6
presidenziale di Eisenhower.   Le lotte per i diritti civili 
inaugurarono una lunga stagione di scontri istituzionali (fra Stati 
ed autorità federali), politici (sia fra i due partiti, sia al loro 
interno), generazionali, culturali.   Il modello conservatore di 
identificazione nazionale non fu più capace di generare consenso e 
la vittoria, ancorché con margine ristrettissimo, di John Kennedy 
alle elezioni del 1960 segnò il “risveglio del liberalismo”
3
. 
La presidenza di Kennedy è ricordata per i primi dibattiti 
televisivi fra i candidati, per il sogno della “Nuova Frontiera”, la 
paura della crisi dei missili e, soprattutto, per l'epilogo tragico.   
Gli assassini politici degli anni sessanta furono un'altra novità per 
gli Stati Uniti: "prima degli omicidi di John e Robert Kennedy e di 
Martin Luther King, pensavamo che la nostra fosse la nazione del 
voto, non del proiettile" ha ricordato più tardi, nel 1979, Jimmy 
Carter
4
.     
Lyndon Johnson coagulò attorno al progetto di “Grande 
Società” la vecchia coalizione elettorale del New Deal ed ottenne 
la più grande vittoria elettorale della storia americana: era il 
trionfo del riformismo liberale di stampo rooseveltiano.   Ma: 
 
Con la Grande Società i liberali giunsero al capolinea.    Mentre 
le rivolte urbane continuavano, le divisioni etniche e di classe si 
aggravavano e lo scontro politico aumentava, i liberali non 
avevano più risposte.
5
 
 
Il successo di Johnson, coronato dall'approvazione di riforme 
che ancora oggi rappresentano l'ossatura del welfare americano, 
fu l'ultimo della convergenza elettorale fra lavoro qualificato, 
minoranze etniche, classe media urbana e bianchi del Sud.  
                                                 
3
D. STEIGERWALD, The Sixties and the End of Modern America, St. Martin's 
Press' New York 1995; p. 6. 
4
 Jimmy Carter, 15-7-1979, «Public Papers of the Presidents», Jimmy Carter. 
5
 D. STEIGERWALD, The Sixties and the End of Modern America, St. Martin's 
Press' New York 1995; p. 5. 
 7
   Dopo il 1964, gli interessi di questi gruppi iniziarono a 
divergere ed il liberalismo perse la caratteristica di mordente fra 
forze sociali ormai in aperta frizione.   
Il detonatore di tutte le tensioni nella società e nella politica 
americane fu il Vietnam.  Per dirla con Carter, “ci insegnavano che 
i nostri eserciti erano invincibili e i nostri fini giusti, poi abbiamo 
sofferto l'agonia del Vietnam”
6
.   Johnson, “maestro del Senato”
7
 
ed abilissimo manovratore politico, si era lasciato intrappolare dai 
paradigmi della guerra fredda e del contenimento trascinando gli 
Stati Uniti in una “troia di guerra”
8
 che avrebbe alterato 
definitivamente la coscienza americana della propria potenza.   
Attaccato anche all’interno del Partito Democratico, il presidente 
decise di non candidarsi per un secondo mandato. 
Nonostante le spaccature nel partito dell’asinello, la vittoria di 
Nixon non fu agile: la sua base elettorale fu erosa a destra dalla 
candidatura indipendente del governatore dell’Alabama George 
Wallace, segregazionista e favorevole ad una soluzione estrema, 
purché vittoriosa, della guerra.  Nixon, che trasse il suo consenso 
fra le forze moderate, vinse con un margine molto modesto (circa 
mezzo milione di voti) sul rivale democratico, il vicepresidente in 
carica Hubert Humphrey.    Egli si insediò alla Casa Bianca nel 
gennaio del 1969 col compito di restituire la nazione agli 
“americani dimenticati che non urlano e non manifestano”
9
, alla 
maggioranza silenziosa soverchiata dal rumore di una società 
divisa.     
                                                 
