6
presidenziale di Eisenhower. Le lotte per i diritti civili
inaugurarono una lunga stagione di scontri istituzionali (fra Stati
ed autorità federali), politici (sia fra i due partiti, sia al loro
interno), generazionali, culturali. Il modello conservatore di
identificazione nazionale non fu più capace di generare consenso e
la vittoria, ancorché con margine ristrettissimo, di John Kennedy
alle elezioni del 1960 segnò il “risveglio del liberalismo”
3
.
La presidenza di Kennedy è ricordata per i primi dibattiti
televisivi fra i candidati, per il sogno della “Nuova Frontiera”, la
paura della crisi dei missili e, soprattutto, per l'epilogo tragico.
Gli assassini politici degli anni sessanta furono un'altra novità per
gli Stati Uniti: "prima degli omicidi di John e Robert Kennedy e di
Martin Luther King, pensavamo che la nostra fosse la nazione del
voto, non del proiettile" ha ricordato più tardi, nel 1979, Jimmy
Carter
4
.
Lyndon Johnson coagulò attorno al progetto di “Grande
Società” la vecchia coalizione elettorale del New Deal ed ottenne
la più grande vittoria elettorale della storia americana: era il
trionfo del riformismo liberale di stampo rooseveltiano. Ma:
Con la Grande Società i liberali giunsero al capolinea. Mentre
le rivolte urbane continuavano, le divisioni etniche e di classe si
aggravavano e lo scontro politico aumentava, i liberali non
avevano più risposte.
5
Il successo di Johnson, coronato dall'approvazione di riforme
che ancora oggi rappresentano l'ossatura del welfare americano,
fu l'ultimo della convergenza elettorale fra lavoro qualificato,
minoranze etniche, classe media urbana e bianchi del Sud.
3
D. STEIGERWALD, The Sixties and the End of Modern America, St. Martin's
Press' New York 1995; p. 6.
4
Jimmy Carter, 15-7-1979, «Public Papers of the Presidents», Jimmy Carter.
5
D. STEIGERWALD, The Sixties and the End of Modern America, St. Martin's
Press' New York 1995; p. 5.
7
Dopo il 1964, gli interessi di questi gruppi iniziarono a
divergere ed il liberalismo perse la caratteristica di mordente fra
forze sociali ormai in aperta frizione.
Il detonatore di tutte le tensioni nella società e nella politica
americane fu il Vietnam. Per dirla con Carter, “ci insegnavano che
i nostri eserciti erano invincibili e i nostri fini giusti, poi abbiamo
sofferto l'agonia del Vietnam”
6
. Johnson, “maestro del Senato”
7
ed abilissimo manovratore politico, si era lasciato intrappolare dai
paradigmi della guerra fredda e del contenimento trascinando gli
Stati Uniti in una “troia di guerra”
8
che avrebbe alterato
definitivamente la coscienza americana della propria potenza.
Attaccato anche all’interno del Partito Democratico, il presidente
decise di non candidarsi per un secondo mandato.
Nonostante le spaccature nel partito dell’asinello, la vittoria di
Nixon non fu agile: la sua base elettorale fu erosa a destra dalla
candidatura indipendente del governatore dell’Alabama George
Wallace, segregazionista e favorevole ad una soluzione estrema,
purché vittoriosa, della guerra. Nixon, che trasse il suo consenso
fra le forze moderate, vinse con un margine molto modesto (circa
mezzo milione di voti) sul rivale democratico, il vicepresidente in
carica Hubert Humphrey. Egli si insediò alla Casa Bianca nel
gennaio del 1969 col compito di restituire la nazione agli
“americani dimenticati che non urlano e non manifestano”
9
, alla
maggioranza silenziosa soverchiata dal rumore di una società
divisa.
6
Jimmy Carter, 15-7-1979, «Public Papers of the Presidents», Jimmy Carter.
7
R.A. CARO, The Years of Lyndon Johnson, Master of the Senate, Alfred A. Knopf,
New York 2002.
