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Introduzione
Crisi economica 2008-2010
La crisi economica del 2008-2010, originata negli Stati Uniti, ha avuto
luogo dai primi mesi del 2008 in tutto il mondo. Tra i principali fattori della
crisi figurano gli alti prezzi delle materie prime, una crisi alimentare
mondiale, un'elevata inflazione globale, la minaccia di una recessione in
tutto il mondo, così come una crisi creditizia e di fiducia dei mercati
borsistici. Molti autori ritengono che non si tratti di una vera crisi, poiché il
termine crisi è carente di una precisa definizione tecnica, ma è vincolato
ad una profonda recessione; questa, a sua volta, si definisce come quel
periodo temporale durante il quale per due trimestri consecutivi si ha un
arretramento economico, cioè una riduzione del PIL.
Prezzi elevati delle materie prime
La decadenza degli anni 2000 è stata testimone dell'incremento dei
prezzi delle materie prime che ha seguito una riduzione del costo delle
stesse nel periodo 1980-2000, tuttavia nel 2008, l'incremento dei prezzi di
queste materie prime, particolarmente il rialzo del prezzo del petrolio e di
alcuni cereali è aumentato tanto che ha cominciato a causare veri danni
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economici, minacciando con la fame nel terzo mondo, la stagflazione ed
una riduzione del fenomeno della globalizzazione, il tutto accompagnato
da un'ondata generalizzata di ribassi nelle borse di tutti i continenti. Nel
gennaio 2008, il prezzo del petrolio ha superato i 100 dollari al barile per
la prima volta nella sua storia, continuando a salire nei mesi successivi,
fino ad arrivare ai 147 dollari a barile, per poi scendere a settembre.
Anche altre materie essenziali nella catena della produzione, come
l'acido solforico e la soda caustica, hanno visto un forte incremento del
loro prezzo fino al 60%. La crisi dell'aumento del costo del petrolio e di
alcune altre sostanze alimentari sono state oggetto di dibattito nel 34º
vertice del G8.
Aspetti della crisi negli Stati Uniti
Gli Stati Uniti, l'economia più grande del mondo, sono entrati in una grave
crisi creditizia e ipotecaria che si è sviluppata a seguito della forte bolla
speculativa immobiliare e del valore del dollaro molto basso rispetto
all'euro e ad altre valute. Dopo diversi mesi di debolezza e perdita di
impieghi, il fenomeno è collassato tra il 2007 e il 2008 causando il
fallimento di banche ed entità finanziarie e determinando una forte
riduzione dei valori borsistici e della capacità di consumo e risparmio
della popolazione. A settembre 2008, i problemi si sono aggravati con la
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bancarotta di diverse società legate al credito ed alla finanza immobiliare,
come la banca di investimenti Lehman Brothers, le società di mutui
Fannie Mae e Freddie Mac o la società di assicurazioni AIG. Il governo
nordamericano è intervenuto iniettando liquidità per centinaia di miliardi di
dollari con l'obiettivo di salvare alcune di queste società. Nel frattempo gli
indici borsistici delle borse americane, specchio della salute
dell'economia USA, sono letteralmente colati a picco con perdite che
dall'inizio dell'anno hanno superato il 40% del valore.
Crisi in Europa
A causa delle banche, il fenomeno si è espanso velocemente in diversi
paesi europei, e le borse del vecchio continente hanno accumulato
molteplici perdite nel corso dell'anno. Nel secondo trimestre del 2008,
l'insieme delle economie dell'eurozona si è contratto dello 0,2%.
Le banche e le istituzioni finanziarie che hanno investito sui mutui
subprime, sono le società che maggiormente risentono della crisi. Nel
Regno Unito si è provveduto ad una parziale nazionalizzazione degli
istituti in crisi mentre la banca franco-belga Fortis, è stata salvata dal
fallimento grazie all'intervento massiccio dei governi francese, belga e
lussemburghese. Il 7 ottobre 2008, il vertice Ecofin, organismo del
Consiglio europeo composto dai Ministri dell'Economia e della Finanza
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degli stati membri, per evitare che possa diffondersi sfiducia tra i
risparmiatori ha stabilito, che per un periodo iniziale di almeno un anno, vi
sia una protezione garantita di ciascun deposito bancario personale di
almeno 50.000 euro. In Italia tale garanzia è stata elevata a 140.000
euro.
