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INTRODUZIONE
Affrontare una tesi su Stanley Kubrick e il suo cinema vuol dire immergersi in un mare
tempestoso in cui nuotare è arduo per la vastità delle acque. Non solo: la mole immensa già
esistente di scritti, saggi, monografie, analisi strutturali, critiche stilistico-formali, pongono
qualsiasi scrittore che voglia intraprendere un’approfondita conoscenza delle opere
kubrickiane, in una difficile posizione. Da un lato, c’è il rischio di incepparsi in ovvietà tanto
scontate quanto monotone; dall’altro c’è il consapevole presentimento di sfociare in derive
pretenziose, fasulle, provocate da suggestioni inequivocabili solo in apparenza.
Il regista del Bronx inoltre ha una sua del tutto peculiare caratteristica, e cioè di essere, in
tutte le sue 13 opere, mai totalmente compiuto: ogni sua pellicola è infatti tipicamente
snodata in una moltitudine di chiavi interpretative che molto spesso rendono l’oggettivo
messaggio sotteso nel film, una struttura che si riversa nella contingenza dell’opinabile. E lo
spettatore ponendosi davanti alle monumentali imprese di Kubrick necessita di un impegno
tale, per comprendere fino in fondo il valore o la struttura stessa del film, che non può fare a
meno di diramare una concatenazione logica che riesca a dare un senso a ciò che ha visto o
anche solo appena visto.
Citazioni, riferimenti ipertestuali o intertestuali, rimandi ad altre arti, rendono il tutto ancora
più complesso di quanto illusoriamente possa sembrare. Risulta così evidente come la
carriera di Kubrick regista sia un amplesso concettuale che va oltre la Settima Arte stessa. Ed
è proprio questo che rende questa tesi triennale di difficile stesura: la sua continua apertura
verso mondi inesplorati o non esplorati abbastanza, i suoi percorsi tortuosi, le sue
stupefacenti iconografie del mondo reale talora semplificato in immagini simbolo, talora
amplificato attraverso sequenze complesse o tecniche straordinariamente originali.
L’alto quoziente di difficoltà previsto, non ha però fatto cessare quasi a nessuno la voglia di
provare tale impresa: e tanto meno la volontà di affondare i miei pensieri nel cinema, o in un
cinema che riflette sul cinema stesso, come nel caso di Kubrick, mancherà mai.
Nonostante l’inevitabile consapevolezza di essere poco originale, la mia tesi su questo artista
credo che non manchi di un tocco autoriale di non poca importanza, che permetterà di non
abbordare mai nel banale, e che sarà comprensibile solo attraverso la lettura dei tre capitoli,
quasi come se si dovesse raggiungere la meta di un viaggio da cui né si vorrà né si potrà
ritornare. Perché giungere alla conoscenza di Stanley Kubrick provoca mutamenti, e svelarne
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le capacità, metodicità, ideologie, pennellate costantemente dalla genialità degna di un artista
più unico che raro, è un’esperienza sbalorditiva che rinvigorisce l’animo.
Per compiere un’introduttiva e “pubblicitaria” sintetizzazione del contenuto della tesi, questa
può essere riassunta attraverso la spiegazione riassuntiva del contenuto di ogni tappa del
viaggio.
Nel Primo Capitolo di fatti discuterò delle tecniche cinematografiche che hanno reso Kubrick
innovativo e soprattutto geniale: non solo le decisioni registiche erano assunte per gusto
estetico o per rendere l’immagine più voluttuosa agli occhi dello spettatore, ma esse si
adeguavano di fatti agli obiettivi tematici cari al Kubrick osservatore della psiche umana e
che riversava gli angoli oscuri della ragione nelle sue pellicole. Sarà così impostato il
fondamento necessario per comprendere la carriera kubrickiana.
Nel Secondo Capitolo saranno discusse le tematiche predominanti nei film del cineasta,
analizzando alcune pellicole in ordine esclusivamente tipologico e non cronologico.