8
Lyndon Johnson, cit. in D. KEARNS, Lyndon Johnson and the American Dream,
Harper and Row Publishers, New York 1976, p. 251.
9
Richard Nixon, Nomination acceptance speech, Virginia Center for Digital
History, www.vcdh.virginia.edu .
8
In un primo momento, Nixon sembrò riuscire ad imboccare la
via d’uscita dalla “crisi spirituale”
10
del decennio ormai concluso:
nei ghetti urbani le rivolte (iniziate nel 1968 dopo gli assassini di
King e Robert Kennedy) si sedarono progressivamente e lo sbarco
di astronauti sulla luna trasmise per la prima volta un’immagine
di potenza americana dopo anni di “palude” vietnamita.
La violenza, però, continuò in molte università (Harvard,
Cornell, Wisconsin, Penn State, Howard, Massachusetts fra le più
importanti) e culminò il 4 maggio 1970 alla Kent State University,
dove la guardia nazionale sparò sulla folla di studenti
uccidendone quattro. La tensione emerse anche in forma di
rivolte nei penitenziari e attentati dinamitardi nelle sedi di grandi
aziende. I Sixties non erano ancora finiti.
Il presidente, servendosi della demagogia populistica del suo
vice Agnew, cercò di delegittimare l’opposizione radicale ma il
suo tentativo si risolse in una sconfitta politica alle elezioni di
medio termine del 1970. La rielezione di Nixon nel 1972 fu,
invece, il frutto della “strategia meridionale” messa in atto
dall’amministrazione che, cosciente della vulnerabilità del partito
repubblicano a destra dello schieramento politico, ne spostò il
baricentro nel tentativo di conquistare più consensi fra gli elettori
ultraconservatori, segregazionisti compresi. Il fattore
determinante della vittoria di Nixon fu, tuttavia, la rinuncia
forzata di Wallace, vittima di un attentato il 15 maggio 1972
(sopravvisse, ma ritirò la candidatura).
L’esplosione del caso Watergate pose fine prematuramente al
secondo mandato presidenziale di Nixon che rassegnò le
dimissioni il 9 agosto 1974. Gerald Ford si insediò dichiarando
che “la nostra costituzione funziona; la nostra grande repubblica è
10
Richard Nixon, 20-1-1969, «Public Papers of the Presidents», Richard Nixon.
9
uno stato di leggi, non di uomini. Qui è il popolo ad esercitare il
potere”
11
. I sixties erano finalmente finiti
12
: gli Stati Uniti ne
uscivano consumati dalla crisi economica, con una società lacerata
ed una potenza mondiale intatta ma ridimensionata
dall’esperienza del Vietnam e dal nuovo paradigma della
distensione.
Nel 1968, Nixon aveva accettato la nomination repubblicana
con un discorso di trentanove minuti durante il quale – ironia
della sorte – aveva profetizzato che era “giunto il momento di un
governo onesto negli Stati Uniti d’America”.
13
Nel 1976, Carter
concluse il suo breve discorso alla Convention democratica
garantendo che quello sarebbe stato “l’anno in cui il governo di
questo paese sarebbe stato restituito alla gente di questo paese”.
14
In effetti, il consenso che il governatore della Georgia ottenne non
fu né strutturale (risultato, cioè, di una coalizione elettorale
consolidata), né programmatico: il suo successo fu il frutto della
fiducia personale che suscitò nei cittadini.
Quasi tutti - come conseguenza del cinismo politico di Richard
Nixon, Lyndon Johnson ed ora Gerald Ford - svilupparono un
certo scetticismo verso ogni livello della politica e di coloro che
la esercitavano. L’eredità del Vietnam e di Watergate, per
come influenzarono la presidenza americana, fu una domanda
popolare di onestà nell’esercizio del governo.