6
 Jimmy Carter, 15-7-1979, «Public Papers of the Presidents», Jimmy Carter. 
7
 R.A. CARO, The Years of Lyndon Johnson, Master of the Senate, Alfred A. Knopf, 
New York 2002. 
8
 Lyndon Johnson, cit. in D. KEARNS, Lyndon Johnson and the American Dream, 
Harper and Row Publishers, New York 1976, p. 251. 
9
 Richard Nixon, Nomination acceptance speech, Virginia Center for Digital 
History, www.vcdh.virginia.edu . 
 8
In un primo momento, Nixon sembrò riuscire ad imboccare la 
via d’uscita dalla “crisi spirituale”
10
 del decennio ormai concluso: 
nei ghetti urbani le rivolte (iniziate nel 1968 dopo gli assassini di 
King e Robert Kennedy) si sedarono progressivamente e lo sbarco 
di astronauti sulla luna trasmise per la prima volta un’immagine 
di potenza americana dopo anni di “palude” vietnamita. 
La violenza, però, continuò in molte università (Harvard, 
Cornell, Wisconsin, Penn State, Howard, Massachusetts fra le più 
importanti) e culminò il 4 maggio 1970 alla Kent State University, 
dove la guardia nazionale sparò sulla folla di studenti 
uccidendone quattro.    La tensione emerse anche in forma di 
rivolte nei penitenziari e attentati dinamitardi nelle sedi di grandi 
aziende.   I Sixties non erano ancora finiti. 
Il presidente, servendosi della demagogia populistica del suo 
vice Agnew, cercò di delegittimare l’opposizione radicale ma il 
suo tentativo si risolse in una sconfitta politica alle elezioni di 
medio termine del 1970.    La rielezione di Nixon nel 1972 fu, 
invece, il frutto della “strategia meridionale” messa in atto 
dall’amministrazione che, cosciente della vulnerabilità del partito 
repubblicano a destra dello schieramento politico, ne spostò il 
baricentro nel tentativo di conquistare più consensi fra gli elettori 
ultraconservatori, segregazionisti compresi.    Il fattore 
determinante della vittoria di Nixon fu, tuttavia, la rinuncia 
forzata di Wallace, vittima di un attentato il 15 maggio 1972 
(sopravvisse, ma ritirò la candidatura). 
  L’esplosione del caso Watergate pose fine prematuramente al 
secondo mandato presidenziale di Nixon che rassegnò le 
dimissioni il 9 agosto 1974.    Gerald Ford si insediò dichiarando 
che “la nostra costituzione funziona; la nostra grande repubblica è 
                                                 
10
 Richard Nixon, 20-1-1969, «Public Papers of the Presidents», Richard Nixon. 
 9
uno stato di leggi, non di uomini.   Qui è il popolo ad esercitare il 
potere”
11
.    I sixties erano finalmente finiti
12
: gli Stati Uniti ne 
uscivano consumati dalla crisi economica, con una società lacerata 
ed una potenza mondiale intatta ma ridimensionata 
dall’esperienza del Vietnam e dal nuovo paradigma della 
distensione.    
Nel 1968, Nixon aveva accettato la nomination repubblicana 
con un discorso di trentanove minuti durante il quale – ironia 
della sorte – aveva profetizzato che era “giunto il momento di un 
governo onesto negli Stati Uniti d’America”.
13
    Nel 1976, Carter 
concluse il suo breve discorso alla Convention democratica 
garantendo che quello sarebbe stato “l’anno in cui il governo di 
questo paese sarebbe stato restituito alla gente di questo paese”.
14
    
In effetti, il consenso che il governatore della Georgia ottenne non 
fu né strutturale (risultato, cioè, di una coalizione elettorale 
consolidata), né programmatico: il suo successo fu il frutto della 
fiducia personale che suscitò nei cittadini. 
 
