6
1.1.1 Il modello fordista e lo Scientific Management di Taylor
Il modello fordista, si fondava sostanzialmente su alcune condizioni base del contesto
economico:
• un elevato tasso di crescita dell’offerta di lavoro e, parallelamente, della produttività
dello stesso; quest’ultima in particolare spiega lo sviluppo intensivo del periodo post-
bellico;
• una forte crescita dei tassi di profitto, dovuta sia all’aumento della produttività del
lavoro, già ricordata, che ai bassi costi delle materie prime favoriti dall’elevata
disponibilità delle stesse. Tali condizioni consentivano di assorbire l’incremento dei
redditi monetari interni, evitando in tal modo il sorgere di spinte inflazionistiche;
• il lungo periodo di stabilità monetaria, conseguente all’assenza di impulsi
inflazionistici sia internazionali che interni: stabilità monetaria, crescita salariale e della
produttività del lavoro erano difatti le condizioni alla base dello specifico
compromesso di classe realizzato nel modello fordista;
• una stabilità della domanda globale interna, condizione che permetteva alle imprese
una pianificazione ottimale delle proprie attività produttive sul lungo periodo, e
conduceva a condizioni di equilibrio macroeconomico fra domanda e offerta;
• una crescita costante del commercio internazionale, a tassi doppi rispetto a quelli del
reddito interno ai singoli Paesi [Salvati,1990; Dore,1988].
A questo modello di configurazione ambientale si accompagna uno specifico modello di
organizzazione della produzione, che ha visto nella catena di montaggio la realizzazione
dei princìpi fordisti di meccanizzazione delle successive fasi operative, e di quelli
tayloristici di parcellizzazione del lavoro.
Taylor elaborò il concetto di organizzazione funzionale, detta anche scientifica che si
basa sul principio della divisione del lavoro.
In tale contesto, l’approccio tayloristico fa leva sulla specializzazione delle funzioni che si
ottiene mediante una accentuata suddivisione del lavoro sia manuale sia intellettuale, con
una rilevante presenza delle gerarchie quale sistema di governo.
7
Secondo Taylor un dipendente può ricevere ordini da chiunque altro, sempre se più
elevato in grado (ogni organo a livello direttivo, impartisce disposizioni nell’ambito delle
competenze).
Ogni nodo si specializza progressivamente in una serie di compiti e attività.
Nel caso fosse necessaria una ristrutturazione del ciclo produttivo, la mancanza di
flessibilità e la rigida demarcazione delle mansioni renderanno più difficile ridurre il
numero dei lavoratori o ricollocare i lavoratori eccedenti e riprofessionalizzarli,
ridisegnando i contenuti del loro lavoro.
I fini perseguiti da Taylor attraverso la diffusione dell’organizzazione scientifica del lavoro
emergono chiaramente dal suo assimilarla ad una “completa rivoluzione mentale da parte
degli operai impiegati del capofficina, del proprietario dell’impresa”, tale che “ambo le
parti distolgono il loro interesse dal surplus ed insieme lo concentrano per aumentare
l’entità del surplus finchè esso diventa così grande che non sarà più necessario litigare sul
come debba essere diviso”
2
.
Vengono fin da subito evidenziati due limiti dell’organizzazione scientifica:
1. Numerose caratteristiche incorporate in questo sistema produttivo inibiscono il
processo di introduzione delle innovazioni. Il processo di sviluppo di nuovi prodotti è
ritardato e non si stimolano quei miglioramenti nel processo in grado di ridurre i costi
produttivi. I macchinari molto specializzati tendono ad essere rigidi. I lavoratori
dequalificati non riescono facilmente ad adattarsi ad una variazione delle mansioni.
Quindi, un’eccessiva separazione e divisione delle mansioni e del lavoro tra i vari
gruppi aumenta i problemi di coordinamento ed anche i tempi per attuare le
innovazioni. La divisione del lavoro tra i reparti di progettazione e quelli produttivi
finisce per produrre un calo di efficienza dell’impresa. I progettisti infatti non possono
essere a conoscenza di tutti i problemi connessi alla realizzazione del prodotto. Ogni
innovazione introdotta infatti richiede un consistente processo di apprendimento del
tipo learning by doing.