15
Governatore della Georgia, Carter era una figura
sostanzialmente estranea al mondo politico di Washington: in
circostanze ordinarie, una simile condizione avrebbe costituito un
11
Gerald Ford, 9-8-1974, «Public Papers of the Presidents», Gerald Ford.
12
Per un esempio di questa periodizzazione degli anni Sessanta si veda D.
STEIGERWALD, The Sixties and the End of Modern America, St. Martin's Press'
New York 1995.
13
Richard Nixon, 8-8-1968: Watergate.info, www.watergate.info/nixon.
14
Jimmy Carter, 15-7-1976, The American Presidency Project,
www.presidency.ucsb.edu .
15
G.A. HAAS, Jimmy Carter and the Politics of Frustration, McFarland &
Company, Jefferson-London 1992.
10
ostacolo pressoché insormontabile per un candidato, ma nella
congiuntura del tutto originale del biennio 1975-76 essa si rivelò
un vantaggio. La combinazione fra sincera religiosità ed
estrazione provinciale (se non addirittura rurale) trasmettevano
un’immagine di Carter opposta rispetto allo stereotipo del
politicante: egli era un antipolitico. Questo termine assume due
valenze particolari: in prima istanza, la moralità e l’onestà
ponevano Carter in posizione antitetica rispetto a Nixon; ma la
sua spontanea (e talvolta ingenua) semplicità ne faceva anche un
antiJohnson. Questo senso di alterità che il “moralista
americano”
16
riuscì a trasmettere gli valse la vittoria, ma la natura
del suo consenso non fu affermativa: il suo successo fu più un
rifiuto del tipo politico nixoniano che non un mandato costruttivo.
L’America che elesse Carter era una nazione disillusa: il
modernismo, inteso come fiducia nell’infallibilità-invincibilità del
progresso (e del modello democratico americano), lasciava il posto
al declinismo
17
. A questa disillusione, legata in buona misura alla
sconfitta in Vietnam, si intrecciava la paura della perdita dei valori
democratici dei quali gli Stati Uniti si ergevano a protettori.
16
K.E. MORRIS, Jimmy Carter: American Moralist, University of Georgia Press,
Athens 1996.
17
Sulla fine del modernismo si veda ancora D. STEIGERWALD, The Sixties and
the End of Modern America, St. Martin's Press' New York 1995. Sul valore
periodizzante degli anni Settanta, G. ARRIGHI, Il lungo XX secolo, Il Saggiatore,
Milano 1994; E.J. HOBSBAWM, The Age of Extremes, Vintage Books, New York
1996; C. MAIER, Consigning the Twentieth Century to History: Alternative
Narratives for the Modern Era, in «American Historical Review», vol. 105, 2000,
n.3 e Id. Secolo corto o epoca lunga? L’unità storica dell’età industriale e le
trasformazioni della territorialità, in ‘900: i tempi della storia, a cura di Claudio
Pavone, Laterza, Roma 1997, pp. 29-56. Inoltre, sulla teoria del declino della
potenza egemonica, P. KENNEDY, The rise and fall of the great powers, Random
House, New York 1987 (trad. it.:P. KENNEDY, Ascesa e declino delle grandi
potenze, Garzanti, 1989) e R. GILPIN, War and Change in World Politics,
Cambridge University Press, Cambridge 1981.
11
L’aggressione di Cambogia e Laos così come, sul fronte interno,
la vicenda della Kent University ed il caso Watergate,
trasmettevano l’immagine di un’America imperialista ed anti-
democratica.
La fine dei sixties era arrivata insieme alla fine della “età
dell’oro”
18
: la stagnazione economica, l’incremento dei prezzi
petroliferi, l’inflazione galoppante e l’abbandono del sistema di
Bretton Woods non erano solo caratteristiche di una delle più
critiche fasi economiche internazionali del ventesimo secolo, erano
anche il colpo di grazia per l’illusione modernista della crescita
ininterrotta.