Quasi tutti - come conseguenza del cinismo politico di Richard 
Nixon, Lyndon Johnson ed ora Gerald Ford - svilupparono un 
certo scetticismo verso ogni livello della politica e di coloro che 
la esercitavano.   L’eredità del Vietnam e di Watergate, per 
come influenzarono la presidenza americana, fu una domanda 
popolare di onestà nell’esercizio del governo.
15
   
 
Governatore della Georgia, Carter era una figura 
sostanzialmente estranea al mondo politico di Washington: in 
circostanze ordinarie, una simile condizione avrebbe costituito un 
                                                 
11
 Gerald Ford, 9-8-1974, «Public Papers of the Presidents», Gerald Ford.  
12
 Per un esempio di questa periodizzazione degli anni Sessanta si veda D. 
STEIGERWALD, The Sixties and the End of Modern America, St. Martin's Press' 
New York 1995. 
13
 Richard Nixon, 8-8-1968: Watergate.info, www.watergate.info/nixon.  
14
 Jimmy Carter, 15-7-1976, The American Presidency Project, 
www.presidency.ucsb.edu .  
15
 G.A. HAAS, Jimmy Carter and the Politics of Frustration, McFarland & 
Company, Jefferson-London 1992. 
 10
ostacolo pressoché insormontabile per un candidato, ma nella 
congiuntura del tutto originale del biennio 1975-76 essa si rivelò 
un vantaggio.  La combinazione fra sincera religiosità ed 
estrazione provinciale (se non addirittura rurale) trasmettevano 
un’immagine di Carter opposta rispetto allo stereotipo del 
politicante: egli era un antipolitico.    Questo termine assume due 
valenze particolari: in prima istanza, la moralità e l’onestà 
ponevano Carter in posizione antitetica rispetto a Nixon; ma la 
sua spontanea (e talvolta ingenua) semplicità ne faceva anche un 
antiJohnson.    Questo senso di alterità che il “moralista 
americano”
16
 riuscì a trasmettere gli valse la vittoria, ma la natura 
del suo consenso non fu affermativa: il suo successo fu più un 
rifiuto del tipo politico nixoniano che non un mandato costruttivo. 
L’America che elesse Carter era una nazione disillusa: il 
modernismo, inteso come fiducia nell’infallibilità-invincibilità del 
progresso (e del modello democratico americano), lasciava il posto 
al declinismo
17
.   A questa disillusione, legata in buona misura alla 
sconfitta in Vietnam, si intrecciava la paura della perdita dei valori 
democratici dei quali gli Stati Uniti si ergevano a protettori.    
                                                 
16
 K.E. MORRIS, Jimmy Carter: American Moralist, University of Georgia Press, 
Athens 1996. 
17
 Sulla fine del modernismo si veda ancora D. STEIGERWALD, The Sixties and 
the End of Modern America, St. Martin's Press' New York 1995.  Sul valore 
periodizzante degli anni Settanta, G. ARRIGHI, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, 
Milano 1994; E.J. HOBSBAWM, The Age of Extremes, Vintage Books, New York 
1996; C. MAIER, Consigning the Twentieth Century to History: Alternative 
Narratives for the Modern Era, in «American Historical Review», vol. 105, 2000, 
n.3 e Id. Secolo corto o epoca lunga? L’unità storica dell’età industriale e le 
trasformazioni della territorialità, in ‘900: i tempi della storia, a cura di Claudio 
Pavone, Laterza, Roma 1997, pp. 29-56.   Inoltre, sulla teoria del declino della 
potenza egemonica, P. KENNEDY, The rise and fall of the great powers, Random 
House, New York 1987 (trad. it.:P. KENNEDY, Ascesa e declino delle grandi 
potenze, Garzanti, 1989) e R. GILPIN, War and Change in World Politics, 
Cambridge University Press, Cambridge 1981. 
 11
L’aggressione di Cambogia e Laos così come, sul fronte interno, 
la vicenda della Kent University ed il caso Watergate, 
trasmettevano l’immagine di un’America imperialista ed anti-
democratica. 
La fine dei sixties era arrivata insieme alla fine della “età 
dell’oro”
18
: la stagnazione economica, l’incremento dei prezzi 
petroliferi, l’inflazione galoppante e l’abbandono del sistema di 
Bretton Woods non erano solo caratteristiche di una delle più 
critiche fasi economiche internazionali del ventesimo secolo, erano 
anche il colpo di grazia per l’illusione modernista della crescita 
ininterrotta. 
In questa congiuntura, Carter era un candidato ideale.  Egli 
prometteva un cambiamento profondo ma lo faceva con una 
retorica sostanzialmente conservatrice, imperniata di moralismo 
religioso ed al limite del populismo demagogico.    Il suo 
programma era abbastanza moderato e spesso risultava confuso e 
contraddittorio: per effetto della propria devozione religiosa, ad 
esempio, era contrario all’aborto ma, pur promettendo 
provvedimenti per scoraggiarlo, riconosceva la legittimità della 
libertà di scelta. 
Con il tasso di disoccupazione ormai intorno all’8%, alcuni 
liberali di tradizione newdealista e scuola johnsoniana 
(Humphrey e Hawkins in testa) ipotizzavano un intervento del 
governo federale per creare artificialmente posti di lavoro.   Carter 
era contrario a simili misure, pensava che la disoccupazione 
andasse riassorbita favorendo, con tagli delle tasse, gli 
investimenti privati, ma non escludeva l’eventualità di interventi 
diretti e temporanei a sostegno di imprese in difficoltà.  
                                                 
