La molla che ha fatto scattare la voglia di compiere questo lavoro di ricerca è stata
proprio l’indifferenza, se non addirittura la quasi assoluta ignoranza, regnante in
Italia a proposito di questi fatti.
In un periodo in cui il problema della tutela delle minoranze etniche, vedi Kosovo, è
riesploso in tutto il suo dramma, abbiamo voluto occuparci di questo argomento
che a nostro parere si inserisce alla perfezione nell’ambiguità di un Europa divisa
tra integrazione, balcanismo e subalternità al "grande fratello" americano.
La ricerca si presentava spinosa e difficile, data l’idiosincrasia di testi italiani
"politically correct" a parlare di "Istria", ma si è rivelata ricca di soddisfazioni
professionali e soprattutto personali.
Ci sia consentito in questa sede di ringraziare tutte le persone, e sono state
tantissime, che con estrema cortesia e competenza ci hanno permesso di comporre
in maniera più esatta possibile il mosaico di questa storia e di apprezzare una terra
bellissima e molto spesso misconosciuta; persone che aiutandoci manifestavano il
loro stupore dato dal fatto che uno studente dell’"oltre Isonzo" si interessasse alle
loro problematiche. Senza il loro fondamentale apporto, questo lavoro
probabilmente non sarebbe esistito.
CAPITOLO 1
BREVE STORIA DELL’ISTRIA FINO ALLA II GUERRA MONDIALE
- INSEDIAMENTI ITALIANI NELL’ADRIATICO ORIENTALE
L’Istria è un triangolo rovesciato di 4.956 chilometri quadrati; la base è di 67
chilometri e va da Muggia ad Abbazia, inserendosi nelle prime pendici del Carso
triestino. Le Alpi Giulie e le creste dei monti Tricorno, Nevoso e Maggiore la
difendono dai lati di settentrione e levante. Le sue coste, quasi speculari, misurano
500 chilometri e sono divise dal Capo Promontore.
I geologi la dividono in tre settori: l’Istria bianca, "un’enorme spugna pietrificata",
ne costituisce la parte settentrionale, l'Istria grigia, così chiamata per i calcari
sciolti nell’età terziaria, ne occupa la parte centrale, e infine l’Istria rossa, che si
estende nei centri di Parenzo, Orsera e Fontane ne costituisce la parte residua.
Il nome "Istria" sembrerebbe poter derivare da "Histrum", un fiume affluente del
Danubio, che solcava allora la penisola. I suoi primi abitanti, "usciti" dalle caverne
nell’età del bronzo, edificarono i caratteristici "castellieri", costruzioni di pietre a
secco con una cinta per le persone e una per custodire gli animali (ne sono stati
numerati oltre 500).
La sua popolazione era composta da veneti nel nord, liburni lungo la costa e da istri
nel sud; una rilevantissima infiltrazione celtica, che ebbe luogo nel V secolo a.C.,
mescolò definitivamente tutte queste etnie.
Intorno al V secolo a.C. i primi colonizzatori greci approdarono sulle isole di
Curzola, Lissa e Lesina, dove fondarono colonie commerciali e da qui
colonizzarono poi alcune zone della terraferma dalmata dove ora sorgono le città di
Spalato e Ragusa.
Nel II secolo a.C. i romani fecero la loro comparsa nella regione; l’imperatore
Augusto riuscì ad annettere l’intero territorio degli illiri e sotto Tiberio, vent’anni
più tardi, la zona divenne provincia romana con il nome di "Illiricum".
Venne così aperta la strada alla romanizzazione e centri della nuova cultura
divennero Pola in Istria e Zara e Salona in Dalmazia.
Durante la dominazione romana il cristianesimo cominciò a diffondersi nella zona.
Per sei secoli l’Istria visse nella cosiddetta "Pax Romana", e per i romani stessi
divenne un problema da risolvere in relazione alla sicurezza dei traffici
nell’Adriatico e allo sviluppo delle colonie costiere del Veneto; dopo continue
ribellioni e decenni di alterne vicende fu nuovamente, ma parzialmente sottomessa
tra il 178 e il 177 a.C. e solo ai tempi di Cesare contro cui si era schierata durante la
guerra civile, poté esserlo completamente.
Augusto la compresse nella decima regione, "Venetia et Histria", e da allora
godette di un lungo periodo di pace e di prosperità che durò fino al crollo
La romanizzazione fu rapida, ma di gran lunga più intensa, lungo le coste che non
Con la caduta dell’Impero Romano le ondate dei barbari attraversarono le Alpi e
ugiarono sulle isole della costa non raggiungibili dai
carriaggi, costruendo dei ponti ed infine degli istmi. L’Istria passò a Ravenna e fu
sfruttata da Teodorico come dispensa della città reale. Intorno al 620 d.C. ci furono
varie ondate di slavi, sloveni e croati che occuparono tutto il litorale dal corso della
Cettina fino alle rive dell’Arsia.
Un secolo più tardi, per la vittoria riportata da Carlo Magno sui Bizantini nella
Calabria, queste regioni passarono temporaneamente sotto il dominio franco; la
lotta per la conquista della Regione Giulia comunque si riassume storicamente
come lotta fra Romani e Germani.