In questa congiuntura, Carter era un candidato ideale. Egli
prometteva un cambiamento profondo ma lo faceva con una
retorica sostanzialmente conservatrice, imperniata di moralismo
religioso ed al limite del populismo demagogico. Il suo
programma era abbastanza moderato e spesso risultava confuso e
contraddittorio: per effetto della propria devozione religiosa, ad
esempio, era contrario all’aborto ma, pur promettendo
provvedimenti per scoraggiarlo, riconosceva la legittimità della
libertà di scelta.
Con il tasso di disoccupazione ormai intorno all’8%, alcuni
liberali di tradizione newdealista e scuola johnsoniana
(Humphrey e Hawkins in testa) ipotizzavano un intervento del
governo federale per creare artificialmente posti di lavoro. Carter
era contrario a simili misure, pensava che la disoccupazione
andasse riassorbita favorendo, con tagli delle tasse, gli
investimenti privati, ma non escludeva l’eventualità di interventi
diretti e temporanei a sostegno di imprese in difficoltà.
18
E. HOBSBAWM, The age of extremes, Vintage Books, New York 1996.
12
Proprio mentre la sinistra del Partito Democratico proponeva di
riprendere il percorso delle riforme johnsoniane (da finanziare col
debito pubblico), il governatore faceva propria la causa
dell’austerità di bilancio per contenere l’inflazione che era
divenuta ormai insostenibile. Con coscienza retrospettiva è facile
individuare in questo periodo il principio di un cambiamento
storico – oggi assai evidente – nella dottrina economica dei due
partiti americani dominanti: mentre l’asinello si convertiva
progressivamente dai dogmi keynesiani all’assioma della
disciplina fiscale, nel GOP avveniva il processo inverso grazie
all’ascesa di Ronald Reagan e della piattaforma neoconservatrice.
Anche per quanto riguarda le relazioni internazionali l’elezione
di Carter avveniva in un momento critico. Nel 1969 gli Stati
Uniti avevano inaugurato un nuovo corso in politica estera: nel
suo discorso inaugurale, Nixon annunciò che “dopo un periodo di
competizione, stiamo entrando in un’era di negoziati”
19
. Tale era
di negoziati finì per essere chiamata détente: era un nome ufficioso,
mai codificato formalmente ed usato dai protagonisti della politica
internazionale con cauta parsimonia. Il significato del termine,
letteralmente distensione, non era univoco e mentre fu
interpretato diversamente da sovietici ed americani, assunse
anche valenze diverse presso gli amministratori che si
susseguirono a Washington nel corso degli anni Settanta. La
distensione non era un progetto organico ma finì nondimeno per
essere un paradigma: détente era soprattutto volontà di perseguire
la sicurezza nazionale abbandonando gli schemi tradizionali del
contenimento e della competizione atomica. Nixon aveva ragioni
contingenti per perseguire il miglioramento delle relazioni
diplomatiche con Mosca – sperava, per esempio, di trarne
19
Richard Nixon, 20-1-1969, «Public Papers of the Presidents», Richard Nixon.
13
vantaggio nella gestione della questione vietnamita – ma
l’esigenza di ridefinire la politica estera americana aveva radici
ben più profonde.
Nel corso degli anni Sessanta la potenza relativa degli USA era
diminuita nettamente rispetto all’egemonia economica e militare
del decennio precedente
20
. Il successo della ricostruzione
(democratica e capitalistica) in Europa occidentale ed in Giappone
era culminato nell’affermazione di questi nuovi poli economici.
L’effettivo raggiungimento della parità nucleare da parte
dell’Unione Sovietica è ancora oggetto di dibattito, ma occorre
comunque enfatizzare l’emersione di un nuovo tipo di equilibrio
strategico e militare caratterizzato dalla prospettiva della
distruzione reciproca assicurata in caso di scontro atomico e,
conseguentemente, di una forza deterrente sempre più intensa
21
.