18
 E. HOBSBAWM, The age of extremes, Vintage Books, New York 1996. 
 12
Proprio mentre la sinistra del Partito Democratico proponeva di 
riprendere il percorso delle riforme johnsoniane (da finanziare col 
debito pubblico), il governatore faceva propria la causa 
dell’austerità di bilancio per contenere l’inflazione che era 
divenuta ormai insostenibile.   Con coscienza retrospettiva è facile 
individuare in questo periodo il principio di un cambiamento 
storico – oggi assai evidente – nella dottrina economica dei due 
partiti americani dominanti: mentre l’asinello si convertiva 
progressivamente dai dogmi keynesiani  all’assioma della 
disciplina fiscale, nel GOP avveniva il processo inverso grazie 
all’ascesa di Ronald Reagan e della piattaforma neoconservatrice.  
Anche per quanto riguarda le relazioni internazionali l’elezione 
di Carter avveniva in un momento critico.     Nel 1969 gli Stati 
Uniti avevano inaugurato un nuovo corso in politica estera: nel 
suo discorso inaugurale, Nixon annunciò che “dopo un periodo di 
competizione, stiamo entrando in un’era di negoziati”
19
.    Tale era 
di negoziati finì per essere chiamata détente: era un nome ufficioso, 
mai codificato formalmente ed usato dai protagonisti della politica 
internazionale con cauta parsimonia.     Il significato del termine, 
letteralmente distensione, non era univoco e mentre fu 
interpretato diversamente da sovietici ed americani, assunse 
anche valenze diverse presso gli amministratori che si 
susseguirono a Washington nel corso degli anni Settanta.    La 
distensione non era un progetto organico ma finì nondimeno per 
essere un paradigma: détente era soprattutto volontà di perseguire 
la sicurezza nazionale abbandonando gli schemi tradizionali del 
contenimento e della competizione atomica.    Nixon aveva ragioni 
contingenti per perseguire il miglioramento delle relazioni 
diplomatiche con Mosca – sperava, per esempio, di trarne 
                                                 
19
 Richard Nixon, 20-1-1969, «Public Papers of the Presidents», Richard Nixon. 
 13
vantaggio nella gestione della questione vietnamita – ma 
l’esigenza di ridefinire la politica estera americana aveva radici 
ben più profonde.  
Nel corso degli anni Sessanta la potenza relativa degli USA era 
diminuita nettamente rispetto all’egemonia economica e militare 
del decennio precedente
20
.    Il successo della ricostruzione 
(democratica e capitalistica) in Europa occidentale ed in Giappone 
era culminato nell’affermazione di questi nuovi poli economici.  
L’effettivo raggiungimento della parità nucleare da parte 
dell’Unione Sovietica è ancora oggetto di dibattito, ma occorre 
comunque enfatizzare l’emersione di un nuovo tipo di equilibrio 
strategico e militare caratterizzato dalla prospettiva della 
distruzione reciproca assicurata in caso di scontro atomico e, 
conseguentemente, di una forza deterrente sempre più intensa
21
.  
Con la guerra in Vietnam era divenuta palese l’insostenibilità 
della tradizionale politica di contenimento: lo scarto, conosciuto 
come Lippmann gap, fra gli impegni internazionali e la potenza 
americana era cresciuto a dismisura ed aveva reso la politica 
estera americana “insolvente”
22
.  
                                                 