E’ del IX secolo l’inizio della presenza della Repubblica di Venezia nell’Istria; il
dominio della "Serenissima" inizialmente incontrò difficolt
indipendenza degli istriani, nell’opposizione dei Duchi di Baviera, dei Conti di
Carinzia, dei Weimar, dei Conti di Gorizia e dei Patriarchi di Aquileia. Col tempo
però gli Istriani, da sconfitti e nemici, diventarono alleati integrandosi nella
cultura, nell’arte e nei costumi veneziani. A tutt’oggi le contrade istriane sono
pervase dai segni della secolare presenza della Serenissima.
Gli slavi, dopo le invasioni barbariche, riapparvero in alcune località dell’Istria del
XVI secolo, quando Venezia "importò" migliaia di persone di etnia slava nelle
campagne di Pisino, Rovigno, Parenzo e Pinguente, tutto ciò per ripopolare una
regione provata dalle guerre contro i turchi e dalle pestilenze (basti pensare che nei
primi anni del 1600 l’Istria era ridotta a 39 mila abitanti).
Fiume invece subì varie dominazioni, tra le quali possiamo ricordare quella dei
Signori di Duino e dei Conti di Walsee; i fiumani non videro mai di buon occhio la
dominazione veneziana sulla attigua regione, poiché consideravano Venezia un
porto concorrente.
Il vecchio confine della Serenissima passava infatti presso Fianona, circa trenta
chilometri ad ovest della città quarnerina.
Nel 1797, con il Trattato di Campoformio, dopo oltre mille anni di dominio
veneziano, l’Istria passò sotto l’amministrazione della monarchia austriaca, per un
periodo che, se escludiamo il decennio del Regno Napoleonico d’Italia, durò oltre
120 anni. Il dominio austriaco inserì la regione a pieno titolo nei circuiti
commerciali del Mediterraneo, molti mercanti tedeschi ed austriaci installarono
agenzie d’affari con l’Oriente e tutta l’Europa, diffondendo un relativo benessere
tra la popolazione.
Fiume, come porto commerciale dell’Ungheria (Corpus separatum), diventò un
centro cosmopolita di affari, subendo tra le altre cose un contrastatissimo ventennio
di sovranità croata, terminato nel 1868 con il ritorno della città autonoma sotto la
corona di "Santo Stefano".
La politica degli austriaci nei confronti degli abitanti dell’Istria fu la medesima che
caratterizzò il loro governo in tutte le terre da loro conquistate, quella del "divide
et impera"; essi, ai quali bisogna però riconoscere un’efficientissima
organizzazione amministrativa, utilizzarono gli attriti tra la parte italiana della
popolazione che abitava principalmente i centri cittadini e la costa occidentale e la
parte slava sparpagliata nelle campagne, per rafforzare il loro potere.
Gli episodi d’irredentismo sia italiano che croato, furono però ugualmente
molteplici; da parte nostra possiamo ricordare martiri come Oberdan, Sauro, Filzi
e Rismondo e, ad esempio, la costituzione della Società che mazzinianamente si
chiamò "Giovane Fiume", la quale sotto la maschera di un programma di innocui
divertimenti per la maggioranza dei giovani italiani presenti in città, organizzò una
propaganda incessante per l’annessione di Fiume alla madrepatria; l’irredentismo
italiano si inserì nel più ampio movimento di liberazione nazionale che nel 1861
avrebbe portato all’unità d’Italia, con le eccezioni però di Trento, Trieste e
Fu solo con il Trattato di Versailles del 28 giugno del 1919, il quale sancì la fine
della prima guerra mondiale, che la Venezia Giulia fu assegnata all’Italia. Questo
trattato fu completato con quello di Rapallo del 22 novembre del 1920 che assegnò
all’Italia la città di Zara e le isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa e dal
Trattato di Roma del 27 gennaio 1924 che le assegnò
Porto Baross alla Jugoslavia.
Durante la guerra del 1915/18 ben 2107 giuliani, dei quali 1030 ufficiali,
oltrepassarono clandestinamente la vecchia frontiera italo-austriaca e si
arruolarono nell’esercito italiano rischiando la forca. Questo spirito di italianità
trovò conferma nel primato relativo dei caduti giuliani; la Venezia Giulia infatti
ebbe 30 caduti ogni 1000 abitanti, e sono un’enormità se pensiamo che al secondo
posto in questa amara classifica risultò il Friuli con 16 morti su 1000.
I trattati di pace, oltre a dare all’Italia le città di Trento e Trieste a larga
maggioranza etnica italiana e l’Istria che etnicamente, facendo una media tra le
varie fonti in nostro possesso, possiamo dire grossomodo divisa in due parti, le
cedettero le regioni dell’Alto Adige e di quella che sarebbe stata in futuro la
provincia di Gorizia (Idria, Tolmino, Aidussina e Postumia), nelle quali a mala
pena l’Italia era conosciuta; addirittura un terzo del territorio e della popolazione
slovena furono assoggettate all’Italia, il che costituiva una grossa perdita per una
Questo fu sicuramente un primo motivo d’attrito fra l’Italia e il neo costituito regno
di Jugoslavia, che si vedeva sottrarre territori abitati compattamente da sue
popolazioni.
