione, interes-
sante si rivela la concezione dei diritti politici, che rispecchia bene l’idea di so-
vranità dominante a fine secolo negli ambienti accademici. L’esercizio del voto
non è trasmissione di sovranità o procedura di legittimazione degli organi costi-
tuzionali, ma semplicemente il dispiegarsi di una funzione pubblica richiesta
dallo stato ad una determinata classe di cittadini, quelli in grado di aiutare le i-
stituzioni nella selezione delle persone più qualificate per operare in un Parla-
mento. Si tratta di un ruolo che Santi Romano equipara a quello dei funzionari
della pubblica amministrazione (retribuiti) o ai militari di leva (costretti). «Chi
esercita un diritto politico – dice – diviene, per effetto immediato… organo del-
lo Stato»
24
.
Per fissare e comprendere i diritti dei singoli costituzionalmente garantiti biso-
gna dunque scomporre lo Stato nei suoi organi e analizzarne i rapporti con i cit-
tadini, ma nel suo complesso lo Stato non ha alcun dovere nei confronti
23
Santi Romano , op, cit. a pag. 21 – pag. 154
24
Ibidem – pag. 198
17
dell’individuo
25
. Citando Fioravanti: «Il suo discorso non muove verso la teoria
generale dello Stato, ma procede piuttosto per linee interne, credendo possibile
la soluzione di ogni problema all’interno della personalità giuridica dello Stato,
esclusivamente attraverso una rigorosa definizione delle competenze e dei limiti
di azione degli organi statuali»
26
.
Per chiudere un sistema ancora logicamente incompleto manca però un tassello:
chi limita il potere dello stato se ogni diritto del cittadino è pura emanazione
della volontà statale? A differenza di Orlando, che ammette solo alcuni vincoli
fissati dallo Stato stesso, Santi Romano introduce a questo punto un nuovo tipo
di argine, quello costituito dalla necessità. «Il vero limite alla sovranità statuale
– si legge – è il limite della necessità, consiste cioè nel fatto che lo Stato non
può negare determinati principi fondamentali senza negare sé medesimo e la
propria giuridica esistenza»
27
. È dunque la funzionalità giuridica dell’intero si-
stema che richiede dei postulati fondamentali inviolabili anche da parte
dall’ente sovrano.
Decisamente più originale, nel panorama italiano del periodo, l’impostazione
proposta da Gaetano Mosca, uno dei fondatori della scienza della politica nel
nostro paese. Invece che indagare la struttura dello Stato partendo dalla costitu-
zione formale e dall’impianto giuridico che lo sostiene, egli cambia punto di vi-
sta ed indaga la struttura del potere, quella che si potrebbe chiamare la costitu-
zione materiale. Il problema dello studioso siciliano è quello di «giungere ad un
esame completo dei rapporti fra le condizioni sociali e le forze giuridiche»
28
, in
un’ottica realistica che lo contrappone insieme ad altri personaggi quali Arcole-
o, Majorana e Brunialti a quella formalistica di Orlando.
Il cuore dell’impianto dottrinario di Mosca è la teoria delle élite. Secondo lui la
storia non è contraddistinta dal succedersi delle varie forme di governo e delle
varie costituzioni, ma dall’avvicendarsi di minoranze che impongono la propria
superiorità alle maggioranze governate
29
. Questa élite che si impone sulle masse
è la cosiddetta classe politica, la quale struttura le istituzioni in modo funzionale
al proprio dominio sulla società.
25
Maurizio Fioravanti, «Per l’interpretazione dell’opera giuridica di Santi Romano» in Quaderni fiorentini n. 10,
Milano 1981 – pag. 198
26
Ibidem – pag. 200
27
Ibidem – pag. 207
28
Maurizio Fioravanti, «Gaetano Mosca e V. E. Orlando, due itinerari paralleli» in Archivio internazionale Gaetano
Mosca vol. A, Palermo 1982 – pag. 352
29
Gaetano Mosca, Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare, Palermo 1884 – pag. 18