20
 P. KENNEDY, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano 1989. 
21
  La Mutual Assured Distruction (MAD) era il frutto della riflessione di Robert 
McNamara.  Egli introdusse il concetto della “distruzione assicurata”, vale a 
dire la possibilità da parte degli Stati Uniti di reagire ad un eventuale attacco 
nucleare sovietico producendo “un grado inaccettabile di distruzione” nel 
territorio nemico.  Simile capacità di reazione avrebbe di fatto esercitato una 
forza deterrente sufficiente ad evitare un first strike.  Quando divenne chiaro che 
anche l’Unione Sovietica sarebbe stata capace di sopravvivere ad un primo 
attacco conservando forza nucleare sufficiente a causare ampie devastazioni al 
territorio americano, allora si iniziò a parlare di distruzione reciproca 
assicurata. (Robert Mc Namara, 18-9-1967: CNN.com, 
www.cnn.com/SPECIALS/cold.war/ ). 
22
 W. LIPPMANN, U.S. Foreign Policy: Shield of the Republic, Little Brown, Boston 
1943; S.P. HUNTINGTON, Coping with the Lippmann Gap, in «Foreign Affairs», 
Vol. 66, No. 3, America and the World 1987/88; pp. 453-477; E.A. COHEN, 
When Policy Outstrips Power, in «The Public Interest», Vol. 2, Issue 75, Spring 
1984.  
 14
La pratica del contenimento, in altre parole, aveva sbilanciato 
gli Stati Uniti verso l’esterno, in una congiunzione di 
sovraesposizione strategica e recessione economica interna.    Il 
declino relativo della superpotenza americana era evidente e, per 
arrestarlo, occorreva innanzitutto prenderne atto e ristabilire le 
dovute proporzioni fra l’impegno internazionale e la forza 
effettiva degli USA.
23
  
Toccò a Nixon ed al suo consigliere per la sicurezza nazionale, 
Henry Kissinger, riconoscere i limiti della potenza americana e 
prendere atto del nuovo equilibrio economico mondiale che 
andava rapidamente delineandosi.   Nel 1969 Nixon enunciò a 
Guam la sua dottrina: gli Stati Uniti avrebbero mantenuto i loro 
impegni internazionali, ma avrebbero delegato maggiori 
responsabilità agli alleati.   Nel 1971 il presidente pose 
unilateralmente termine al sistema monetario di Bretton Woods: 
l’abolizione della convertibilità del dollaro in oro sanciva 
palesemente il mutamento, di fatto latente già da un decennio, 
verso un equilibrio economico internazionale meno polarizzato. 
Kissinger fu più di un protagonista, egli fu il regista della 
politica estera americana nel periodo (1969-1977) in cui fu prima 
National Security Adviser, poi anche segretario di Stato.   Per 
l’autorità che aveva assunto e l’autonomia del suo esercizio, 
Kissinger prese ad esser chiamato lone ranger e la sua attività 
diplomatica era articolata attorno ai principi di un energico 
realismo geopolitico.    Kissinger organizzò in chiave antisovietica 
l’avvicinamento sino-americano, ma si adoperò anche per ridurre 
le tensioni con Mosca in cerca di una stabilità di comune interesse.    
                                                 