Una menzione a parte merita l’annessione di Fiume: al contrario dell’Istria, che fu
direttamente annessa con il Trattato di Versailles, Fiume, che pure faceva parte del
"compensi" del famoso Patto Segreto di Londra con il quale le potenze alleate
attirarono l’Italia nella prima Guerra Mondiale, rimase alla Jugoslavia.
Il fatto suscitò nella popolazione della città un gravissimo sdegno. La città di Fiume,
etnicamente a grande maggioranza italiana, ma con un retroterra abitato quasi
esclusivamente da croati, era sempre stata al centro di una diatriba fra le mire
annessionistiche dei due stati; inoltre la tradizione autonomistica era fortissima in
questa città poiché per molti anni era stata, come corpus separatum, un porto
franco dell’Ungheria, offrendo alla storia nomi di grandi "statisti" come
Ossoinack, Maylander, Grossich, Prodam e Gigante.
Nel 1919 la città fu quindi occupata dai "legionari di D’Annunzio", che con questa
azione clamorosa rivendicarono l’annessione allo stato
dannunziana probabilmente, oltre a mirare all’annessione di Fiume, voleva
risolvere in un secondo tempo la questione della Dalmazia e assicurare all’Italia
l’Adriatico orientale promessole dai firmatari stessi del Patto di Londra; il governo
italiano, guidato da Giolitti, però, in grave imbarazzo di fronte all’iniziativa del
poeta e delle sue milizie, nel Natale del 1920, attaccò la città disperdendo le milizie
volontarie.
Il Trattato di Rapallo del 1920 previde una soluzione di compromesso per il
capoluogo quarnerino: la creazione dello Stato Libero di Fiume, legittimato da
elezioni democratiche nel 1921; questo esperimento fu affossato nel 1922 da un
colpo di mano fascista, preludio a susseguenti accordi italo-jugoslavi.
Fu solo nel 1924, quando già il fascismo aveva preso il potere in Italia, che il
Trattato di Roma sbrogliò definitivamente la polemica. All’Italia fu assegnata la
città, mutilata però di una parte del suo porto (Porto Baross), per la gioia della
popolazione, che, almeno all’interno del comune, era a grande maggioranza
italiana.
La pace per le cosiddette terre irredente sembrava finalmente arrivata. Già nel
1920 però Mussolini disse una verità destinata a non farsi scalfire da ciò che
successe negli anni successivi: "….Quella gente (gli jugoslavi, N.d.A.) non avrà mai
per noi amicizia sincera e la ragione è un formidabile equivoco; per noi il confine
naturale giusto, sacro e sacrosanto è alle Alpi Giulie, per la Jugoslavia il confine
sacro, giusto, naturale e sacrosanto è sull’Isonzo, non c’è possibilità di
compromesso".
Il periodo della dominazione italiana coincise praticamente con il ventennio fascista
e quindi le "nuove provincie" subirono i soprusi della sua politica snazionalizzante.
L’Istria si trovò alla periferia politica ed economica, ad un capolinea dove gli
investimenti industriali ed agricoli si fermavano e al di là c’era un muro balcanico.
Una terra di confine a popolazione mista, dove gli italiani costituivano la grande
maggioranza nei centri urbani e nella costa occidentale, e gli slavi nelle campagne,
aveva bisogno di una politica molto sensibile che non urtasse i delicati equilibri che
da molti secoli reggevano il "modus vivendi" delle genti istriane, e tutto ciò avrebbe
dovuto inserirsi in un contesto di progresso economico e amministrativo.
Possiamo dire che il fascismo non riuscì in nessuno di questi compiti. I gerarchi
effettuarono infatti un’opera di nazionalizzazione forzata dell’elemento croato (e
sloveno a Trieste e nel resto della Venezia Giulia), cambiando cognomi, chiudendo
scuole in lingua slava, favorendo in molti modi, anche economicamente, l’elemento
italiano nonché compiendo operazioni squadriste verso la popolazione slava, tra le
quali è famigerato l’incendio a Trieste dell’Hotel Balkan.
La violenza degli episodi squadristi raggiunse nell’Istria una veemenza superiore a
quella delle altre regioni dello "stivale", dando vita al cosiddetto "fascismo di
frontiera" ove le azioni delle camicie nere si coloravano di una sfumatura razziale
sconosciuta nelle altre località italiane praticamente tutte monoetniche.
L’intellighenzia slava, di recente formazione, tentò di raccogliersi intorno ad alcuni
circoli culturali come l’Edinost di Trieste, ma la compiacenza della forza pubblica
italiana verso le violenze squadriste conferì una scarsi
queste formazioni; il "popolo minuto" invece si raccolse intorno alla figura dei
"narodnjaci", che possono essere paragonati ai patriarchi delle antiche famiglie,
tentando di resistere in attesa che la "bora" passasse. E in effetti passò.
Cosa sarebbe successo nella Venezia Giulia se l’Italia, invece di subire la dittatura
di Mussolini avesse vissuto una stagione di democrazia, è una domanda che assilla
da sempre coloro che studiano questi fatti.