2. Un troppo rapido turnover della forza lavoro incoraggia la dequalificazione
professionale e accentua il conflitto d’interessi tra lavoratore e impresa.
2
Con il sistema del “lavoro a compito definito” Taylor [1947] si prefigge di superare le inefficienze
dell’organizzazione empirica del lavoro incentrata sul binomio “iniziativa ed incentivo”.
8
Gli studiosi di organizzazione, lamentano quindi, (considerato che organi diversi possono
contemporaneamente emanare direttive destinate a una medesima persona o ad uno stesso
ufficio):
a) il rischio di creare gravi conflitti di competenza;
b) la difficoltà nel conservare l’unidirezionalità di indirizzo nelle decisioni aziendali.
1.1.2 Il paradigma produttivo negli impianti fordisti
Fu negli impianti Ford che nel 1913 i principi di “organizzazione scientifica” trovarono la
loro prima applicazione
3
.
L’organizzazione “scientifica” si basava su alcuni principi tendenti a suddividere il lavoro
in modo che ogni singolo addetto avesse il minor numero possibile di funzioni da
espletare. Si pongono così problemi inerenti
4
:
1) scomposizione dei contenuti esecutivi e intellettuali, da ripartire tra funzioni operative
distinte (officina e direzione);
2) standardizzazione degli utensili, delle operazioni e dei movimenti di ogni singola
mansione;
3) ricomposizione di ogni singola mansione per addizione di movimenti standardizzati e
definiti secondo tempi predeterminati;
Il ciclo di produzione, si organizzava allora come produzione di massa, cioè come processo
lineare rigido per la realizzazione di beni omogenei con alte economie di scala. La catena
di montaggio diveniva allora “simbolo” e “forma” della organizzazione del lavoro in
un’epoca in cui la domanda del bene di massa si considerava fortemente elastica e il
mercato illimitato. Ad un tale sviluppo corrispondeva la crescita di un “operaio-massa” e di
un modello di relazioni la cui caratteristica di fondo era data dall’immediatezza del
rapporto esistente tra il singolo lavoratore e la specificità delle mansioni a cui doveva
corrispondere il suo tempo di lavoro.
La stessa catena era allora un apparato potente e fragile: potente perché cadenzava tutti i
movimenti e i ritmi dell’intera “macchina” costituente la “fabbrica”; fragile perché rigida e
3
Principio di accentramento gerarchico: “Tutta l’attività intellettuale deve essere eliminata dall’officina e
concentrata nell’ufficio programmazione, riservando ai capisquadra e ai capireparto il lavoro strettamente
esecutivo” Taylor (1947).
9
continua, tale da poter essere bloccata in ogni suo punto e tale da poter essere “conosciuta”
in ogni suo istante.
Le innovazioni di Ford devono essere considerate di estrema importanza ma esse sono ben
difficilmente utilizzabili per disegnare l’intera traiettoria tecnologica delle economie più
avanzate.
La produzione fordista poteva del resto accettare innovazioni di prodotto solo come evento
eccezionale, dato che ogni mutamento di prodotto comportava un aggiustamento del
processo, tale da sconvolgere e modellare l’intera linea.
Il rapporto con la progettazione avveniva in termini discontinui; la progettazione realizzava
prototipi da avviare su linee pilota e solo in un tempo molto lontano dalla prima ideazione
del modello, allorchè il modello poteva dirsi stabilizzato, si passava ad una fase di
industrializzazione che comportava la definizione di una linea, con propri stampi,
mansioni individuali, tempi.
Il rapporto con il mercato era altrettanto discontinuo: la linea produceva per un magazzino
secondo cadenze immutate e l’aggiustamento tra fluttuazioni della domanda e consistenza
dell’offerta avveniva direttamente nei magazzini finali e solo raramente giungeva ad
alterare la conformazione dell’apparato produttivo.
Era un modo di produzione appropriato ad un’epoca di certezza. Quando la certezza delle
aspettative cominciò ad indebolirsi, la stessa funzionalità operativa del sistema fordista
iniziò ad accusare i segni della “crisi”, anzi la stessa rigidità insita nella catena di
montaggio diveniva vincolo al mutamento ed il ciclo lavorativo scomposto in mansioni
sempre più elementari (come avvitare un bullone, stampare un pezzo di metallo, spruzzare
di liquido antiruggine un oggetto di ferro); l’attività di programmazione (affidata agli
ingegneri) nettamente distinta dall’esecuzione (assegnata agli operai)
5
; il potere decisionale
riservato completamente e unicamente alla direzione.
