Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
6
induttivo, ma può eventualmente rettificare voci della contabilità la cui “erroneità,
incompletezza o infedeltà sia sorretta e provata da presunzioni gravi e
concordanti, così come da normativa civile
2
”. Si tratta, quindi, di una forma di
accertamento con una funzione eventuale di controllo, frutto dell’impossibilità
pratica di effettuare un accertamento generalizzato proprio a causa del
moltiplicarsi degli obblighi formali oggettivamente imposti ai contribuenti dalla
nuova riforma.
Questa appare la principale peculiarità della riforma del Cosciani, che ne
costituisce l’asse portante in grado di approntare una serie di criteri cardine
nell’attuazione dell’accertamento dei redditi d’impresa, con il merito di aver
limitato al massimo qualsiasi forma di discrezionalità e approssimatività nella
delicata fase del controllo, ma anche coresponsabile nell’aver moltiplicato una
serie di adempimenti burocratici che costituiranno quel nodo inestricabile del
sistema fiscale italiano.
In sostanza, si delinea perciò una filosofia che, perlomeno nella
discussione teorica, si contrapponeva ai metodi forfetari e paracatastali del reddito
normalizzato di tradizione einaudiana, una impostazione che quindi non poteva
non avere, anche, evidenti risvolti di carattere politico e culturale
3
.
L’aspetto caratterizzante, invece, che nel dibattito accademico si riscontra
in via maggioritaria, in contrasto con l’impostazione del legislatore degli anni ’70,
è l’incertezza sulla validità di quell’identità: il reddito effettivo ha natura
tendenziale o convenzionale, secondo alcuni è addirittura “un’utopia, un ideale
non realizzabile
4
”.
2
Art. 2729 C.C.
3
A. FOSSATI, “Reddito di impresa minore, reddito normale e reddito personale”, in M. Leccisotti
(a cura di), La tassazione delle imprese minori, Il Fisco n. 27/95, p. 6897. L’autore l’ha definita
“una riforma di stampo postilluminista”.
4
Cfr. A. FOSSATI, “Reddito di impresa minore, reddito normale e reddito personale”, op. cit. R
LUPI, Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, p. 91. Secondo
questa teoria “il reddito non è una realtà ontologica preesistente al dato normativo, ma un dato
costruito secondo scelte del legislatore, che non considerano sempre ugualmente le effettive
caratteristiche economiche dei fenomeni”.
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
7
Così mentre astrattamente risulta difficile negare che sia più giusto tassare
il reddito effettivamente percepito piuttosto che un reddito medio, o comunque
fissato con criteri convenzionali, la riflessione teorica ci spinge parallelamente ad
ipotizzare che è lo stesso reddito contabile a caratterizzarsi, sotto alcuni aspetti,
per la sua natura convenzionale. Tale conclusione è effettivamente riscontrata non
soltanto nella legislazione fiscale vigente, ma anche negli stessi criteri
metodologici applicati nell’economia aziendale.
Infatti, soltanto il reddito totale, determinabile nel momento in cui cessa
l’attività economica formante l’oggetto dell’impresa, può essere considerato
reddito effettivo. Un concetto che viene a concretizzarsi come intangibile, non
determinabile, in coerenza con la stessa definizione temporale d’impresa.