Noi pensiamo che a una domanda del genere sia impossibile rispondere;
probabilmente uno Stato più sensibile però avrebbe favorito la pacifica convivenza
tra le due etnie della regione (una prova l’abbiamo oggi in Alto Adige e in Valle
d’Aosta) e in più, come è sempre successo in pass
succedendo in Istria e a Fiume in questi anni, la cultura italiana avrebbe attratto
come un magnete nella sua orbita le popolazioni slave o mistilingui determinando
una possibile aggregazione a quella che comunque da qualsiasi parte si guardi è
una civiltà con millenni di storia che tende a esercitare una forza centripeta verso
gli elementi "allogeni" senza o con una giovane tradizione culturale alle loro spalle.
Questo discorso è ovviamente campato in aria poiché non esiste controprova;
l’Italia e soprattutto l’Istria, in quanto regione di confine, subirono infatti il
"ventennio", nonché l’ingresso in guerra al fianco della parte che poi sarà sconfitta.
Tutto ciò avrebbe portato all’odio tra la parte croata e quella italiana che sarebbe
sfociato nei tremendi episodi delle "foibe" e, dopo la fine della seconda Guerra
Mondiale, alla vera e propria tragedia dell’esodo.
1.2 - GLI ANNI DAL 1941 AL 1946
E’ impossibile in questa sede occuparsi della genesi e dello svolgimento della
seconda Guerra Mondiale. L’Italia, militarmente potenza di secondo rango, aveva
con l’ingresso in guerra e con i fat-ti che seguirono, ricordiamo ad esempio
l’annessione dell’"italianissima provincia di Lubiana", inasprito ulteriormente i
rapporti fra le due componenti dell’Istria e di Fiume. Esponenti delle popolazioni
slave avevano costituito già dal 1941 le prime formazioni partigiane entrando ben
presto a far parte dell’esercito partigiano jugoslavo; la loro opera di penetrazione
fu del resto favorita dalla presenza fra la popolazione slovena e croata di forti
risentimenti e rancori covati a lungo nei confronti dell’Italia fascista che per
vent’anni, come visto, aveva condotto una politica di oppressione nazionale
particolarmente dura e violenta nei loro confronti.
Per tali motivi l’adesione di quelle popolazioni al movimento partigiano
organizzato e indirizzato dai partiti comunisti sloveno e croato fu notevole,
assumendo nel tempo carattere di massa.
L’8 settembre 1943 l’Italia firmò l’armistizio. I partigiani slavi ne approfittarono,
dilagando disordinatamente nella Venezia Giulia, ad esclusione di Trieste, Pola e
Fiume, che rimasero in mano ai tedeschi.
Questa prima occupazione slava durò solo 35 giorni; infatti i tedeschi, appoggiati
da gruppi italiani, ripresero il dominio del territorio giuliano, rigettando oltre il
vecchio confine gli ultimi gruppi slavi e costituendo a Trieste l’"Operationszone
Adriatisches Kustenland" (zona di operazione del litorale adriatico) sotto il
comando di un "Oberster Kommisar" (supremo commissario).
Questa zona rimase al di fuori di quella che era la Repubblica di Salò e quindi
anche formalmente non fece più parte di nessun tipo di amministrazione italiana.
L’idea dei tedeschi era quella, una volta vinta la guerra,
regione per avere così uno sbocco sul mare Adriatico.
Le popolazioni italiane che in Istria costituivano ancora la maggioranza, si videro
perciò accerchiate; da un lato la prospettiva era la collaborazione con i nazifascisti,
altro l’inserimento nelle formazioni partigiane jugoslave, che molto
intelligentemente e sfruttando l’indecisione sul da farsi del Partito Comunista
Italiano non permisero la formazione di brigate italiane dotate di ampia autonomia.
La maggior parte delle persone optò per una passività che potremmo definire
"pilatesca"; aspettare il corso degli eventi sperando in un futuro impegno delle
forze italiane antifasciste nella regione; questa passività è stata molte volte
scambiata dalla storiografia di oltre confine per indifferenza o peggio per implicita
adesione al fascismo. Bisogna però dire che una scelta del genere era, anche per gli
italiani di sentimenti antifascisti, che costituivano una buona parte della
popolazione, molto difficile. I proclami delle forze partigiane slovene e croate
erano, già durante la guerra, improntate al futuro ritorno dell’Istria e di Fiume,
nonché chiaramente di tutta la provincia di Gorizia, alla loro Madre Patria, dove
avrebbe regnato una volta sconfitti nazisti, ustascia, cetnici e quisling, una società
comunista, popolare e autogestita.
Gli jugoslavi inoltre aspiravano al controllo totale della guerriglia anche per non
contrarre debiti di riconoscenza verso gli italiani, i quali avrebbero potuto
rivendicarli in futuro; non è un caso che a "liberare" Trieste nel 1945 furono
esclusivamente slavi mentre le formazioni italiane inserite nel movimento di Tito
erano state inviate "misteriosamente" a combattere alcuni giorni prima
nell’entroterra balcanico.