23
 P. KENNEDY, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano 1989. 
 15
L’apice della carriera del lone ranger fu la conclusione degli 
accordi di Parigi coi quali, nel 1973, fu posta fine alla guerra del 
Vietnam.    L’amministrazione americana, cosciente che il Vietnam 
del sud era destinato al collasso, sperava che il regime filo-
occidentale avrebbe resistito abbastanza a lungo da evitare che la 
sua capitolazione fosse interpretata come una sconfitta degli Stati 
Uniti.   Saigon, invece, cadde nel 1975, quando Kissinger stava già 
affrontando le prime critiche per la sua diplomazia personalistica.  
Zbigniew Brzezinski, eminente professore di politica 
internazionale alla Columbia University di New York, imputò a 
Kissinger di non avere un progetto organico ma di cercare solo 
compromessi circostanziali: c’è bisogno – scrisse – di “architecture, 
not acrobatics”
24
.     Anche nel Congresso aumentava il disagio per 
l’azione del lone ranger e lievitava il desiderio di un maggior 
controllo democratico della politica estera.  
Alla presidenza di Ford era corrisposto il declino della détente: il 
crollo dei regimi anticomunisti in Cambogia e Sud Vietnam e la 
guerra civile in Angola avevano eroso il consenso alla distensione 
e rilanciato la popolarità del contenimento.    Il presidente cessò di 
usare pubblicamente la parola détente e, nel compilare la 
programmazione economica per il biennio 1976-77, chiese al 
Congresso un aumento del 7% nella spesa militare.   Al tempo 
stesso però, per cercare di mantenere la sua amministrazione 
compatta, Ford aveva licenziato coloro che al suo interno erano 
critici della distensione, a partire dal segretario della difesa James 
R. Schlesinger.    Il rimpasto non fermò, però, il generale processo 
di ripensamento della politica estera americana.    
                                                 
24
 Z. BRZEZINSKI, The deceptive structure of peace, in «Foreign Affairs», No. 14, 
Spring 1974; p. 35. 
 16
Uno spettro minaccia l’Europa: non lo spettro del comunismo 
evocato in queste famose parole da Karl Marx nel 1848, bensì lo 
spettro dell’egemonia sovietica.   Questo spettro nasce dalla 
costante espansione della potenza militare dello Stato sovietico. 
Ma rimane contingente per la diminuzione della fermezza 
Americana, mentre l’America, ferita dal travaglio interno e 
dalle battute d’arresto esterne dell’ultimo decennio, si 
preoccupa dei suoi problemi interni e delle sue divisioni 
interne.
25
 
 
Schlesinger suonava un campanello d’allarme: egli esortava gli 
Stati Uniti a non abbassare il livello di attenzione di fronte ad una 
minaccia sovietica descritta come ancora attuale ed imminente.  
Secondo lui, l’America aveva riposto troppa fiducia nei 
meccanismi della distensione e della deterrenza lasciando 
pericolosamente ai sovietici il tempo e la possibilità di colmare 
ogni precedente ritardo in materia di difesa.
26
   “Proprio come i 
francesi si rifugiarono dietro la linea Maginot” - gli faceva eco Jack 
Kemp - “un fastidioso numero di americani si rifugia oggi dietro 
la nozione della distruzione reciproca assicurata”
27
.    Questo 
genere di critica originava dalla convinzione che la deterrenza non 
potesse funzionare in caso di inferiorità strategica americana 
perché i dirigenti moscoviti non avevano abbandonato l’ipotesi di 
un first strike: “l’Unione Sovietica” – ammoniva Kemp – “enfatizza 
                                                 
25
 J.A. SCHLESINGER, A Testing Time for America, in «Fortune», February 1976, 
Vol. XCIII, No. 2; p. 75.   
26
 L’analisi di Schlesinger si basava sostanzialmente sul livello comparato di 
spesa  militare fra U.R.S.S. ed U.S.A. negli anni della détente: se, nel 1968, la 
spesa americana per la difesa era nettamente superiore a quella sovietica, nel 
1970 i due livelli di spesa erano alla pari e nel 1975 Mosca aveva speso più di 
100 miliardi di dollari contro i 70 di Washington.  A questo dato egli intrecciava 
l’osservazione sulle dimensioni delle forze armate: nel 1975, i sovietici 
contavano un esercito di quasi 4,5 milioni di unità, contro i circa 2 milioni a 
disposizione dello Stato Maggiore americano.   
27
 Cit. in J. KEMP - L. ASPIN, How much Defense Spending is Enough?, American 
Enterprise Institute for Public Policy Research, Washington 1976, p. 4.   Kemp 
era un rappresentante repubblicano dello stato di New York, Aspin era 
democratico del Wisconsin. 
 17
la sopravvivibilità, ed i suoi dirigenti parlano addirittura di 
vittoria in caso di guerra nucleare”
28
.    
   Un’altra tradizione di politica estera era riemersa nel corso dei 
primi anni Settanta: nel giugno del 1972, Robert Tucker scrisse che 
 