Innegabile è tuttavia l’esigenza, per scopi innanzitutto gestionali da parte del
soggetto economico oltre che naturalmente di gettito riferiti all’amministrazione
finanziaria, di verificare periodicamente i risultati conseguiti. Questi sono il frutto
di una serie di regole, e pure di convenzioni contabili aggiungiamo, che la stessa
dottrina aziendalistica detta attraverso specifici principi, poi interiorizzati dalla
norma, posti a soluzione di talune difficoltà riscontrate nella determinazione della
base imponibile:
- si applica il principio di annualità del bilancio di esercizio, di
fronte ad un fisiologico andamento variabile nel tempo dei fatti
economici;
- si ricorre spesso a presunzioni e stime contabili come nel caso dei
beni in corso di lavorazione, dei crediti inesigibili, delle quote di
ammortamento determinate secondo criteri obiettivamente non
tali da poter essere in grado di rispondere a quel rigore che
l’effettività di un risultato richiederebbe, cioè non in base
all’ammortamento economico inteso come la residua possibilità
di utilizzazione del bene strumentale;
- si adottano eccessive semplificazioni, e talvolta arbitrarietà, nelle
valutazioni di voci, quali il riporto delle perdite, le forme di
ammortamento atipico, il valore delle rimanenze, spesso più
orientate ad obiettivi di politica economica e di incentivazione
degli investimenti che non al raggiungimento di quel reddito
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
8
effettivo teoricamente descritto come prodotto delle scritture
contabili;
- si pone rimedio, anche qui in maniera convenzionale, alle naturali
distorsioni di matrice inflattiva sia sull’imponibile sia
sull’imposta.
Di conseguenza, ci si interroga se non sia proprio l’economia aziendale, e
la norma che sovente il legislatore costruisce sulle sue tracce, a minare le
fondamenta teoriche della identità reddito effettivo - reddito contabile.
A tal proposito interessante è riportare la polemica, assai radicale,
dell’Einaudi su tale identità, che non manca di definire “il mito dei miti, il mito
sacro, un mito procreato da una assai rozza varietà della ragion ragionante, quella
contabilistica
5
”. E’ sempre lo stesso a sottolineare che la divisione del tempo in
intervalli finiti è un artificio, necessario ma artificio
6
. Così come il confronto tra
quantità riferite a momenti temporali diversi, anche ciò alla base delle
argomentazioni di chi, nel dibattito, viene a suggerirci una conclusione dal
contenuto forse troppo definitivo: il reddito effettivo non esiste, è un’invenzione.
D’altro canto, possiamo affermare che il criterio analitico-contabile è
un’ipotesi di determinazione che come tale è oggetto di analisi e applicazione
(anche queste sono state le intenzioni dei riformatori del Settanta), ma è altrettanto
ardito appellarsi a tale criterio come portatore del principio di giustizia nella sua
identificazione con l’effettività del risultato economico.
Ma la valutazione sull’efficacia e la bontà di un criterio, a nostro avviso, si
basa sulla concretizzazione di una verifica, sulla pratica applicazione nell’ambito
della realtà cui è riferita dal punto di vista della normativa e della sua
rappresentazione.
5
L. EINAUDI, Miti e paradossi della giustizia tributaria, Torino, 1956, p. 182. Da convinto
teorico del reddito normale, sul bilancio fiscale così affermava: “Il saldo al 31 dicembre non
dimostra di essere il vero reddito effettivo. E’ un numero che pareggia i conti. Nient’altro”.
6
IV Commissione permanente della Camera dei Deputati, Relazione, “il reddito risultante dal
bilancio d’esercizio non può essere mai (…) un reddito effettivamente prodotto o, come anche si
dice, realmente conseguito, potendo essere soltanto inteso come soggettiva espressione monetaria
del risultato economico riferito all’esercizio dell’impresa per il periodo preso in considerazione”.
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
9
Il criterio analitico-contabile, se da una parte può forse non riuscire a
descrivere con esattezza ciò che effettivamente si è raggiunto in termini di reddito,
dall’altra viene ad essere posto in discussione se la valutazione si sposta sul lato
del soggetto passivo. Come rilevato empiricamente, nella stragrande maggioranza
dei casi il contribuente tende ad indirizzare la propria contabilità verso dimensioni
più che favorevoli alla propria funzione di utilità, per mezzo di fenomeni elusivi
ed evasivi
7
. E questa rappresentava, e purtroppo ancora sembra rappresentare, la
filosofia di sopravvivenza
8
di molti contribuenti, in particolare di quelli minori.
Perciò, non una banale trasposizione di uno dei tanti luoghi comuni della nostra
società, ma la premessa necessaria all’oggetto del presente lavoro: gli studi di
settore come moderno strumento di accertamento extracontabile teso a combattere
l’evasione fiscale. Insomma, per il mondo delle PMI, l’applicazione del criterio
contabile cela il rischio di generare un risultato più distante da quello desiderato,
ossia che il contributo di ciascuno non è in relazione al proprio reddito, ma in
relazione inversa alla capacità di occultare il reddito.