L’evento bellico non si risolse, come sappiamo, secondo le previsioni dei tedeschi
che verso la fine dell’aprile del 1945 si ritirarono dalla Venezia Giulia. Gli slavi
occuparono tutta l’Istria comprese le città di Trieste, Gorizia, Pola e Fiume. Zara
era nelle loro mani dal 30 ottobre del 1944. Questa seconda occupazione durò 45
giorni; nel periodo tra il 12 ed il 15 giugno gli jugoslavi, per ordine degli alleati,
abbandonarono i centri urbani di Gorizia, Trieste e di Pola, che passarono alle
dirette dipendenze del governo militare angloamericano.
Tutto il rimanente territorio giuliano-dalmata, comprese le città di Fiume e Zara,
restò definitivamente sotto la Jugoslavia.
La Venezia Giulia era già, per le diplomazie internazionali, uno dei grandi
problemi da risolvere dopo la fine del conflitto. Lo stesso Churchill, giunto a
conoscenza del rapido avanzamento dell’Armata Partigiana di Tito, aveva chiesto
nell’autunno del 1944, che le forze alleate sbarcassero nell’Istria, progetto
abbandonato per l’opposizione del presidente Roosvelt e del capi di Stato Maggiore
americani.
Solo dopo la conferenza di Yalta, nella quale divenne evidente la futura divisione
del mondo in due blocchi, gli alleati si convinsero all’occupazione della Venezia
Giulia scatenando una corsa forsennata tra le loro truppe e l’esercito regolare di
Tito, vinta da questi ultimi.
1.3 - IL TRATTATO DI PACE DI PARIGI
Durante la Conferenza di Potsdam, durata dal 17 luglio al 2 agosto 1945 i capi di
governo della Gran Bretagna, dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti stabilirono
che il primo trattato di pace dopo la seconda Guerra Mondiale dovesse essere
concluso con l’Italia. Il Consiglio dei Ministri degli Esteri di queste tre nazioni, con
l’aggiunta di un rappresentante francese, iniziò i lavori nel settembre e nel luglio
dell’anno successivo aveva pronto un progetto per la Conferenza di Pace di Parigi.
I delegati dei 21 Stati che avevano dichiarato guerra all’Italia approvarono il testo
senza grandi cambiamenti. Il 10 febbraio 1947 i delegati dei 21 paesi firmarono
ufficialmente il nuovo Trattato di Pace con l’Italia.
Il problema più importante che caratterizzò i lunghissimi lavori della Conferenza
di Pace con l’Italia, gettando la popolazione istriana in una sorta di panico
collettivo, fu quello della nuova linea che avrebbe costituito il confine orientale del
nostro paese.
Il Ministro Bidault, plenipotenziario francese, riconobbe l’eroico coraggio della
Jugoslavia nella lotta contro il nazi-fascismo. La linea confinaria proposta dalla
Francia era una tipica linea di compromesso diplomatico fra le proposte occidentali
e quelle russe; essa introduceva un criterio geografico nuovo con il taglio
trasversale dell’Istria all’altezza del fiume Quieto e lo giustificava con il principio
della "bilancia etnica", una specie di taglio salomonico che prevedeva
un’equivalenza nel numero delle minoranze che avrebbero dovuto vivere oltre
confine. Uno degli errori di questa proposta fu che la base dei calcoli dei francesi
era il censimento austro-ungarico del 1910, molto sorpassato e tra tutti i censimenti
il più sfavorevole, per consapevole scelta austriaca, agli italiani.
Molotov, il massimo esponente della diplomazia sovietica, invece appoggiò tutte le
richieste del nazionalismo jugoslavo più spinto; la linea russa correva parecchio ad
occidente dello stesso confine italo-austriaco del 1866, chiedendo di annettere così al
nuovo stato socialista territori compattamente abitati da italiani in cui c’erano
nuclei insignificanti di popolazione slava. La linea russa arrivava alle porte di
Udine.
La linea inglese e quella americana grossomodo coincidevano, tracciate con il
criterio di assegnare all’Italia i territori dei comuni costieri nei quali gli italiani
rappresentavano la maggioranza o addirittura la totalità della popolazione; per
contro tutti i centri italiani dell’Istria interna ed orientale, nonché il grande centro
italiano di Fiume, dovevano passare alla Jugoslavia.
La politica slava invece rispondeva al motto di Tito, "chiedere tutto per ottenere
molto". Egli lanciò le sue pretese oltre Monfalcone, fino all’Isonzo, dando per
scontato che le città italiane avrebbero dovuto seguire il destino dei loro retroterra
decisamente slavi. Questo concetto, della preminenza della campagna sulla città, è
infatti tuttora un caposaldo della cultura slava.
Per mediare queste posizioni le grandi potenze costituirono una commissione che
avrebbe dovuto andare sul posto, studiare documenti e analizzare statistiche.
L’idea, in sé buona, aveva due difetti. I quattro grandi avevano già deciso quattro
linee differenti e non le avrebbero cambiate dopo i lavori della Commissione.
Inoltre la Commissione non conosceva la regione; infatti non avrebbe visitato
Fiume e le isole del Quarnero ritenendole croate.