E’ importante però ricordare che se l’essenza dell’organizzazione fordista e taylorista si
rivela nella combinazione di predeterminazione dei tempi di lavoro attraverso la
meccanizzazione dello stesso e di parcelizzazione dei suoi contenuti, il principio base
dell’intero modello va ricercato nella particolare organizzazione gerarchico-burocratica del
lavoro umano.
4
Nielson, (1988).
5
“Voi siete pagati per lavorare, non per pensare; c’è qualcuno che è pagato per questo” si dice rispondesse
Taylor agli operai che gli ponevano domande relative alla produzione [F.W. Taylor,1947].
10
Tale modello, originato dalle concezioni dell’ingegneria sociale nordamericana, è
impostato sulla netta separazione tra funzioni progettuali e intellettuali, affidate ad una
élite di specialisti, e attività meramente esecutive affidate a una massa di operatori
sostanzialmente priva di reale qualificazione e controllata da schiere di figure gerarchiche
intermedie.
Un sistema simile è progettato per operare in condizioni stabilizzate e rigidamente
normate: assunto del modello infatti è che solo dall’alto possa esserne intesa e governata la
logica complessiva, ragion per cui un’organizzazione rigidamente gerarchico-burocratica
ne è l’attuazione pratica. Inoltre, se l’integrazione fordista comporta da un lato
l’esasperazione della parcelizzazione dei compiti svolti dalla forza lavoro, per cui al
lavoratore di “prima categoria” taylorista si sostituisce l’operaio totalmente intercambiabile
della catena di montaggio, dall’altro osserva i tempi di lavoro ai ritmi scanditi dalla linea di
produzione ed induce il ritorno a forme di remunerazione su base giornaliera.
I gesti degli operai furono ridotti all’essenziale e i tempi morti eliminati, cosicchè il primo
aprile del 1913 Henry Ford potè scrivere:
“Abbiamo fatto la nostra prima esperienza di una catena di montaggio; prima, quando
l’intero procedimento produttivo era in mano ad un unico operaio, questi era in grado di
preparare in una giornata di nove ore lavorative, da 35 a 40 magneti: gli occorrevano
cioè 20 minuti per magnete. Il suo lavoro fu diviso in 29 differenti prestazioni e il tempo di
produzione si ridusse a 13 minuti: con altre ricerche sui ritmi di lavoro, il tempo si è
ridotto a 5 minuti. Abbiamo cominciato a costruire automobili in un’unica fabbrica;
abbiamo poi organizzato dei reparti, ciascuno dei quali fabbricava un solo pezzo. Non
immaginavo che fosse possibile una suddivisione del lavoro così spinta: con il crescere dei
reparti abbiamo smesso di essere una fabbrica di automobili per diventare una fabbrica di
parti di automobili” (H. Ford,1980).
Questo nuovo modo di organizzare il lavoro assimilava gli uomini alle macchine e non
teneva in alcun conto le esigenze psicologiche degli operai; i ritmi rigidi, la
11
parcellizzazione del lavoro, sono tutte condizioni che favoriscono quello stato di malessere
psichico e di distacco dal proprio lavoro che va sotto il nome di “alienazione”
6
; termine
che ha suscitato diverse critiche tra i sociologi soprattutto del secolo precedente. Si tratta di
un modello di per sé portato a sviluppare notevoli rigidità, sia di tipo organizzativo e
produttivo, che per quanto riguarda le condizioni di impiego della manodopera.
In effetti, le rigidità fordiste non erano semplici errori o esasperazioni; avevano invece una
loro intrinseca e pregnante razionalità; nascevano infatti da un concetto molto ben
costruito e collaudato, che ha retto il mondo della produzione per più di cinquant’anni, e
che ha reso possibile incrementi abnormi di produttività, creando l’industria moderna che
oggi conosciamo (Rullani, 1995).