Ma perché proprio le PMI? La piccola e media impresa che presenta
particolari problemi dal punto di vista fiscale è essenzialmente quella le cui
dimensioni escludono la necessità di una organizzazione amministrativa. Esiste
una struttura molto semplice che spesso esclude ogni forma di contabilità a scopo
gestionale, e quindi a univoco vantaggio del nostro soggetto economico. Dunque,
quella contabilità che troviamo è contabilità fiscale, una realtà che nella pratica
risulta tenuta e manipolata solo a fini fiscali.
7
V. VISCO, Il fisco giusto, Il Sole 24 ore, Milano, 2000, p. 170. Secondo l’ex ministro “negli
studi economici tax evasion e tax avoidance vengono equiparate”.
8
A. FOSSATI, “Reddito di impresa minore, reddito normale e reddito personale”, op. cit., “la
spiegazione di tale comportamento evasivo nel mondo delle piccole e medie imprese è fornito da
due diverse scuole di pensiero: i giustificazionisti, secondo i quali la regressività dell’imposta
spinge i contribuenti a non adempiere al proprio dovere tributario come forma di difesa, i
partigiani del free riders, che teorizzano un comportamento strategico da parte dei contribuenti che
massimizzano il proprio reddito fiscale netto tenendo conto della probabilità di essere scoperti e
della relativa sanzione”.
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
10
Proprio in queste condizioni risulta più che possibile, per il piccolo
imprenditore o per il commerciante, provvedere a dichiarare fatti diversi da quelli
accaduti, rimarcando quella divergenza tra reddito contabile (in questo caso
aggravato dalla falsa dichiarazione) e reddito effettivo, che molti avevano già
teoricamente sostenuto.
A più di trent’anni di distanza si può probabilmente affermare che negli
anni ’70, in sede di riforma, fu commesso un grave errore, e cioè quello di
uniformare la normativa fiscale rivolta alle grandi concentrazioni di strutture
produttive e distributive con quella della piccola realtà, quella della dispersione e
della polverizzazione delle strutture imprenditoriali. E l’Italia è la culla di queste
ultime microidentità economico-produttive che, a differenza di quanto recitava la
Commissione per lo studio della riforma tributaria
9
, almeno secondo la maggior
parte della teoria
10
, già allora non erano soltanto una miriade ma un settore chiave
dell’economia italiana proprio in termini di produzione di reddito. Proseguendo
nella nostra analisi, risulta altrettanto difficile negare che fu proprio partendo da
ipotesi poco realistiche che conseguirono conclusioni invalide per il sistema
fiscale italiano, date dal non corretto riconoscimento normativo di quella piccola
impresa tipicamente nostrana
11
. La riforma del Cosciani è, soprattutto per questa
grave inaderenza, tuttora oggetto nella sua impostazione di aspre critiche, al di là
di quelle di ordine strettamente tecnico mosse da alcune parti della dottrina
12
e più
propriamente riferite all’azzeramento di ogni forma di finanza locale autonoma, al
9
Milano, 1969, “La Commissione ha tenuto presente inoltre che il sistema economico italiano è
caratterizzato da un alto grado di concentrazione del valore aggiunto e del ricavo lordo per cui le
piccolissime imprese rappresentano una percentuale molto elevata dei contribuenti e una piccola
percentuale del valore aggiunto e del fatturato totale”.
10
G. TREMONTI, La riforma fiscale, Milano, 1994, p. 49. V. VISCO, Il fisco giusto, op. cit.
11
G. TREMONTI, G. VITALETTI, La fiera delle tasse, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 104.
12
G. TREMONTI, La riforma fiscale, p. 44, op. cit., “(…) su questo sottofondo si è inserita la più
moderna delle dottrine politiche: il primato del dover essere sull’essere, dell’ideologia sulla realtà,
del legislatore sull’operatore”.