Con la guerra in Vietnam era divenuta palese l’insostenibilità
della tradizionale politica di contenimento: lo scarto, conosciuto
come Lippmann gap, fra gli impegni internazionali e la potenza
americana era cresciuto a dismisura ed aveva reso la politica
estera americana “insolvente”
22
.
20
P. KENNEDY, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano 1989.
21
La Mutual Assured Distruction (MAD) era il frutto della riflessione di Robert
McNamara. Egli introdusse il concetto della “distruzione assicurata”, vale a
dire la possibilità da parte degli Stati Uniti di reagire ad un eventuale attacco
nucleare sovietico producendo “un grado inaccettabile di distruzione” nel
territorio nemico. Simile capacità di reazione avrebbe di fatto esercitato una
forza deterrente sufficiente ad evitare un first strike. Quando divenne chiaro che
anche l’Unione Sovietica sarebbe stata capace di sopravvivere ad un primo
attacco conservando forza nucleare sufficiente a causare ampie devastazioni al
territorio americano, allora si iniziò a parlare di distruzione reciproca
assicurata. (Robert Mc Namara, 18-9-1967: CNN.com,
www.cnn.com/SPECIALS/cold.war/ ).
22
W. LIPPMANN, U.S. Foreign Policy: Shield of the Republic, Little Brown, Boston
1943; S.P. HUNTINGTON, Coping with the Lippmann Gap, in «Foreign Affairs»,
Vol. 66, No. 3, America and the World 1987/88; pp. 453-477; E.A. COHEN,
When Policy Outstrips Power, in «The Public Interest», Vol. 2, Issue 75, Spring
1984.
14
La pratica del contenimento, in altre parole, aveva sbilanciato
gli Stati Uniti verso l’esterno, in una congiunzione di
sovraesposizione strategica e recessione economica interna. Il
declino relativo della superpotenza americana era evidente e, per
arrestarlo, occorreva innanzitutto prenderne atto e ristabilire le
dovute proporzioni fra l’impegno internazionale e la forza
effettiva degli USA.
23
Toccò a Nixon ed al suo consigliere per la sicurezza nazionale,
Henry Kissinger, riconoscere i limiti della potenza americana e
prendere atto del nuovo equilibrio economico mondiale che
andava rapidamente delineandosi. Nel 1969 Nixon enunciò a
Guam la sua dottrina: gli Stati Uniti avrebbero mantenuto i loro
impegni internazionali, ma avrebbero delegato maggiori
responsabilità agli alleati. Nel 1971 il presidente pose
unilateralmente termine al sistema monetario di Bretton Woods:
l’abolizione della convertibilità del dollaro in oro sanciva
palesemente il mutamento, di fatto latente già da un decennio,
verso un equilibrio economico internazionale meno polarizzato.
Kissinger fu più di un protagonista, egli fu il regista della
politica estera americana nel periodo (1969-1977) in cui fu prima
National Security Adviser, poi anche segretario di Stato. Per
l’autorità che aveva assunto e l’autonomia del suo esercizio,
Kissinger prese ad esser chiamato lone ranger e la sua attività
diplomatica era articolata attorno ai principi di un energico
realismo geopolitico. Kissinger organizzò in chiave antisovietica
l’avvicinamento sino-americano, ma si adoperò anche per ridurre
le tensioni con Mosca in cerca di una stabilità di comune interesse.
23
P. KENNEDY, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano 1989.
15
L’apice della carriera del lone ranger fu la conclusione degli
accordi di Parigi coi quali, nel 1973, fu posta fine alla guerra del
Vietnam. L’amministrazione americana, cosciente che il Vietnam
del sud era destinato al collasso, sperava che il regime filo-
occidentale avrebbe resistito abbastanza a lungo da evitare che la
sua capitolazione fosse interpretata come una sconfitta degli Stati
Uniti. Saigon, invece, cadde nel 1975, quando Kissinger stava già
affrontando le prime critiche per la sua diplomazia personalistica.