Queste rigidità tuttavia non si tradussero in ostacoli al funzionamento complessivo del
modo di produzione fordista in quanto finirono con l’essere estremamente compatibili fra
loro e rispetto alle caratteristiche strutturali del modello stesso, il quale, pertanto, ha
funzionato per decenni, senza che gli effetti negativi di tali rigidità venissero avvertiti. Sarà
solo nel corso degli anni Settanta che il fordismo entrerà definitivamente in crisi, allorchè
si combinano una elevata mutabilità nelle condizioni dell’ambiente esterno in cui le
imprese operano, con le nuove possibilità tecnologiche che l’informatica e la robotica
offrono in produzione.
Il crollo di questo postulato, compiuto nella metà degli anni ’70, ha obbligato il capitale ad
una radicale ed intensa ristrutturazione, determinante per la nascita delle moderne tecniche
di automazione industriale flessibile e, più in generale, del nuovo paradigma produttivo.
L’introduzione del concetto di flessibilità all’interno delle tecnologie automatiche, è uno
dei mutamenti più interessanti, soprattutto per i cambiamenti delle forme del lavoro
operaio, dell’organizzazione del lavoro e per le ricadute in termini occupazionali.
Il passaggio da politiche aziendali volte alla produzione di enormi quantitativi di merci
standardizzate, a politiche “orientate al mercato”, in cui le merci prodotte divengono
sempre più personalizzate, rivolte cioè a segmenti diversificati e ben definiti di mercato,
sembra essere una delle chiavi per leggere la trasformazione in atto del modo di
produzione.
6
La tesi della progressiva appropriazione da parte della macchina degli aspetti qualificanti il contributo
umano al processo produttivo (indicata come labour process theory, taylorismo tecnologico, neo-taylorismo
o neo-fordismo) trova in Braveman[1974] la sua formulazione più incisiva.
12
In sintesi, la crisi del modello sociale e produttivo fordista può essere letta come
conseguenza di una serie di fattori congiunti: ai costi elevati che il gigantismo industriale
comportava, si somma l’aumento dei costi di materie prime, energia e lavoro, variabili
sempre più cruciali data la crescente mondializzazione del sistema degli scambi. Dall’altro
lato la rigidità del sistema fordista, risulta incapace di fronteggiare le variazioni qualitative
della domanda.
L’eredità di Taylor e Ford, si rivela strumento inappropriato per gestire i nuovi livelli di
discrezionalità operativa e di autonomia decisionale richiesti da un’organizzazione
flessibile della produzione. L’applicazione dell’informatica alle macchine e l’orientamento
a tramutare l’operaio in manodopera polivalente e caratterizzata da maggiori capacità
logiche, simboliche, di astrazione, di rappresentazione mentale del processo produttivo,
divengono quindi i primi passi verso il “dopo Ford”. Tecnologie informatiche, tecniche
gestionali, sviluppo delle risorse umane vengono coniugati in varia forma per fronteggiare
i nuovi contesti competitivi.
1.2 Le determinanti dell’organizzazione fordista
Il paradigma industriale messo in atto dal modello fordista, poggia su una complessa e
sorprendente combinazione di sforzo umano, macchine, processi, accanto ai necessari
input di materie prime, energia e capitale. Tutto lo sforzo è diretto verso la produzione, la
vendita e l’assistenza della moderna automobile. Le attenzioni di Ford non si limitavano al
semplice montaggio, ma ponevano le basi per una corretta programmazione del design;
quest’ultimo prendeva in considerazione l’adattamento unitario delle singole parti ad una
centrale. Era necessario infatti che la produzione fosse “standardizzata” perché fosse
possibile il montaggio in linea a partire da un convogliatore centrale.
Il fordismo assicurava il predominio e l’egemonia di nuove norme di produttività; esse
possiedono caratteristiche proprie che le distinguono dalle norme di lavoro (imputate
come abbiamo visto al taylorismo), di cui pure costituiscono un elemento, anche se hanno
in comune con esse la funzione di stabilire un nuovo modo di consumo produttivo della
forza lavoro.