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
11
conservatorismo nei confronti delle vecchie tasse, ad un eccessivo giustizialismo
formale, ad una produzione legislativa su larga scala. Nel tempo, quindi, le
valutazioni negative sono andate focalizzandosi essenzialmente nei riguardi di
questo modello, che sul piano normativo negligeva le differenze esistenti a livello
economico tra il complesso mondo delle PMI e la statica realtà della grande
impresa.
Un modello analitico-contabile che la riforma proponeva e che però per
taluni aspetti rappresentava anche, dal punto di vista dell’amministrazione
finanziaria, un salto di efficacia: la contrattualità e la contabilità accompagnata
alla diffusione della grande impresa, in particolare se posseduta da numerosi soci
e ricorrente all’indebitamento esterno. Ciò perché, in questa fattispecie o in quelle
similari, tutto opera a favore della trasparenza dei risultati economici, ed in specie
dell’ammontare delle vendite e dei costi monetari. Per cui risulterebbe
estremamente difficoltoso, perché costoso verso i terzi creditori e rischioso nei
confronti dei soci, lo sviluppo di un sistema di doppia contabilità: quella reale a
scopi gestionali e quella “calibrata” alle finalità fiscali.
Quindi, fu proposto un modello anche efficace, ma inserito in una riforma
che nella sua integrale applicazione non nascondeva lacune e inefficacia,
soprattutto se rapportata a quel mondo reale che aveva il compito di regolare nella
sua espressione normativa. Questo perché, ed è il caso di ribadirlo, l’Italia non era
soltanto grande impresa sotto il piano microeconomico, produttivo, sociale, ma
anche una rete di piccole e medie realtà che, col passare degli anni, avrebbe
registrato un notevole sviluppo.
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
12
2. La Visentini-ter, sulle orme di un reddito normale?
Ma la riforma adottata in Italia già nel 1974 non si concretizzò soltanto nella
rappresentazione contabile-dichiarativa del reddito, che rispondeva comunque ad
idee ampiamente dominanti sul piano internazionale. Altro fattore, rimarcato più
volte dalla critica dottrinaria, è rappresentato dalla totale mancanza di strumenti
conoscitivi complementari, soprattutto nei soggetti ammessi al regime della
contabilità semplificata per i quali la stessa costruzione contabile del reddito, nella
logica dei principi analitici, veniva a mancare di alcuni indispensabili punti di
appoggio.
Il periodo che intercorre tra il 1974 e il 1984, e cioè fino all’entrata in
vigore della Visentini-ter, è la storia dell’acuirsi di questa carenza. Al garantismo
nei confronti del contribuente, registrato nelle misure di determinazione e di
accertamento analitico-contabile del reddito, rispose ben presto la tangibile realtà
dell’evasione fiscale e, più in particolare, l’impotenza della nostra
amministrazione finanziaria di fronte a dichiarazioni che, dietro un rigoroso
rispetto del formalismo contabile richiesto dalla normativa, nascondevano una
serie di distorsioni e di occultamenti. Quindi, l’accertamento analitico contabile
faceva sì che, laddove il piccolo contribuente avesse applicato la necessaria e
minuziosa prudenza nel rispetto della forma richiesta, il controllo del dichiarato
non si sarebbe mai verificato e il soggetto passivo evasore avrebbe potuto
continuare a celarsi dietro una contabilità formalmente ineccepibile.
Il D.L. 19 dicembre 1984 n. 853, convertito nella legge 17 febbraio 1985,
n. 17, meglio nota come Visentini-ter, segna dunque un passo rilevante verso un
ritrovato interesse per forme d’imposizione di fasce di valori, piuttosto che di
redditi determinati e pure accertati in via esclusivamente contabile. La struttura
della norma risultava sostanzialmente basata sul presupposto che le peculiarità di
alcune categorie di contribuenti non lasciassero, di fatto, valide alternative. Tale
provvedimento poneva le imprese di fronte alla scelta tra la contabilità ordinaria e
l’applicazione, in via semplificata, di nuovi criteri di determinazione
dell’imponibile: il sistema forfetario.