Tutta la regione da visitare inoltre era già sotto l’amministrazione slava e mentre
costoro potevano organizzare manifestazioni pubbliche con la mobilitazione di
gruppi croati provenienti dall’interno, gli italiani dovevano ricorrere a canali
clandestini. Gli slavi condussero una campagna capillare e martellante i cui estremi
raggiunsero quelli toccati durante il fascismo, ad esempio con la slavizzazione dei
cognomi sulle lapidi dei cimiteri.
La Commissione visitò cinque città e ventisette paesi dell’Istria occidentale, senza
passare per le isole di Cherso e Lussino e inviando a Fiume una semplice
"delegazione economica". A dimostrazione dell’efficienza della propaganda
jugoslava possiamo ricordare che su 4000 petizioni pervenute alla Commissione,
3650 erano filo-slave.
I quattro conclusero l’inchiesta con le quattro decisioni con cui erano partiti.
La presenza di De Gasperi, principale rappresentante dell’Italia, alla Conferenza di
Parigi fu invero dignitosa ma priva di risultati. Egli propugnò come soluzione la
divisione confinaria seguendo la cosiddetta linea Wilson, ipotizzata al termine della
prima guerra mondiale dall’allora Presidente statunitense, che comunque mutilava
il territorio nazionale di Fiume e di Zara e delle isole di Cherso e Lussino.
Un’altra ipotesi presa in considerazione dall’Italia, ma mai portata avanti con
grande convinzione, fu quella del "plebiscito", proposto dal neocostituito Comitato
di Liberazione Nazionale dell’Istria (C.N.L.Is.), un organismo che raccoglieva senza
distinzione politica tutti coloro che difendevano l’italianità di quella terra. Al
"plebiscito" però erano tutti contrari, compresa l’Unione Sovietica che senza di
esso aveva incorporato i territori Baltici. La stessa Italia non spinse mai troppo per
questa soluzione poiché un plebiscito in Istria che, se svolto in un clima neutrale
sarebbe stato probabilmente vinto, avrebbe creato un pericoloso precedente per le
popolazioni dell’Alto Adige e della Valle d’Aosta, dove una consultazione popolare
avrebbe dato sicuramente esito largamente sfavorevole.
De Gasperi affermò in quella sede che Trieste e Gorizia erano città italiane che
svolgevano il ruolo di centri economici e culturali delle rispettive provincie. Per
salvaguardare l’interesse di tali città il loro retroterra doveva essere unito all’Italia.
La linea Wilson avrebbe assegnato all’Italia anche il bacino carbonifero dell’Arsa,
che per un paese povero di energia come il nostro sarebbe stato un grosso beneficio.
Fiume inoltre smise di rappresentare una causa di tensione. De Gasperi ammise la
sovranità della Jugoslavia sulla città, chiedendone però l’autonomia e inoltre chiese
la protezione per la minoranza italiana di Zara; in compenso massimo focolaio di
tensioni divenne Trieste.
La voce italiana era la voce di un paese sconfitto, anche se ufficialmente
cobelligerante, un paese semi-distrutto da due anni di guerra civile, e da venti di
una pesantissima dittatura che ne aveva minato la coscienza collettiva. Non
dimentichiamo che le forze italiane di sinistra, almeno fino all’esclusione della
Jugoslavia dal Cominform nel 1948, erano più propense ad appoggiare le tesi russo-
slave piuttosto che quelle italiane, probabilmente impaurite dal possibile rinascere
di un pericoloso nazionalismo e desiderose di veder arrivare più ad ovest possibile
la "cortina di ferro".
Il 15 giugno del 1946 il Consiglio dei Ministri degli Esteri riprese i lavori, che
continuarono fino agli inizi di luglio, e il 3 di luglio annunciò la soluzione: l’Italia
doveva cedere alla Jugoslavia tutto il territorio situato ad oriente della cosiddetta
linea francese. Il territorio situato ad occidente di tale linea, compreso fra il confine
austriaco e l’Adriatico a nord di Duino e vicino a Monfalcone, sarebbe rimasto
Tutta la regione a sud di Duino e ad occidente della linea francese avrebbe formato
un territorio indipendente, detto "Territorio libero di Trieste" (T.L.T.) la cui
integrità ed indipendenza sarebbero state garantite dal Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite.
Entrambe le parti si dimostrarono insoddisfatte per la costituzione del T.L.T.,
opponendosi strenuamente per cercare di ottenere l’importante città.
L’internazionalizzazione di Trieste fu un tipico compromesso delle grandi potenze,
ormai cristallizzate in due blocchi; fu così che la città e i suoi immediati dintorni
diventarono una "terra di nessuno". Tra l’insoddisfazione generale il 10 febbraio
del 1947 i rappresentanti delle 21 nazioni che partecipavano alla Conferenza per la
Pace con l’Italia si riunirono di nuovo a Parigi e firmarono il Trattato. A causa
goslava ed italiana fu deciso che il Trattato di Pace sarebbe
entrato in vigore dopo che le quattro grandi potenze lo avessero ratificato e
avessero inoltre depositato le loro ratifiche presso il Governo Francese a Parigi. Ciò
avvenne il 15 settembre 1947. Pertanto sia l’Italia, sia la Jugoslavia poterono
affermare che il Trattato di Pace era stato imposto loro dalle quattro grandi
potenze e non era stato concluso tramite un accordo libero e diretto tra i due stati
confinari interessati.