Con il termine nuove norme di produzione, si indica la produzione in grande serie di beni
standardizzati, il cui valore in termini di tempo di lavoro necessario è minore. Le tecniche
13
produttive introdotte da Ford conseguirono un vantaggio schiacciante sui costi solo nella
produzione di beni di consumo durevoli complessi, inizialmente automobili e prodotti
elettrici, e successivamente prodotti elettronici, includendo sia beni di consumo che alcuni
fattori di produzione.
1.2.1 La standardizzazione di prodotto e di processo
La percentuale crescente del costo di produzione imputabile alle materie prime impiegate
dimostra l’importanza della riduzione di questi costi diretti mediante una riprogettazione,
sostituzione o standardizzazione del prodotto. In molte aziende industriali il costo delle
materie prime rappresenta valori che crescono in modo progressivo all’aumentare dei costi
di lavoro diretto
7
. In tali casi, risulta conveniente dedicare risorse e sforzi del management
per cercare di ridurre i costi. Spesso, invece, molte aziende, in linea con tradizioni del
passato, destinano risorse relativamente abbondanti a controllo e riduzione dei costi di
lavoro diretto, a fronte di un impegno più ridotto nell’area degli acquisti,
dell’ingegnerizzazione del prodotto e dell’analisi del valore. Queste ultime attività
concernono l’acquisizione dei materiali e la valutazione sistematica delle caratteristiche
attuali o proposte del prodotto finale. Loro scopo è l’identificazione di ogni opportunità di
riduzione dei costi mediante riprogettazione, standardizzazione dei materiali, oppure in
revisione del valore aggiunto e dei singoli costi sostenuti. La standardizzazione del
prodotto presuppone un notevole lavoro di selezione e di unificazione dei procedimenti
operativi, degli attrezzi, dei materiali e delle forme elementari che entrano nella
formazione di qualsiasi prodotto
8
.
Contestualmente, possiamo richiamare il concetto di standardizzazione, che sta alla base di
tale procedimento operativo descritto da Chevalier; descrivendolo secondo tre aspetti
specifici
9
:
7
Chi ha misurato i costi industriali nel settore manifatturiero, tra le imprese dei settori della produzione di
massa, ha mostrato che i costi diretti del lavoro rappresentano appena il 18% del totale dei costi produttivi.
(New e Myers, 1986).
8
Questo lavoro è detto di “normalizzazione” ed è così definito da J. Chevalier:
“La normalizzazione è la definizione di tipi unificati che debbono essere sostituiti agli elementi disparati
creati a caso dalla fabbricazione”.
9
G.Lubert, (1972).
14
1. Specificazione delle norme di qualità o definizione delle caratteristiche di un prodotto;
2. Unificazione delle dimensioni e dei limiti di tolleranza per garantirne
l’intercambiabilità dei pezzi e dei prodotti;
3. Semplificazione di quantità attraverso l’eliminazione di varietà inutili.
La standardizzazione dei processi rende più facilmente trasferibili e replicabili le
competenze e le soluzioni tecniche che incontrano, invece, maggiori difficoltà ad essere
riprodotte quando sono più forti le componenti di destrutturazione.
In questi casi come è noto, assume un rilievo maggiore l’investimento in formazione e
comunque in tutte le iniziative e gli interventi che favoriscono l’apprendimento individuale
e organizzativo. Ad un prodotto standardizzato, corrisponde un processo standardizzato. Si
può calcolare l’efficienza dell’impianto unicamente sulla base, a tempo dato della quantità
di prodotto finale che si ottiene, in relazione alla quantità di input che si immette.
1.2.2 Le curve di esperienza
Il contributo del fattore lavoro all’andamento della curva di esperienza, (vedi figura 1.1),
non è che una derivazione della curva di apprendimento.
Prezzo del modello T, 1909-1923 (media prezzo di listino in dollari 1958)
Y 1909
4 1912
1915
3 1920
0,8 1923
10.000 2 3 4 5 6 7 8 9 100.000 2 3 4 5 6 7 8 9 1000.000 2 3 4 5 6 7 8 9 X
X = Totale unità prodotte
Y = ( Migliaia dollari )
Figura 1.1 Curva di esperienza per la Ford modello T
10
.
10
Fonte: W.J. Abernathy, K. Waynes, (1974).