Zbigniew Brzezinski, eminente professore di politica
internazionale alla Columbia University di New York, imputò a
Kissinger di non avere un progetto organico ma di cercare solo
compromessi circostanziali: c’è bisogno – scrisse – di “architecture,
not acrobatics”
24
. Anche nel Congresso aumentava il disagio per
l’azione del lone ranger e lievitava il desiderio di un maggior
controllo democratico della politica estera.
Alla presidenza di Ford era corrisposto il declino della détente: il
crollo dei regimi anticomunisti in Cambogia e Sud Vietnam e la
guerra civile in Angola avevano eroso il consenso alla distensione
e rilanciato la popolarità del contenimento. Il presidente cessò di
usare pubblicamente la parola détente e, nel compilare la
programmazione economica per il biennio 1976-77, chiese al
Congresso un aumento del 7% nella spesa militare. Al tempo
stesso però, per cercare di mantenere la sua amministrazione
compatta, Ford aveva licenziato coloro che al suo interno erano
critici della distensione, a partire dal segretario della difesa James
R. Schlesinger. Il rimpasto non fermò, però, il generale processo
di ripensamento della politica estera americana.
24
Z. BRZEZINSKI, The deceptive structure of peace, in «Foreign Affairs», No. 14,
Spring 1974; p. 35.
16
Uno spettro minaccia l’Europa: non lo spettro del comunismo
evocato in queste famose parole da Karl Marx nel 1848, bensì lo
spettro dell’egemonia sovietica. Questo spettro nasce dalla
costante espansione della potenza militare dello Stato sovietico.
Ma rimane contingente per la diminuzione della fermezza
Americana, mentre l’America, ferita dal travaglio interno e
dalle battute d’arresto esterne dell’ultimo decennio, si
preoccupa dei suoi problemi interni e delle sue divisioni
interne.
25
Schlesinger suonava un campanello d’allarme: egli esortava gli
Stati Uniti a non abbassare il livello di attenzione di fronte ad una
minaccia sovietica descritta come ancora attuale ed imminente.
Secondo lui, l’America aveva riposto troppa fiducia nei
meccanismi della distensione e della deterrenza lasciando
pericolosamente ai sovietici il tempo e la possibilità di colmare
ogni precedente ritardo in materia di difesa.
26
“Proprio come i
francesi si rifugiarono dietro la linea Maginot” - gli faceva eco Jack
Kemp - “un fastidioso numero di americani si rifugia oggi dietro
la nozione della distruzione reciproca assicurata”
27
. Questo
genere di critica originava dalla convinzione che la deterrenza non
potesse funzionare in caso di inferiorità strategica americana
perché i dirigenti moscoviti non avevano abbandonato l’ipotesi di
un first strike: “l’Unione Sovietica” – ammoniva Kemp – “enfatizza
25
J.A. SCHLESINGER, A Testing Time for America, in «Fortune», February 1976,
Vol. XCIII, No. 2; p. 75.
26
L’analisi di Schlesinger si basava sostanzialmente sul livello comparato di
spesa militare fra U.R.S.S. ed U.S.A. negli anni della détente: se, nel 1968, la
spesa americana per la difesa era nettamente superiore a quella sovietica, nel
1970 i due livelli di spesa erano alla pari e nel 1975 Mosca aveva speso più di
100 miliardi di dollari contro i 70 di Washington. A questo dato egli intrecciava
l’osservazione sulle dimensioni delle forze armate: nel 1975, i sovietici
contavano un esercito di quasi 4,5 milioni di unità, contro i circa 2 milioni a
disposizione dello Stato Maggiore americano.
27
Cit. in J. KEMP - L. ASPIN, How much Defense Spending is Enough?, American
Enterprise Institute for Public Policy Research, Washington 1976, p. 4. Kemp
era un rappresentante repubblicano dello stato di New York, Aspin era
democratico del Wisconsin.