 
Per oltre una generazione, gli americani hanno ritenuto 
talmente evidente l’indesiderabilità dell’isolazionismo da 
evitare persino di discuterne.   L’odierno rifiuto 
dell’isolazionismo è un pregiuzio non meno di quanto lo fosse 
la precedente obiezione alle alleanze. [...]    L’isolazionismo non 
deve essere identificato come una specie di “licenziamento dal 
mondo”, cosa che gli Stati Uniti non faranno mai.   Non deve 
essere identificato con l’assenza di qualsiasi rapporto 
significativo ma, piuttosto, con l’assenza di certi rapporti.   Una 
politica isolazionistica è caratterizzata principalmente dal 
rifiuto di aderire ad alleanze e di intraprendere interventi 
militari.
29
 
 
 
Il neoisolazionismo rimase sempre una dottrina marginale ma 
la sua semplice esistenza serve a comprendere il clima di profonda 
riflessione vissuto nell’ambito politico americano durante gli anni 
Settanta.   
Le nuove frontiere raggiunte dalla storiografia sulla guerra 
fredda contribuirono non poco ad intensificare il dibattito politico.   
Negli anni sessanta e settanta una nuova corrente storiografica – il 
revisionismo, inaugurato da William Williams – aveva violato 
l’assioma tradizionalista secondo il quale l’inizio del confronto 
bipolare sarebbe stato pienamente attribuibile all’aggressività 
sovietica.     
                                                 
28
 Ivi, pp. 4-5. 
29
 R.W. TUCKER, A new Isolationism: Threat or Promise?, Universe Books, New 
York 1972; p. 11-12.  
 18
Nell’infervorato confronto sulle origini della guerra fredda 
l’analisi revisionista esaltava le responsabilità americane associate 
allo sforzo permanente e reiterato di espansione del sistema 
capitalistico.
30
   Questa nuova chiave interpretativa mutava la 
veste degli Stati Uniti da quella della vittima innocente di una 
potenza ostile, totalitaria e malefica a quella dell’aggressore 
imperialista.    L’influenza del revisionismo si congiungeva con 
quella del declinismo per catalizzare, sia negli ambienti 
intellettuali che in quelli politici, il processo di ripensamento del 
ruolo dell’America nel mondo. 
Il culmine di questa epoca di riflessione è facilmente 
individuabile negli anni di Jimmy Carter alla Casa Bianca.    
Durante la campagna elettorale, egli parlò in termini assai vaghi e 
spesso contraddittori del programma di politica estera, 
sostenendo soprattutto la necessità di democratizzazione della 
prassi decisionale.   A ciò aggiunse una critica abbastanza generica 
della distensione e del modo in cui questa veniva affrontata 
dall’amministrazione Ford.   Carter, del resto, era tutt’altro che 
esperto di politica internazionale: per sette anni (dal 1946 al ’53) 
era stato un promettente ufficiale di marina, ma aveva 
abbandonato il corpo per sostituire il defunto padre nella gestione 
dell’impresa agricola familiare, nella campagna della Georgia.  
                                                 
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 Si vedano W.A. WILLIAMS, The Tragedy of American Diplomacy, World 
Publishers, Cleveland 1959 e L.C. GARDNER, Architects of Illusions: Men and 
Ideas in American Foreign Policy, 1941-49, Quadrangle Books, Chicago 1970.  Una 
rassegna di queste interpretazioni è in M.P. LEFFLER, The interpretative wars 
over the Cold War, 1945-1960, in American Foreign Relations Reconsidered, a cura di 
Gordon Martel, Routledge, London – New York 1994.  V. anche F. ROMERO, La 
Guerra fredda nella recente storiografia Americana, in «Italia Contemporanea», 
Settembre 1995, n. 200, pp. 397-412; e Gli Stati Uniti e le origini della guerra fredda, 
a cura di Elena A. Rossi, Il Mulino, Bologna 1985.