L’attenzione sarà rivolta ai confronti tra le pellicole stesse tra loro, a livello semiotico anche
con altre arti, evidenziando come Kubrick esemplifichi le sue teorie, idee, credenze, e quanto
l’artista si sia ispirato o lasciato influenzare dalle attente letture e ricerche che
quotidianamente compiva.
Nel Terzo Capitolo infine, verranno analizzate le nuove mete che Kubrick offre tramite i suoi
film, cercando di scardinare i pregiudizi che nel corso degli anni sono stati apposti sulla sua
figura, e instaurando un clima ottimistico nei confronti delle intenzioni di un regista tutt’altro
che negativo.
La mia tesi sarà di conseguenza un invito alla visione del cinema di questo regista, ma
maggiormente sarà un saggio che avrà la presunzione di capire veramente quanto e come la
sensibilità di Kubrick sia riuscito a cogliere la sottile differenza che divide la ragione dalla
follia, l’etica dall’estetica, il logos dal caos, la razionalità dalla ragionevolezza, l’uso estremo
della ratio fino alla sua catastrofica - o salvifica - crisi; in definitiva quanto e come, Kubrick
sia riuscito ad evidenziare fin dove gli orizzonti della ragione possano realmente spingersi.
Analizzare Stanley Kubrick quindi vuol dire comprendere se e perché l’uomo è un bruto - un
“lupus” -, attraverso l’ineccepibile consapevolezza che solo il cinema visionario dei grandi
artisti è in grado di spiegarcelo. E naturalmente, con visionario si intenderà un cinema non
solo profetico, ma appunto dedito e incentrato alla visione di immagini evocatrici delle grandi
questioni – irrisolte e misteriose – dell’umanità. In un contesto del genere, allora, dovranno
necessariamente essere perdonate le istanze quasi glorificanti nei suoi confronti, che molto
spesso spontaneamente e ingenuamente scavalcheranno il limite dell’obiettività.
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1. ORGANIZZAZIONE CRONOTOPICA*
Prima di ogni qualsivoglia analisi tematica del cinema kubrickiano, non ci si può svincolare
da un’approfondita quanto tortuosa indagine strutturale e oggettuale sulle sue 13 pellicole.
Prestare attenzione all’esperienza visiva del cinema di Stanley Kubrick offre non solo la
possibilità di considerare il Cinema come una forma d’arte, ma anche di apprezzare la
maniera in cui quest’espressione estetica si sia formalizzata in un solo secolo di vita
(attraverso dei propri canoni), una formalizzazione resa ancora più esplicita nella monolitica
opera di questo grande maestro. E’ indubbio che Stanley Kubrick facendo cinema parlava di
Cinema: la sua volontà, tesa al perfezionamento dell’immagine cinematografica, si è
affermata parallelamente ad una riflessione sull’oggetto stesso di questo perfezionamento,
ovvero ad una riflessione sul Cinema, ad una riflessione sulla visione. Questa prospettiva non
solo ci permette di comprendere il perché di una filmografia stringatissima (tredici
lungometraggi), ma anche di afferrare perché in essa non prevalga un genere: “Kubrick i
generi cinematografici li ha toccati più o meno tutti proprio nell’ottica di superarli
(sublimandoli), proprio nella volontà di rendere, filmicamente, il Cinema il vero genere di se
stesso”
1
. Questo atteggiamento, da qualche anno individuato con il termine “metafilmico”,
non è nuovo nella storia del Cinema: quando un regista avvia una riflessione sul linguaggio
cinematografico è il segnale che questo stesso linguaggio sta divenendo autoriferito, che in
questo ripiegamento si sta riconoscendo come sistema segnico (interrogandosi,
scardinandosi, prospettandosi nuovi obiettivi e confini…). Eppure in nessun altro regista
integralmente come in Kubrick questa riflessione diventa essa stessa Cinema ed il Cinema
diventa questa riflessione.