15
I primi studi su tale fenomeno, effettuati nell’industria aeronautica americana prima della
seconda guerra mondiale, mostrarono una diminuzione del costo pari al 20% a causa di tale
fenomeno
11
. Ulteriori ricerche, condotte in aziende industriali di diverso tipo ma con un
tasso analogamente alto di contenuto di lavoro, rivelarono miglioramenti dello stesso
ordine di grandezza.
Naturalmente molti osservatori conclusero che l’effetto dovuto al crescere dell’esperienza
derivasse solamente dal fattore lavoro. Tuttavia è opinione corrente che tale conseguenza
vada oltre il contributo del lavoro diretto, poiché deriva anche dal presupposto dell’intera
organizzazione, particolarmente in aziende che non operano con un’alta percentuale dello
stesso lavoro diretto. In ogni situazione, comunque, la diminuzione dei costi di lavoro
costituisce un importante contributo al miglioramento dei risultati economici.
Bodde
12
afferma che il verificarsi degli effetti dell’apprendimento dipende dall’efficacia
della gestione manageriale in tre aree:
1. L’alta qualità e la stabilità del personale è il primo fattore che rende possibile gli effetti
dell’apprendimento. Questo è dovuto non solo al basso livello dei costi di
addestramento e di rimpiazzo delle persone, ma anche alla qualità intrinseca degli
addetti, che consente loro di raggiungere una diminuzione dei costi applicando la
propria esperienza alle rispettive attività lavorative.
2. Il sistema retributivo e le sue connessioni con la produttività costituiscono un altro
elemento fondamentale, il cui effetto è riscontrabile praticamente in quasi tutti i casi di
miglioramento della produttività del lavoro. La “predeterminazione dell’output”,
l’erosione sistematica della “produttività standard” a causa delle concessioni elargite
alle categorie salariali in eccesso e la spinta alla “perdita” degli standard di lavoro,
costituiscono purtroppo i tratti caratteristici della lievitazione delle retribuzioni, cui
corrisponde una caduta nel mantenimento dei livelli di produttività raggiunti.
3. La strutturazione delle attività è il terzo fattore che assicura un importante contributo ai
miglioramenti nella produttività del lavoro.
Il controllo sulla domanda, sulla concorrenza, sulla tecnologia ecc. rende possibile
programmare minutamente le operazioni e specializzare le risorse, “dedicando” macchine e
lavoratori ad un’unica lavorazione e ad un unico prodotto. I costi affondati e le
11
E. A. Gerloff (1989).
16
irreversibilità che questa scelta comporta non sono un ostacolo se la situazione è mantenuta
sotto controllo, la divisione fordista del lavoro si sviluppa soprattutto per linee interne,
entro i confini governati dal potere proprietario e manageriale della grande impresa.
La fortuna dell’impresa fordista si regge dunque su un delicato equilibrio tra i costi e i
vantaggi del controllo. E’ grande quando il controllo costa poco o è facilmente ottenibile,
ma può essere assai precaria quando la complessità degli eventi eccede le capacità dei
controllori.
1.2.3 Le economie di scala
Secondo diffuse opinioni, le economie di scala qualificherebbero il processo di sviluppo
definito nei vari modelli macroeconomici: viene esplicitamente affermato
13
che il
miglioramento nel tempo dell’efficienza delle combinazioni produttive, descritto negli
stessi modelli, è dovuto all’azione congiunta del progresso della tecnica e delle economie
di scala. Con l’espressione “economie di scala” si indicano quei vantaggi nella
realizzazione di un’attività produttiva la cui manifestazione è consentita da livelli più
elevati di attività rispetto a una data produzione minima. Rendimenti crescenti di scala ed
economie di scala sono concetti correlati ma non coestensivi. Tale visione è conservata, a
rigore, anche in estensioni del concetto di economie di scala “pecuniarie”. Con queste si
indicano quei vantaggi nell’organizzazione delle transazioni concernenti certi input, che
sono legati a un più grande impiego di tali input da parte dell’impresa, e che si riflettono in
una diminuzione dei prezzi di acquisizione degli stessi input.
L’effetto esperienza risulta in parte provocato dai maggiori volumi di produzione, per cui
le economie di scala derivano direttamente dalla loro crescita, che richiede l’impiego di
capacità aggiuntive. Ogni incremento in capacità, tuttavia, di solito comporta un
investimento corrispondentemente minore. Nelle industrie a processo continuo, ad
esempio, un effetto approssimato di scala corrisponde soltanto ad un incremento dei costi
di capitale di sei decimi rispetto all’incremento di capacità
14
.