Il nuovo confine orientale d’Italia, derivato da una sciagurata guerra condotta e
persa dalla dittatura fascista, era quindi tracciato. L’estremo nazionalismo aveva
portato al risultato opposto, la cessione pressoché totale e gratuita di un’intera
regione a maggioranza etnica italiana e il conseguente massiccio esodo della
maggior parte della popolazione stessa da queste terre causato da un regime che si
sarebbe dimostrato altrettanto feroce, il regime comunista jugoslavo.
Il Trattato di Pace, stravolgendo completamente l’assetto confinario tra i due paesi,
pose un nuovo problema: quello delle opzioni per la cittadinanza italiana che
interessò una parte considerevole degli abitanti delle zone assegnate alla Jugoslavia
dopo il 15 settembre 1947. All’articolo 19, più specificatamente ai paragrafi 1,2,3 e
4 il Trattato di Pace così recitava:
"I cittadini italiani che al 10 giugno 1940 erano domiciliati in territorio ceduto
dall’Italia ad un altro stato per effetto del presente trattato (riguardò anche i
territori di Briga e Tenda ceduti alla Francia, N.d.A.) ed i loro figli nati dopo quella
data, diverranno [….] cittadini godenti di pieni diritti civili e politici dello Stato al
quale il territorio viene ceduto, secondo le leggi che a tal fine dovranno essere
emanate dallo Stato medesimo entro tre mesi dall’entrata in vigore del presente
trattato. Essi perderanno la loro cittadinanza italiana al momento in cui
diventeranno cittadini dello stato subentrante.
Il Governo dello Stato al quale il territorio è trasferito dovrà disporre […] che tutte
le persone di età superiore ai 18 anni, e tutte le persone coniugate anche al di sotto
di quest’età, la cui lingua usuale è l’italiano, abbiano facoltà di optare per la
cittadinanza italiana entro il termine di un anno dalla entrata in vigore del presente
Trattato. Qualunque persona che opti in tal senso conserverà la cittadinanza
italiana e non si considererà aver acquisita la cittadinanza dello Stato al quale il
territorio viene ceduto.
L’opzione esercitata dal marito non verrà considerata opzione da parte della
moglie. L’opzione esercitata dal padre, o se il padre non è vivente dalla madre, si
estende automaticamente a tutti i figli non coniugati di età inferiore ai 18 anni.
Lo stato al quale il territorio è ceduto potrà esigere che coloro che si avvalgano
dell’opzione, si trasferiscano in Italia entro un anno dalla data in cui l’opzione
viene esercitata e infine lo Stato al quale il territorio è ceduto dovrà assicurare
conformemente alle sue leggi fondamentali a tutte le persone che si trovano nel
territorio stesso, senza distinzioni di razza, sesso, lingua o religione il godimento dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ivi comprese la libertà di espressione,
di stampa, di diffusione, di culto, di opinione politica e di pubblica riunione."
Questo regolamento internazionale, successivamente integrato dalla legge sulla
cittadinanza adottata dalla Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia
(R.F.S.J.) e da accordi stipulati tra i due Stati, relativamente al problema dei beni
degli optanti, riguardava non solo i cittadini ancora residenti nelle terre passate alla
Jugoslavia con il Trattato di Pace, ma anche coloro che si erano già trasferiti in
Italia precedentemente al Trattato.
L’esercizio del diritto di opzione, la cui attuazione fu affidata ai "Comitati Popolari
jugoslavi", con scarse garanzie per gli interessati di ricorrere contro abusi
eventuali, presentava quindi un punto interrogativo sul modo in cui la popolazione
italiana della regione avrebbe reagito alla nuova appartenenza nazionale.
Le potenze alleate, con il solo inserimento della clausola dell’opzione nel Trattato,
avevano senza dubbio la certezza che grandi masse di popolazione si sarebbero
spostate. Dal canto della Jugoslavia, il caso di un’adesione plebiscitaria della
popolazione italiana alla possibilità di optare, avrebbe costituito una debacle
imbarazzante del punto di vista politico. Un esodo massiccio avrebbe gettato
un’ombra sulla descrizione jugoslava di un progresso economico e sociale in via di
realizzazione nella zona e privato la regione di quadri tecnici ed intellettuali
difficilmente sostituibili.
Il Governo italiano, se le opzioni avessero avuto successo, avrebbe sicuramente
guadagnato credibilità nel consesso internazionale, ma, e su questo gli ambienti neo
fascisti insistevano particolarmente, con lo spopolamento di gran parte della
popolazione autoctona dell’Istria e di Fiume, si sarebbe precluso una futura, ma
alquanto improbabile, revisione dei confini imposta dal Trattato di Pace.
La possibilità di optare fu sfruttata dalla larghissima maggioranza degli italiani
presenti, e così si aprì una delle pagine più grigie e meno conosciute della storia
contemporanea italiana: l’esodo dei giuliani, fiumani e dalmati.