Prima di addentrarsi nei meandri impervi delle tecniche cinematografiche di Kubrick, tanto
innovative quanto oggettivamente geniali, è da annotare l’importante dato biografico che
rende il regista del Bronx un artista raro ed eclettico: se tra i registi di tutto il mondo vige
infatti la convenzione secondo cui “la carriera di un regista termina quando egli decide di
diventare fotografo”, Stanley intraprese la strada in senso opposto, “nascendo” prima
1
M.W.BRUNO, Perché Kubrick è un classico: Stanley o la luccicanza di Apollo, Dossier Kubrick, in Duel,
numero 70, Giugno 1999, p.2
* Antonia Missaglia, STRATEGIE DI VISIONE: Kubrick e la scrittura filmica del terzo occhio -
http://www.archiviokubrick.it/risorse/saggi/Strategie_di_visione.doc
8
fotografo, per poi culminare la sua carriera nell’arte cinematografica. Kubrick cominciò la
sua vita artistica come fotoreporter per la rivista Look, fattore che lo incoraggiò ad una
caratterizzazione visiva tipica dell’immagine fotografica, con una precisa disposizione dei
soggetti all’interno dell’organizzazione scenica, cercando di centralizzare la fondamentale
performance recitativa degli attori da cogliere attraverso una “istantanea della prestazione”, il
tutto apposto-opposto a location accuratamente selezionate. E non solo: la passione per la
fotografia lo incanalò verso un’attenzione tecnica alla luce che fu deus ex machina della sua
compostezza formale e della ricerca di una perfettibilità stilistica dell’organizzazione della
scena-scenografia, a tal punto da essere considerato il tocco autoriale prediletto dal regista
che mai smise di sperimentare e giocare con gli effetti di luci ed ombre che una piccola
candela o il crepuscolo di una tramonto riuscivano ad offrire, come in Barry Lyndon.
Flavio De Bernadinis in una sua opera sul regista
2
, lega l’intera analisi effettuata ad una frase
detta dallo stesso Kubrick a Jack Nicholson durante le riprese di Shining, e che è opportuno
citare prima di ogni studio tecnico sul cinema kubrickiano: “Caro Jack, fare un film non è
fotografare la realtà, ma fotografare la fotografia della realtà”. Non è pertanto al campo di
direttore fotografico che Kubrick si interessa durante la ricerca delle sue celebri inquadrature
perfette, ma ad una fotografia che riflette su se stessa, ad una sorta di metafotografia della
realtà, per narrare attraverso le immagini e costruire storie che fossero l’organizzazione
logica di inquadrature, ovvero la conseguenza poetico-espressiva del suo sguardo sul mondo
e sull’esistenza.
Pur incorrendo nel rischio di minimizzare e sminuire le capacità registiche che lo hanno reso
tanto celebre quanto criticabile - poiché eccessivamente nuovo per i codici e le coscienze
dell’epoca -, le sue tecniche principali possono essere sintetizzate in tre aspetti fondamentali:
– L’occhio meccanico: le soggettive non appartengono più ai personaggi, ma è Kubrick il
soggetto decisore.
– Il tempo dell’azione: le inquadrature sono spesso prolungate, esitanti, gli attori recitano in
uno stato quasi ipnoide.
2
F. DE BERNARDINIS, L’immagine secondo Kubrick, Lindau, collana Il Pesce Volante, Roma, 2003
9
– La “circolarità”: delle sceneggiature: le scene prevedono un finale che si avvolge
sull’incipit.