12
D.L.Bodde, (1976).
13
Solow R.,( 1959).
14
Fonte: Gerloff E.A. (1989).
17
Sebbene ci siano alcuni segni dei benefici economici delle grandi quote di mercato, risulta
pure evidente la diminuzione d’importanza di questa fonte di vantaggio competitivo.
1.3 Le curve di esperienza e strategia della produzione fordista
La curva di esperienza rappresenta un indicatore strategico piuttosto che un elemento
tattico a breve termine
15
. Combina gli effetti di numerosi fattori, collegati all’azione di un
management competente ed efficace, che verifichi sistematicamente le opportunità di
riduzione dei costi possibili in base a tale principio. Anche se alcuni studiosi di
organizzazione affermano che l’effetto della curva di esperienza sia sempre una riduzione
dei costi, senza limiti, l’evidenza dei fatti suggerisce il contrario.
La ragione principale è costituita dall’obsolescenza di prodotto
16
. Uno sviluppo basato, in
parte, su un rapido progresso della tecnologia, comporterà l’introduzione sul mercato di
prodotti alternativi molto prima che la curva di esperienza di quelli esistenti abbia
raggiunto il suo limite più basso.
In aggiunta, la ricerca dei vantaggi forniti dalla curva di esperienza senza tener conto degli
altri fattori che influiscono sulle vendite e sul mercato, può spingere le imprese all’interno
di una spirale con conseguenze potenziali catastrofiche. Il miglior esempio di questo
pericolo lo ritroviamo proprio nel caso Ford e della sua automobile modello T
17
.
La storia della strategia della Ford per il modello T offre anche una chiara dimostrazione
della difficoltà di riconoscere che sono parecchie le ragioni per le quali i prodotti risultano
vincenti nel proprio mercato. Queste, a loro volta, sono soggette a modificarsi nel tempo,
creando una serie di ulteriori segmentazioni nel mercato stesso.
1.4 L’impresa fordista: considerazioni e conclusioni
La struttura del sistema fordista è ottimizzata da un’allocazione razionale delle risorse,
pianificata sulla base delle condizioni iniziali e della conoscenza perfetta delle regole che
ne governano l’evoluzione. E’ questo il punto di approdo dell’impresa fordista, la quale
ottimizza la propria produzione omogenea e standardizzata, in base agli imperativi della
produzione di massa, nello scenario di un mercato stabilmente in crescita e di una
15
Ibidem.
16
Il calcolo di una curva di esperienza è esposto con chiarezza e nel dettaglio nell’ Harvard Business School
Paper “Experience and Cost: Some Implications in Manufacturing Policy”.
18
tecnologia le cui traiettorie sono note e altamente prevedibili. Il comportamento dominante
è la ricerca di posizioni competitive a costi minimi per un’assegnata qualità di prodotto,
attraverso l’appropriazione di produttività latente e la specializzazione (Faccipieri-
Calcagno 1988).
Per esemplificare, il modello “fordista” è stato il frutto geniale di un’innovazione
organizzativa che traeva forza dall’obiettiva possibilità di operare come sistema “quasi-
chiuso” rispetto al mercato, grazie a favorevoli condizioni nel rapporto domanda-offerta.
Infatti, il decisivo abbattimento dei costi ha permesso che la logica del prodotto
indifferenziato (il modello T) si imponesse ad una domanda di mercato in forte ascesa, nel
quadro delle tecniche disponibili e delle traiettorie della tecnologia nel lungo periodo.
In un ambiente stazionario o in evoluzione altamente prevedibile, il comportamento
efficiente è quello del sistema chiuso e non dell’impresa innovativa. Ancor più in
generale, poiché la complessità e la turbolenza ambientale si misurano lungo una scala
continua e non per categorie isolate, la sincronia richiederà un adeguato mix di meccanismi
innovativi, adattativi- omeostatici e statico-allocativi.