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
13
Un meccanismo di accertamento del reddito d’impresa e di lavoro
autonomo che andava ad incidere indirettamente su i ricavi e i compensi
dichiarati, attraverso l’applicazione di coefficienti di abbattimento determinati,
avendo riguardo ai diversi settori economici maggiormente significativi. Questa
norma merita particolare attenzione perché, proponendo una forma di
accertamento extracontabile, veniva a rappresentare una deroga al principio di
certezza delle scritture contabili, ossia al presupposto fondante della riforma del
1973.
L’accertamento induttivo è utilizzato ora anche in presenza di registrazioni
effettuate correttamente, qualora l’Ufficio accertatore presuma, sulla scorta di
quegli accertamenti extracontabili predeterminati legislativamente, che i ricavi e i
compensi non corrispondano al vero.
Di certo le difficoltà e qualche limite non mancano neanche in questa
impostazione, che taluni
13
non hanno mancato di definire “una necessaria risposta
politica all’emergenza del momento”. Il provvedimento prevedeva che l’onere
della prova restasse ancora in capo all’amministrazione che non sempre,
attraverso le presunzioni qualificate degli indici extracontabili utilizzati, riusciva a
smentire la contabilità del soggetto passivo. Inoltre, nel momento in cui le
scritture contabili venivano ad essere smentite, l’ufficio si trovava a fare i conti
con la necessità di determinare esso stesso il presupposto d’imposta, sulla base
degli elementi a sua disposizione.
Si trattava indubbiamente di un’operazione complessa in una realtà
storicamente sviluppatasi sulla scia della rideterminazione contabile dell’imposta,
ossia una realtà estranea a quegli stessi indici che l’avevano smentita. In ultima
analisi, questo provvedimento innescava, ed innescò, un forte processo di
adeguamento dei contribuenti in contabilità semplificata, e quindi sottoposti a un
“rischioso” regime forfettario, alla contabilità ordinaria, andando ad accrescere di
conseguenza la massa dei contribuenti sottoposti ai già numerosi obblighi formali
imposti dalla norma.
13
E. LONGOBARDI, V. RAZZANO, “Il nuovo regime fiscale per le imprese minori e i lavoratori
autonomi: verso un concetto di reddito normale?”, in M. Leccisotti (a cura di), Per un’imposta sul
reddito normale, Il Mulino, Bologna, 1990, p. 291.
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
14
La critica di matrice tecnica manifestò evidente riscontro in dati statistici,
legati alla fuga dei contribuenti verso il sistema contabile ordinario, che
rivelavano un risultato concreto assai deludente. Infatti i contribuenti soggetti alla
Visentini, certamente anche perché abituati ad una diversa filosofia di
accertamento, avevano dimostrato di non gradire l’innovazione normativa della
legge.
A nostro avviso, però, risulta pure un aspetto positivo estrapolabile, e cioè
il passo innanzi compiuto rispetto ad una realtà dichiarativa non ordinaria, dove
occultamenti e strategie contabili di evasione avevano preso piede. Insomma,
occorre ribadire che lo strumento, scaturito a seguito della Visentini-ter, era da
intendersi nella sua natura di accertamento meramente induttivo e non come
strumento di determinazione del reddito, che rimaneva inequivocabilmente
analitico.
Fu proprio da questo passo che il dibattito della scienza delle finanze e del
diritto tributario sottolineò una serie d’interrogativi. Tra questi, particolare
attenzione merita quello relativo all’applicazione del metodo induttivo di
accertamento: si discute infatti se questo comporti il passaggio dalla tassazione
del reddito effettivo-contabile a quella del reddito normale. Ci si è chiesti
insomma se questa legge avesse segnato il primo passo verso il definitivo
abbandono dell’ambizione di tassare l’universo degli operatori autonomi con
logiche ispirate al criterio della determinazione analitica del reddito, come nelle
intenzioni del legislatore del 1973, oppure se la soluzione andasse ricercata in un
ritorno alla filosofia originaria della riforma, confutata nell’applicazione concreta
dalla dilatazione patologica dell’area della contabilità semplificata, quella in cui
nella stessa semplificazione degli obblighi si annidava la falsa dichiarazione.