Crisi in Italia
Una crisi che tocca in profondità il Nordovest, il Nordest, il Sud
peninsulare e che ha un impatto minore nelle regioni centrali se si
eccettua il comparto ceramiche in Emilia, e la zona industriale laziale tra
Roma, Frosinone e Latina. I dati vengono dal “Monitor statistico su
industria e aree di crisi”, realizzato dal Ministero dello Sviluppo
economico. Il saldo del triennio 2006-2009 vede l’Italia arretrare del 3,8%
contro una media europea del (– 2,4%). L’Italia resta comunque al 5°
posto della graduatoria mondiale (al 2° per produzione pro-capite) con il
3,9% della produzione mondiale. Al primo posto c’è ormai la Cina con il
suo 21,5% (nel 2000 era all’8,3), seguita dagli Usa con il 15,1% (ma nel
2000 era al 24,8% e questa inversione di ruoli spiega la tendenza di
fondo globale) e poi Giappone (8,5%) e Germania (6,5%). Quindi, si parte
da una solidità di fondo – il celebrato settore manifatturiero italiano che
ormai totalizza il 18% del Pil – che trova la sua forza non solo nei settori
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“mitici” della Moda, dell’Abbigliamento o dell’Arredo, ma che ormai fa
poggiare il 53% dell’export italiano in settori quali le Macchine, l’Auto, la
Chimica, l’Elettrico. Settori che risentono del traino mondiale e che quindi
soffrono la crisi anche perché hanno mancato, finora, la capacità di stare
al passo con lo slittamento in Asia della crescita economica. Questo
ritardo lo si coglie guardando alla perdita di competitività maturata nel
decennio 2000-2009 che è stata pari a -18% e che ha prodotto uno
stacco del 27% rispetto alla Germania. Quindi c’entra la crisi, ma il ritardo
industriale italiano ha radici più antiche come si può vedere da altri
indicatori. Il calo di redditività delle imprese che è passato dal 33,2% del
2000 al 18,8% del 2009; il rapporto tra valore aggiunto e valore della
produzione (quanta nuova ricchezza è stata prodotta in percentuale sulla
produzione complessiva) è passato dal 22% al 16%, segno che le
imprese hanno dirottato parte degli utili fuori dalla produzione stessa;
l’allungamento della vita media degli impianti che ha significato una
scarsa, o comunque, ridotta propensione al rinnovamento.
La crisi dei piccoli
In questo contesto è giunta la crisi che ha colpito le 572.132 imprese
italiane – occupanti 4.597.864 addetti – in misura piuttosto differenziata
per settore produttivo e territoriale ma comunque con un’incidenza
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profonda. Nel triennio 2006-2009 la produzione industriale è scesa del
3,8%, il valore aggiunto dell’1,5%, l’occupazione dell’1%. In questo caso,
però, è stata determinante la Cassa integrazione, ordinaria e
straordinaria, che ha interessato circa diecimila imprese – soprattutto del
settore tessile, meccanico e edilizio – che ha visto quella ordinaria salire
del 55% tra aprile 2010 e lo stesso mese dell’anno precedente e che ha
visto, ancora, la Cigs, straordinaria, del 192% sul 2009. La crisi non ha
colpito tutti nello stesso modo. Ha colpito maggiormente le piccole
industrie. Nella struttura industriale italiana, infatti, l’83,9% è formato da
micro-imprese con un numero di addetti non superiori a dieci (il 27,9% del
totale); il 13,8% da piccole e medie imprese (numero di addetti tra 10 e
49, il 32,5% sul totale) mentre solo il 2,2% è formato da grandi aziende
(sopra i 50 dipendenti che sono il 39,6% del totale). La netta prevalenza
di piccole e piccolissime imprese, in genere non rappresentato in
Confindustria, ha fatto sì che l’Italia accentuasse il proprio modello di
specializzazione nei settori più tradizionali del made in Italy, a discapito
sia dei settori che operano con economie di scala che di quelli ad alta
tecnologia.