3
«Tuttavia in Kubrick mai nulla è fine a se stesso o vincolato al semplice sfoggio di maestria
tecnica e virtuosistica legato al narcisismo del cineasta. No: anche i movimenti acrobatici
della macchina da presa diventano perfettamente funzionali all’espressione dei contenuti oltre
che alla narrazione. E così abbiamo un corpus di opere unico nella storia del Cinema proprio
per come dietro quelle immagini lustre, levigate, lavorate fino a rasentare la perfezione e di
fronte alle quali non si può che rimanere annichiliti e pieni di stupore e ammirazione, al
contempo si percepisce e non si percepisce la presenza del loro fantomatico autore. Quello di
Kubrick è proprio un continuo risiedere dentro e fuori le sue immagini: perché possiamo
percepire la sua presenza a partire dalla compostezza formale che impiega per stupire coi suoi
congegni, ma al tempo stesso ci è difficile immaginare il regista al lavoro mentre predispone
una delle sue inquadrature, organizzando i materiali di scena e dirigendo gli attori, dal
momento che dietro la macchina da presa paia esserci un’entità superiore, invisibile e
inumana, quasi un ‘occhio di Dio’ che freddo e impassibile regala all’osservatore spettacoli
memorabili. E queste conclusioni le possiamo trarre proprio a partire dal limitarci al suo
modo di inquadrare le cose; nemmeno dalla sua analisi, ma proprio e solo dal ‘prendere atto’
di come esso è.»*
Non c’è comunque altra soluzione concretizzabile: l’indagine-analisi stilistico-formale del
cineasta naturalizzato inglese deve partire da una logica funzionale, ovvero: prendere in
origine alcune macrostrutture cinematografiche e incamminarsi verso i rinnovamenti originali
che ha compiuto su di essi. Solo così si può realmente comprendere Stanley Kubrick,
cercando quanto più possibile di non cadere in derive encomiastiche che probabilmente
spetterebbero di diritto al regista, ed evidenziare quanto e come abbia reinventato la settima
arte per adeguarla ad una realtà caratterizzata da una stabile e allo stesso tempo penetrante
crisi, che solo la sua delicata sensibilità riusciva a percepire attraverso il Terzo Occhio della
macchina cinematografica.
E “nonostante questo culto ossessivo della forma, questa fissazione modernista sulla novità
tecnica come valore artistico, Kubrick è anche e soprattutto un narratore di storie, un
3
http://laba.biz/tecniche-cinematografiche-di-kubrick/, “ Tecniche cinematografiche di Kubrick”, scritto a
Firenze il 7 Marzo 2015, consultato il 10 Agosto 2015
* Ghyraptemys Kohnii, SK modalità della visione, http://www.archiviokubrick.it/risorse/saggi/SK_Modalita_della_visione.doc
10
produttore di significati ideologicamente orientati, un autore clamorosamente politico”
4
, che
è possibile comprendere solo svincolandosi da ogni pregiudizio nei suoi confronti e da
qualsiasi prospettiva stereotipata della sua arte che mai si è presentata standardizzata, per
immergersi nel profondo mare artistico in cui naufragare è dolce per la vastità di conoscenza
che ha da offrire. Perché “se alcuni cineasti trovano l’ispirazione nella contemplazione della
natura, altri nella lettura dei fatti, altri ancora nel contatto incessante con il mondo esterno, i
film di Kubrick sono il riflesso di una passione per la perfezione, di un gusto smodato per la
tecnica, di una fascino per i diagrammi e le statistiche, ma anche della paura dell’errore, in un
sistema interamente programmato, di un eccessiva dipendenza dalle macchine. […] Al centro
della prodigiosa organizzazione che ha elaborato, egli resta un artigiano che scrive, fotografa,
dirige, monta i suoi film come fece da giovane ai suoi esodi di cineamatore per le strade di
New York.”
5
1.1 “NASCITA E DISTRUZIONE DI UNO SPAZIO”
6
Topos principale del cinema kubrickiano è la rappresentazione di palazzi, edifici, o astronavi
nel caso di Odissea nello spazio, le cui stanze – o più in generale gli interni - si presentano
attraversi motivi perfettamente geometrici, scanditi da simmetrie delineate da luci
organizzate in maniera tale da evidenziarne il senso e da esaltarne gli effetti prospettici.