Autorevole dottrina tributaria sembra aver dato, a tal proposito, risposta
convincente
14
, cui riteniamo di associarci. Infatti, nei sistemi fiscali come il
nostro, costruiti su presupposti d’imposta di tipo analitico, la dimostrazione
induttiva di un maggior reddito attiene normativamente al fronte
dell’accertamento e non a quello della determinazione del reddito in via
14
F. GALLO, “Il dilemma reddito normale o reddito effettivo: il ruolo dell’accertamento
induttivo”, in M. Leccisotti (a cura di), Per un’imposta sul reddito normale, p. 309, op. cit.
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
15
automatica. Quindi, in questo genere di sistemi, l’accertamento induttivo è
strumento non determinativo di un reddito medio bensì probatorio di quel reddito
che, a dispetto di molti autori, chiameremo convenzionalmente “effettivo”.
Quindi, la legge in esame non ipotizza minimamente una determinazione del
reddito delle piccole e medie imprese fondata su logiche di tipo catastale.
Per concludere, prima di approntare un’analisi sul significato di
determinazione extracontabile del reddito o reddito normale, vale la pena
sottolineare il giudizio da noi espresso su questo provvedimento. La Visentini-ter
non ha voluto rendere irrilevante il reddito contabile, bensì superare quell’impasse
derivante dalle difficoltà di effettuare ricostruzioni attendibili relative a quelle
categorie di contribuenti che, più degli altri, sono nelle condizioni di sottrarsi al
dovere contributivo. Al di là dei scarsi risultati raggiunti nel breve periodo, tale
sistema ha avuto, senza dubbio, un ruolo determinate nell’evoluzione degli
strumenti di accertamento che, in seguito, dovranno la loro natura ai fondamenti
propri della Visentini.
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
16
3. Il concetto di reddito normale
In un vivace quadro dibattimentale attorno al concetto di normalizzazione del
reddito, spesso non soltanto dovuto al confronto interno alla dottrina ma anche
attinente al mondo degli operatori e della politica, risulta necessario distinguere
tra due scopi sostanzialmente diversi per cui si ricorre all’utilizzo del reddito
normale:
- come base imponibile dell’imposta;
- come strumento, a beneficio delle autorità fiscali, di
determinazione del sistema di accertamenti.
In questo paragrafo ci limiteremo ad approfondire il primo dei due
approcci, segnalando che l’analisi del secondo verrà approntata nell’ambito degli
argomenti attinenti ai diversi strumenti che la nostra legislazione ha prodotto con
la funzione di accertamento induttivo extracontabile.
In verità, quando si discute di questo concetto, non si può non trattare il
suo strenuo assertore, Luigi Einaudi. Certo, tra le diverse evoluzioni che la sua
definizione ha avuto nel tempo dal punto di vista funzionale e del dibattito, la
originale traduzione einaudiana di reddito medio o normale è una soluzione che,
all’interno della scienza delle finanze e del diritto tributario, ha sempre avuto
numerosi avversari, cui si sono aggiunte talvolta le stesse associazioni di categoria
dei contribuenti cui la formula era teoricamente proposta.
Ma è stata soprattutto la dottrina, ed è il caso di ribadirlo, a porre più di un
interrogativo nei confronti di questa impostazione. Già mezzo secolo fa, in seno al
dibattito, l’Einaudi così si confrontava con la dottrina, intravedendo, tra l’altro,
una realtà poi innegabilmente concretizzatasi empiricamente. A tal proposito
riteniamo utile citare alcuni passi dell’autore piemontese:
“Gli amministratori pubblici, coloro i quali, ministri delle finanze o direttori dei
grandi servigi fiscali, governano la finanza degli stati contemporanei, debbono
difendere accanitamente i sistemi vigenti, che bene o male funzionano e gittano
miliardi, contro la mania riformatrice dei dottrinari che, andando in cerca della
giustizia e non contenti della giustizia semplice grossa (…), vogliono la giustizia
perfetta, che è complicata e distrugge dieci per incassare uno”.