L’emergere di un nuovo modello di successo corrisponde dunque ad una significativa
ridefinizione del suddetto mix, in ragione di mutamenti nel livello della turbolenza
ambientale. In particolare, il modello emerso dalla ristrutturazione degli anni Settanta
chiama in causa una complicazione del mix nel senso della maggiore “apertura” del
sistema impresa.
1.5 I fattori di mutamento ambientale
Il succedersi delle trasformazioni economiche e sociali, avvenute alla fine degli anni
Settanta e primi anni Ottanta, costituisce il momento centrale del passaggio da un
successivo modo di produzione e regolazione sociale identificato come post-fordista.
18
17
E.A. Gerloff 1989.
18
Si tratta di due termini (fordista e post-fordista) che identificano in modo semplice ma significativo e
soddisfacente la contrapposizione e le diverse visioni dei due modi di produzione nelle molteplici tematiche:
centralità del lavoro nell’identificazione dei gruppi sociali, il ruolo degli attori collettivi, e le loro modalità di
aggregazione, il futuro del conflitto, il modello del sistema di welfare che si accompagna a tali forme di
organizzazione sociale. Distinzioni che vengono maggiormente accentuate considerando le diverse tecniche
19
Il passaggio dal fordismo al post-fordismo avviene all’interno di un periodo in cui hanno
luogo i processi di trasformazione economico-sociali più significativi per ogni Paese
industrializzato.
La produzione di massa
19
ha raggiunto il suo punto limite quando gli stessi mercati si sono
venuti via via saturando.
20
Quel tipo di domanda è crollata perché i consumatori hanno
iniziato a richiedere beni più differenziati. Il ragionamento di Piore e Sabel (1987) circa il
declino dei mercati di massa è basato soprattutto sulle tendenze riscontrate nei settori
maturi dei beni di consumo durevoli (automobili, lavatrici, frigoriferi), prodotti questi che
hanno ormai raggiunto una notevole penetrazione di mercato ma dei quali nessuno ormai
più si aspetta che, in termini globali, la produzione cresca in volumi produttivi e in
fatturato.
In altre aree produttive, dove l’identità del prodotto è più stabile, è più difficile trovare una
crescita nei volumi produttivi perché la penetrazione sui mercati è già elevata. Ma proprio
a causa di ciò esiste una forte domanda per il mercato di sostituzione.
La sostituzione della domanda, nel caso di prodotti maturi, non sembra un elemento
sufficiente a Piore e Sabel. Essi assumono che il modello della produzione di massa possa
funzionare solamente se i volumi produttivi crescono continuamente e le imprese riescono
così a ridurre i costi medi di produzione realizzando sempre maggiori economie di scala.
21
Quindi, se il modello della produzione di massa funziona, tale modello potrebbe essere
stabile invece che legato a qualche traiettoria di crescita. Ad ogni modo, se le imprese che
operano nell’area dei beni di consumo desiderano accrescere i loro volumi produttivi e il
loro fatturato, possono farlo attraverso l’introduzione di nuovi prodotti.
di produzione: il sistema fordista basato sulla standardizzazione delle lavorazioni e della specializzazione
delle mansioni, con la scomposizione delle funzioni e la loro combinazione in maniera sequenziale,
attraverso la riduzione delle varietà qualitative e della variabilità nel tempo; quello post-fordista, basato
invece sulla “lean production” (produzione snella), e da una economia flessibile e specializzata. Con la
distinzione fordista/post-fordista si intende quindi circoscrivere il “campo d’azione” alla trasformazione di
uno specifico modo di produrre e organizzare il momento produttivo (Rullani, 1995).
19
La produzione di massa può essere definita come produzione di grande serie di beni standardizzati, che
utilizza macchinari specializzati e mano d’opera prevalentemente non specializzata.
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Piore,M.J., Sabel C.F., (1987).
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Ciò, naturalmente, è stato formulato sulla base di un diagramma molto schematico e del tutto ipotetico,
dato che l’analisi di molti casi empirici suggerisce che i costi medi delle grandi imprese si mantengono
spesso costanti per differenti dimensioni di fatturato. E, persino se si potesse ottenere una riduzione dei costi
medi al crescere del fatturato, decidere di espandere la produzione comporta sempre dei grossi rischi perché
implica che si facciano investimenti fissi per aumentare la capacità produttiva dell’impresa.