Nelle tredici pellicole viene ad instaurarsi una lineare e razionale architettura funzionale tanto
“all’arte della visione” che “all’arte della narrazione”, che dividono i film “in due parti
indipendenti e parallele, ma reciprocamente necessarie”
7
. Pertanto, immagini e narrazione
procedono autonomamente nella stessa misura in cui si rivelano essere dipendenti dall’altro:
ogni film di Kubrick si centralizza sul tema della disgregazione, prima sociale – dei gruppi e
delle famiglie – poi anche mentale – delle facoltà psichiche -, e quest’alternanza dialettica tra
caos e logos si rivelerà presente sia iconograficamente che, appunto, narrativamente.
L’ambiente scenografico in cui le sue storie devono muoversi allora, sono obbligate a
mostrare tale frammentazione: rombi, quadrati, rettangoli, prismi, sono textures geometrici
4
M .W. BRUNO, Perché Kubrick è un classico: Stanley o la luccicanza di Apollo, cit., p.4
5
CIMENT M., Kubrick, Rizzoli, Milano, Edizione Definitiva, Prima Edizione Novembre 1999, p.
6
S. BERNARDI, Kubrick e il cinema come arte del visibile, Editrice Il Castoro, Ottobre 2005, p.31
7
S. BERNARDI, opera citata, p.151
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che regolano l’amplesso scenico, mostrando quel rigore razionale tipico del rinascimento o
espresso dalle logiche illuministe, o meglio ancora codificati dalle convenzioni vitruviane, il
cui valore verrà presto frantumato corrispettivamente alla frammentazione della ragione
umana. E laddove esse continuano a persistere strutturalmente, accentuano il contrappunto
tipico del cinema di Kubrick che spiazza, che va oltre l’ordine imposto dai potenti che
cercano di preservarsi dal caos rifugiandosi nei bastioni difensivi da essi creati e che essi
simboleggiano.
1.1.2 GEOMETRICITÀ E CIRCOLARITÀ
“2001 procede per grandi rotture, simboleggiate dal monolite (forma rettangolare) che si
contrappone alle forme rotonde, ai cerchi, che rappresentano, com’è noto, l’eternità (si veda
la definizione teologica di Dio: una sfera il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non è
in nessun luogo). Dalla cavità ove si rannicchiano le scimmie nel prologo, fino al feto astrale
che gira attorno alla terra, dai crateri ai pianeti, dalle astronavi alle ruote celesti, Kubrick
prospetta le figure dell’ordine”
8
. Proprio quest’ordine – il logos – viene trascritto nel film dal
monolite, correlativa concretizzazione della ragione che pedagogicamente discende a dare
rigore logico agli esseri viventi affinché essi si evolvano, e che visivamente riesce ad
insinuarsi in un mondo dominato dal caos primordiale, attraverso le sue forme proporzionali:
le sue tre dimensioni hanno un rapporto di 1-4-9, quadrati dei primi tre numeri (escluso lo
zero), che lo caratterizzano come un’empirica realizzazione della perfezione dimensionale,
mostrando il suo essere alieno – estraneo - (o divino), che discende per regolare il disordine
con una regolamentazione del caos stesso: il monolite non “istruisce” alla pacifica
convivenza, ma bensì “illumina” nuove strategie per poter soverchiare l’altro e progredirsi
fino ai viaggi spaziali, alla velocità di una fotogramma se rapportato all’immensità
universale.
Risulta chiaro come sia fondamentale allora partire da questa pellicola per eseguire un’analisi
strutturale (inteso alla lettera, delle strutture presenti nel film kubrickiani) e comprendere
come lo spazio si regola e allo stesso tempo si distrugge all’interno delle pellicole.
8
M. CIMENT, Kubrick, Rizzoli, Milano, Edizione Definitiva, Prima Edizione Novembre 1999, p.97