17
la sopravvivibilità, ed i suoi dirigenti parlano addirittura di
vittoria in caso di guerra nucleare”
28
.
Un’altra tradizione di politica estera era riemersa nel corso dei
primi anni Settanta: nel giugno del 1972, Robert Tucker scrisse che
Per oltre una generazione, gli americani hanno ritenuto
talmente evidente l’indesiderabilità dell’isolazionismo da
evitare persino di discuterne. L’odierno rifiuto
dell’isolazionismo è un pregiuzio non meno di quanto lo fosse
la precedente obiezione alle alleanze. [...] L’isolazionismo non
deve essere identificato come una specie di “licenziamento dal
mondo”, cosa che gli Stati Uniti non faranno mai. Non deve
essere identificato con l’assenza di qualsiasi rapporto
significativo ma, piuttosto, con l’assenza di certi rapporti. Una
politica isolazionistica è caratterizzata principalmente dal
rifiuto di aderire ad alleanze e di intraprendere interventi
militari.
29
Il neoisolazionismo rimase sempre una dottrina marginale ma
la sua semplice esistenza serve a comprendere il clima di profonda
riflessione vissuto nell’ambito politico americano durante gli anni
Settanta.
Le nuove frontiere raggiunte dalla storiografia sulla guerra
fredda contribuirono non poco ad intensificare il dibattito politico.
Negli anni sessanta e settanta una nuova corrente storiografica – il
revisionismo, inaugurato da William Williams – aveva violato
l’assioma tradizionalista secondo il quale l’inizio del confronto
bipolare sarebbe stato pienamente attribuibile all’aggressività
sovietica.
28
Ivi, pp. 4-5.
29
R.W. TUCKER, A new Isolationism: Threat or Promise?, Universe Books, New
York 1972; p. 11-12.
18
Nell’infervorato confronto sulle origini della guerra fredda
l’analisi revisionista esaltava le responsabilità americane associate
allo sforzo permanente e reiterato di espansione del sistema
capitalistico.
30
Questa nuova chiave interpretativa mutava la
veste degli Stati Uniti da quella della vittima innocente di una
potenza ostile, totalitaria e malefica a quella dell’aggressore
imperialista. L’influenza del revisionismo si congiungeva con
quella del declinismo per catalizzare, sia negli ambienti
intellettuali che in quelli politici, il processo di ripensamento del
ruolo dell’America nel mondo.
Il culmine di questa epoca di riflessione è facilmente
individuabile negli anni di Jimmy Carter alla Casa Bianca.
Durante la campagna elettorale, egli parlò in termini assai vaghi e
spesso contraddittori del programma di politica estera,
sostenendo soprattutto la necessità di democratizzazione della
prassi decisionale. A ciò aggiunse una critica abbastanza generica
della distensione e del modo in cui questa veniva affrontata
dall’amministrazione Ford. Carter, del resto, era tutt’altro che
esperto di politica internazionale: per sette anni (dal 1946 al ’53)
era stato un promettente ufficiale di marina, ma aveva
abbandonato il corpo per sostituire il defunto padre nella gestione
dell’impresa agricola familiare, nella campagna della Georgia.
30
Si vedano W.A. WILLIAMS, The Tragedy of American Diplomacy, World
Publishers, Cleveland 1959 e L.C. GARDNER, Architects of Illusions: Men and
Ideas in American Foreign Policy, 1941-49, Quadrangle Books, Chicago 1970. Una
rassegna di queste interpretazioni è in M.P. LEFFLER, The interpretative wars
over the Cold War, 1945-1960, in American Foreign Relations Reconsidered, a cura di
Gordon Martel, Routledge, London – New York 1994. V. anche F. ROMERO, La
Guerra fredda nella recente storiografia Americana, in «Italia Contemporanea»,
Settembre 1995, n. 200, pp. 397-412; e Gli Stati Uniti e le origini della guerra fredda,
a cura di Elena A. Rossi, Il Mulino, Bologna 1985.