(Miti e paradossi della giustizia tributaria, op. cit., p. 8-9).
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
17
Lo stesso, prima che teorico e studioso, fu anche affermato uomo politico.
L’esigenza di pragmaticità, richiestagli perciò dai propri incarichi, spesso non
lasciava ampio spazio alla proposta e al dettaglio di alcuni principi tributari. Tutto
ciò, perlomeno alla luce delle sue considerazioni inerenti la esigenza di affermare
talune scelte impopolari e di non poter fare a meno di una necessaria carenza di
rigore teorico, almeno per quanto concerne l’equità nel prelievo, nell’agire
amministrativo, anche in un periodo difficile quale quello del dopoguerra:
“L’uomo politico ha la responsabilità dell’operare che è sempre una scelta tra
parecchie soluzioni, una risultante di molti fattori. Il chierico ha la responsabilità
del pensare e deve unicamente pensare la verità. All’uomo politico spetta attuare e
non le conclusioni del ragionamento”.
(Miti e paradossi della giustizia tributaria, op. cit., p. 3).
Ma, al di là dei vantaggi in termini di efficienza e di produzione di gettito
che secondo il suo parere l’approccio catastale era in grado di garantire
all’economia nazionale e all’amministrazione finanziaria, ciò che l’Einaudi
sosteneva, in veste di studioso, era la teoria smithiana del concetto di giustizia,
inteso come “la certezza tesa ad assicurare i popoli contro il danno dell’arbitrio”:
“La certezza dell’ammontare che ognuno è chiamato a pagare è affare di così
grande importanza in materia d’imposta che un grado assai considerevole di
disuguaglianza sembra essere un danno di pochissimo conto in confronto ad un
piccolissimo grado di incertezza”.
(The Wealth of Nations, Londra, 1961).
La premessa einaudiana alla discussione appare di focale importanza perché,
come detto, è da questa definizione che muoveremo i nostri studi. Infatti,
avevamo verificato nella parte precedente del presente lavoro che, in ultima
analisi, la maggior parte dei contribuenti è tassata sulla base di un reddito presunto
normale con la premessa che la tassazione del reddito contabile, in sede di
determinazione del reddito stesso, fa ricorso a presunzioni e a diverse forme di
normalizzazione.
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
18
E si potrebbe quindi parlare anche in questo caso di reddito presunto, o comunque
normalizzato, attraverso una tesi audace che parte della dottrina ha in questi ultimi
anni prefigurato
15
.
Per semplicità di analisi e per il dovuto rigore nei confronti del dibattito tuttora in
corso, definiremo più prudentemente:
- il reddito contabile come un reddito determinato ex post, ossia
misurato soltanto alla fine del periodo e tale da riflettere un fatto
effettivo o storico, anche se calcolato con taluni criteri standard;
- il reddito normale come un reddito determinato ex ante, in senso
potenziale, attraverso specifici strumenti di calcolo presuntivo.
Riconsiderando il filone principale del nostro studio, prenderemo dunque
in considerazione la definizione letterale, originaria, “einaudiana” di reddito
normale, che è l’analisi di Steve a chiarirci
16
, “il reddito normale può indicare
concetti diversi”:
- un reddito medio tra una serie di redditi effettivi di contribuenti
diversi;
- un reddito medio tra i redditi effettivi dello stesso contribuente in
una serie di anni successivi;
- un reddito effettivo o un reddito medio (in un qualunque dei sensi
precedenti) che rimanga fisso per una serie più o meno lunga di
periodi fiscali.
Insomma, nel delineare il concetto, Steve provvedeva a prendere in
considerazione tre diversi criteri: nel primo caso, la categoria degli n agenti
economici appartenenti ad una data classe di attività, nel secondo il fattore
temporale e, infine, una definizione corrispondente al principio di stabilità
attraverso una rideterminazione forfetaria.
15
Cfr. V. TANZI, “Il reddito potenziale come base imponibile in teoria ed in pratica”, p. 25, D.