Il fattore “italiano” lo si nota nel paragone tra l’andamento di produzione in
Italia e in Europa settore per settore. E così se l’Abbigliamento ha avuto
un +6,2% nonostante la perdita dell’1,8% in Europa, nel settore della
Macchine per ufficio l’Italia è a -34,5% mentre la media Ue è -4,9%; nel
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Legno in Italia è -8,9% contro un -5,3%; nelle Macchine per
apparecchiature elettriche a fronte di un +7,6% europeo in Italia si accusa
una flessione del 9,4%. Nei settori del Tessile o del Cuoio la flessione
segue quella dell’Unione Europea. Insomma, il sistema italiano non regge
la competitività verso i paesi dell’est asiatico, soffre in termini di crescita
dimensionale, si appoggia molto al mercato italiano e europeo e quindi fa
più fatica del sistema, ad esempio, tedesco.
La mappa territoriale
Se si cerca di definire la mappa territoriale ci si accorge che il grosso
della crisi abita al Nord, per ovvia densità industriale. Il ministero ha
suddiviso il paese in 686 Sistemi locali, tante aree più o meno omogenee
dal punto di vista produttivo, predisponendo un indicatore di crisi
occupazionale (formato da fattori come il numero dei lavoratori in Cigs, i
disoccupati, le imprese in procedura fallimentare, le imprese cessate,
etc.). Ne vengono fuori 113 Sistemi locali in crisi elevata e 136 in crisi
medio-alta, complessivamente il 36% del territorio nazionale. Dei 113
Sistemi locali individuati 33 sono a Nordovest e 28 al Nordest; 35 sono al
Sud, 16 al Centro considerando anche l’Abruzzo e il suo terremoto.
Guardando ancora meglio alle regioni si nota una predominanza di
Lombardia e Piemonte (con 16 e 15 Sistemi locali in elevata crisi),
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seguite dal Veneto (14), dalla Campania (9), e dal Lazio (8); si risale di
nuovo al Nord con Friuli Venezia Giulia e Emilia-Romagna (7) e poi giù in
Sardegna (6), Puglia e Sicilia (5).
Per quanto riguarda le sofferenze principali, nella classifica dei Sistemi
locali a elevata crisi occupazionale, in testa c’è Torino, che soffre della
crisi automobilistica, con un indice di crisi pari al 41,65% seguita da
Milano con 33,76% in cui pesa molto la crisi della Chimica. Si resta
ancora al Nord nel comparto del tessile con Biella (Piemonte) e Busto
Arsizio (Lombardia). Poi c’è il sud con la specificità siderurgica di Taranto
seguita da Caserta, da Bergamo, Sinagra (Sicilia), Bari e Casale
Monferrato. Le crisi sono sostanzialmente affrontate con la Cassa
integrazione straordinaria che però, a sua volta non garantisce per nulla
dal punto di vista occupazionale in caso di ripresa. Lo si vede dal
recentissimo rapporto della Unioncamere di Varese, provincia
manifatturiera, tra i 113 settori a elevata crisi, che nel secondo trimestre
del 2010 ha visto una ripresa della produzione pari al 3,1%. Dal punto di
vista occupazionale questo ha però comportato un saldo negativo di posti
di lavoro pari a 4000 unità. La ripresa non c’è ancora e se ci sarà non
garantisce nuova occupazione.
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Crisi in Veneto con particolare riferimento a Verona
È il Veneto la regione più colpita dalla crisi, con una contrazione del
prodotto interno lordo che nel 2008 ha segnato un -1,1%. A soffrire di
più, secondo l’elaborazione condotta dal Sole 24Ore su dati degli del
ministero dell’Economia, la pesca, il tessile-abbigliamento-calzature, la
ristorazione, i trasporti e il comparto casa.
Da studi di settore riguardo il 2008 è stato assegnato al Veneto il triste
primato della regione d’Italia che ha registrato la contrazione media dei
redditi dichiarati più rilevante (-4,8% rispetto al 2007).
A livello provinciale sono state Venezia e Rovigo a subire il riflesso più
pesante: la riduzione del reddito medio rispetto al 2007 è stata per
entrambe del -7% e al ventitreesimo posto Verona -2,6%.
A livello di reddito medio, i contribuenti veneti si piazzano al quarto posto
in Italia, con un dato pari a 33.400 euro.
A livello provinciale Verona (33.000).
Per quanto riguarda l’economia veronese, la caduta della produzione è
del 6% nel 2010 e tutte le aziende veronesi sono state investite dalla crisi,
soprattutto le piccole e le microimprese, che da sempre costituiscono
l’asse portante dell’economia.
Per le imprese da 2 a 9 addetti c’è una diminuzione di produzione e di
fatturato sia a livello tendenziale sia a livello congiunturale: rispetto allo