1.4 - L’ESODO
Le partenze di italiani dai territori contesi non iniziarono dopo la ratifica del
Trattato di Pace e la conseguente possibilità di optare, bensì alcuni anni prima. Un
lla città di Zara, nella quale la fuga della popolazione
italiana raggiunse le punte più elevate negli anni 1943/44, con motivazioni in gran
parte diverse dall’esodo che si sviluppò negli anni successivi dall’Istria e da Fiume.
La città, enclave italiana in territorio jugoslavo, già nei primi giorni dopo
l’armistizio dell’8 settembre 1943, venne occupata dalle forze tedesche e ne fu
decretata l’annessione allo Stato fantoccio croato di Ante Pavelic. Dopo questo fatto
iniziarono i bombardamenti alleati sulla cittadina: in un anno ce ne furono ben 54,
che provocarono numerosi morti e distruzioni; la popolazione incominciò a sfollare,
molti cercarono un mezzo per ritornare in Italia o si rifugiarono nelle campagne
circostanti dove il pericolo di bombardamenti era minore, ed è in questo periodo
che avvenne l’esodo più massiccio per la città. Su una popolazione che nel 1940
contava circa 20 mila abitanti, nel maggio del 1945 erano rimaste 10 mila persone,
di cui sembra 7mila jugoslavi giunti nella cittadina dopo l’arrivo delle formazioni
partigiane. Quindi solo una piccola parte della popolazione abbandonò Zara in
seguito al nuovo tracciato dei confini.
Si pensa che l’accanimento dimostrato dagli alleati verso la città dalmata fosse
dovuto al fatto che Tito era riuscito a convincere i comandi angloamericani
dell’importanza strategica che aveva Zara per i tedeschi, quando in realtà non ne
aveva quasi nessuna.
Anche l’esodo da Pola fu per certi versi particolare; cittadina di oltre 30 mila
abitanti, in sostanza tutti italiani, Pola subì 45 giorni di occupazione dell’esercito di
liberazione jugoslavo, finché fu inserita nel quadro degli accordi tra gli alleati e
Tito nella zona di competenza amministrativa dei primi; un senso di isolamento
gravò quindi sulla città, che appena fuori dai suoi sobborghi era circondata dalla
cosiddetta "linea Morgan", la quale delimitava la zona alleata da quella
amministrata dalla Jugoslavia.
I cittadini di Pola seguirono con grande apprensione gli avvenimenti e le notizie che
arrivavano dalle varie sedi in cui si riunivano i Delegati delle grandi potenze, e lo
fecero in un clima di crescente tensione. Nella città operò il C.N.L.Is. che, come g
visto, tentò di rappresentare in sede internazionale le aspirazioni della popolazione
polese; questo organismo tentò di sostenere la competizione con l’Unione
Antifascista Italo-Slava (U.A.I.S.), vera e propria cinghia di trasmissione delle forze
filo-titine, che, tramite la sua stampa e i suoi sindacati, avrebbe tentato di perorare
la causa jugoslava.
L’U.A.I.S. nella città di Pola, che non dimentichiamo era sotto amministrazione
alleata, ebbe meno margine di manovra di quello che le era consentito nel resto
dell’Istria, dove il cosiddetto potere popolare autogestito aveva già preso le prime
misure politiche ed economiche nei confronti degli abitanti della regione (es.
nazionalizzazioni, ammasso dei beni ecc.).
Il 22 marzo del 1946 arrivò a Pola la Commissione interalleata incaricata di
dirimere la questione confinaria e la popolazione polese scese in piazza per
un’imponente manifestazione a favore della soluzione italiana. Ben 20 mila persone
vi parteciparono e tutto fa credere che i suoi inizi siano stati spontanei, incanalati in
un momento immediatamente successivo dalle più battagliere tra le organizzazioni
filo-italiane.Alla testa di questo corteo sventolavano numerose bandiere rosse;
questo fatto, liquidato dai giornali dell’opposizione con parole di scherno, rifletteva
però la divisione affiorata nello stesso movimento operaio nel quale, se si osservano
i dati relativi agli scioperi filo-italiani e filo-slavi, appare che la grande
maggioranza sembrava schierata su posizioni "italiane".
Lo spettro dell’esodo iniziò a farsi strada nel maggio del 1946 quando giunsero in
città notizie che la "proposta di linea" francese avrebbe potuto essere accettata
dalle potenze alleate; il C.N.L.Is, che probabilmente interpretava i sentimenti della
popolazione, diede per scontato, nell’ipotesi di un passaggio di Pola alla Jugoslavia,
un abbandono in massa della città come forma estrema della protesta.
La polemica tra i filo-italiani ed i filo-jugoslavi continuò sulle linee precedenti; per
tutta la durata degli avvenimenti le associazioni "jugoslave" come l’U.A.I.S. o
l’Unione degli Italiani dell’Istria e Fiume (U.I.I.F.) continuarono ad insistere
sull’assioma "esule=fascista", non interpretando probabilmente il sentimento di
una popolazione il cui principale desiderio era vivere nella Nazione Madre, e
facendo ciò approfondirono ulteriormente il solco tra loro e la gran massa degli