FAUSTO, “L’esperienza israeliana di stima del reddito imponibile”, p. 141, E. LONGOBARDI,
V. RAZZANO, “Il nuovo regime fiscale per le imprese minori e i lavoratori autonomi: verso un
concetto di reddito normale?”, p. 291, in M. Leccisotti (a cura di), Per un’imposta sul reddito
normale, op. cit.
16
Cfr. Lezioni di Scienza delle finanze, Cedam, Padova, 1976.
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
19
Questo principio di definizione differiva altresì dai suoi aspetti tecnici, o
meglio dai metodi di calcolo raggruppabili anche questi in tre classi differenti
17
:
a) alcuni metodi fondati su calcoli di medie di redditi effettivi passati;
b) altri funzionanti con dei coefficienti applicati su basi di costo, su
elementi patrimoniali, su caratteristiche della localizzazione di unità
imponibili;
c) altri invece proposti su ricavi, effettivi o normali, al fine di dedurre da
essi valori normalizzati dei redditi imponibili.
Questi metodi di definizione sono risultati applicabili a diverse forme di
reddito e riferiti, nel caso a), soprattutto ai redditi normali immobiliari, mentre nei
metodi b) e c) alla normalizzazione dei redditi e dei ricavi di imprese e lavoratori
autonomi, anche prescindendo dalla conoscenza dei redditi effettivi.
Nell’opera cardine
18
del concetto einaudiano di reddito normale, l’autore si
limita alla trattazione del primo di questi metodi (vedremo poi, come gli altri due
siano quelli che più tardi, anche se in maniera non proprio identica, la legislazione
italiana adotterà con funzione di accertamento, e non di determinazione, induttivo
del reddito dei piccoli contribuenti). Infatti, l’imposizione sul reddito normale,
rispetto a quello effettivo, è stata storicamente sostenuta soprattutto per la
tassazione di redditi dei terreni agricoli, in particolare del reddito dominicale, e
poi dei redditi da fabbricati. La tassazione in base a catasto, diffusa pochi anni
dopo l’unificazione per i terreni, estesa nel 1870 ai redditi dei fabbricati, ha
costituito un modo tradizionale e continuo di tassare redditi immobiliari, prima
con le sole imposte fondiarie, e poi con imposte reali o personali. La necessità di
normalizzare i redditi agricoli era fondata sulla necessità di tassare un reddito
medio effettivo di più anni, e quindi un reddito normale, così da non colpire
elementi transitori dovuti a fisiologiche fluttuazioni. Inoltre permetteva di tassare
l’autoconsumo e quei redditi imputati che non passavano attraverso il mercato.
17
G. DALLERA, “Reddito normale, equità e capacità contributiva”, in M. Leccisotti (a cura di),
Per un’imposta sul reddito normale, p. 53, op. cit.
18
La terra e l’imposta, Torino, 1942.
Capitolo I – La determinazione del reddito per fini impositivi
20
Quindi, si evidenzia una funzione di garanzia del catasto che sembra, e
probabilmente è, più a vantaggio del fisco (in termini di maggior gettito e di
riduzione dei costi di gestione del sistema fiscale) che non della massa dei
contribuenti e dei principi tributari di equità e capacità contributiva in grado di
tutelarli. Ma è un sistema che, al di là dei limiti manifesti alla garanzia del
soggetto passivo, nel tempo è riuscito anche ad avere eccezionali risultati in
termini di efficienza nell’utilizzo delle risorse e, quindi, dello sviluppo economico
delle collettività in cui si è applicato.
Ma la trattazione, relativa ad efficienza ed equità, costituirà oggetto di
studio del paragrafo successivo, nel difficile tentativo di formulare un confronto
tra reddito contabile e reddito normale. Concludiamo dicendo che la presentazione
storica e teorica del concetto di reddito normale è risultata, a nostro avviso, parte
indispensabile del presente lavoro, in particolare al fine di riconsiderare un
modello da tempo accantonato in una ben diversa realtà accademica e
amministrativa sviluppatasi dopo la riforma del ’73.