INTRODUZIONE
Parlare al giorno d’oggi di eretici ed associarli al piccolo schermo
potrebbe lasciare basiti molti individui. In realtà nessun altro titolo poteva
calzare meglio di questo visto l’argomento di cui tratta la presente tesi. La
definizione dell’eretico che qui mi accingo a descrivere non si discosta di
molto da quello della tradizione medievale: colui il quale crede o ritiene
giusta un'opinione gravemente errata o comunque discordante dalla tesi più
accreditata riguardo ad un certo argomento. L’unica differenza esistente tra
gli eretici medievali e i moderni risiede nelle condanne. Un tempo il rogo era
la condanna a morte ufficiale per eresia e di esempi nella storia ne abbiamo
molti Giordano Bruno, Giovanna d’Arco ad esempio. Al giorno d’oggi,
invece, la censura sembra l’arma migliore per condannare a morte, in senso
professionale, gli eretici. I concetti più spesso associati all’idea di censura
sono quelli di autorità e repressione. Il censore viene visto come imposto
dall’alto, un’emanazione delle figure di potere che hanno interesse a impedire
la diffusione di idee e notizie. La censura, dunque, sarebbe repressione,
cancellazione di informazioni destabilizzanti e sediziose in nome di un potere
che alimenta se stesso, escludendo ed emarginando tutto ciò che non rientra
nelle sue logiche. Questa è l’idea di censura sottesa alle notizie diffuse da
organi di informazione e mezzi di comunicazione essi stessi soggetti a forti
pressioni da parte del potere istituzionale.
L’obiettivo dell’elaborato, però, è quello di mostrare che la censura non
è sempre qualcosa di esterno, imposto dall’alto, ma caratterizza gli individui
esplicandosi in numerose forme che vanno dalla censura preventiva
all’autocensura, dalle leggi di mercato alle norme istituzionali.
L’elaborato è suddiviso in cinque capitoli che ripercorrono la storia
della censura attuata nella televisione italiana. La suddivisione dei capitoli è
temporale, infatti a ogni capitolo corrisponde un decennio di televisione.
Questa suddivisione è stata da me scelta per mostrare quale sia stata
l’evoluzione o involuzione del sistema televisivo italiano, ponendo a
confronto i vari anni.
Il primo capitolo è dedicato alla nascita del servizio pubblico
radiotelevisivo. Gli anni d’oro della televisione che vanno dal 1954 alla fine
degli anni ’60. Questi sono gli anni delle calzamaglie delle scollature troppo
provocanti in cui la censura era per lo più preventiva, atta cioè a tutelare i
valori cristiani ancora fortemente radicati nella cultura italiana.
La televisione degli inizi era per lo più strumento di informazione ed
educazione e solo una minima parte dei palinsesti era dedicata
all’intrattenimento.
Questi, infatti, sono gli anni dei grandi teleromanzi: Cime Tempestose,
Promessi Sposi, le commedie di Goldoni, mandate in onda affinché gli italiani
meno istruiti potessero conoscere ed apprezzare i grandi classici.
Questi, però, sono anche gli anni del codice di autodisciplina di Guala,
della DC e della sua forte ingerenza nei palinsesti tv, del Papa che auspicava,
dal balcone del Vaticano e dai suoi documenti, a una televisione in linea con
gli insegnamenti religiosi. Le vittime di questo sistema così rigido furono
numerose, ma sicuramente gli scandali di maggiore risonanza riguardarono le
apparizioni televisive di Dario Fo e Franca Rame. Il duo fu costantemente
censurato e, addirittura bandito dalla televisione pubblica per sedici anni
poiché i loro spettacoli toccavano argomenti caldi e tabù nel piccolo schermo:
morti bianche, politica, divorzio, religione.
Il secondo capitolo ripercorre gli anni ’70 di cui l’evento principale fu
la riforma della Rai che aveva come fine il ridimensionamento del potere
politico all’interno dell’azienda. Questa legge aveva come fine la tutela
dell’indipendenza, dell’obiettività e del pluralismo politico e tutto ciò fu
messo in pratica attraverso l’istituzione di una nuova commissione
parlamentare di vigilanza, dipendente unicamente dal Parlamento, al quale
spettò la nomina dei membri. Grazie a questa riforma si avviò il processo di
lottizzazione: la spartizione dei canali televisivi su base elettorale. Negli anni
’70 cambia il rapporta con il potere politico, si instaura un nuovo modo di
ridere, di fare televisione. Sono questi gli anni in cui approdano in televisione
comici del calibro di Beppe Grillo, Benigni, Troisi, i quali portano sul piccolo
schermo una satira più cinica, dissacratoria rispetto alla precedente satira
servile degli anni ’60. Certo la censura esercitava ancora ad arte il proprio
potere. Era il 1975 quando lo scrittore russo, Andrej Sinjavskij, fu intervistato
per parlare della questione dei dissidenti russi e la sua intervista fu abilmente
tagliuzzata per darle una veste anticomunista in linea con il pensiero politico
della televisione di Stato. In questo capitolo ho deciso di soffermarmi anche
sul punto di vista degli intellettuali, poco considerati dalla televisione, spesso
oggetto di censure e, in questi anni, quasi profeti sulle condizioni della realtà
virtuale e reale. In particolare il mio interesse si è rivolto nei confronti di Pier
Paolo Pasolini e dei pensatori della scuola di Francoforte Horkheimer e
Adorno. Il primo ha avuto il merito di individuare, in tempi non sospetti,
quanto grande fosse il potere del mezzo televisivo e di conseguenza quanto
grandi fossero le responsabilità di chi doveva gestire questo stesso mezzo.
Purtroppo le vicende personali di Pasolini hanno condizionato totalmente la
sua vita artistica. Le maggiori censure operate ai danni delle opere pasoliniane
erano legate agli argomenti trattati, troppo duri e veri per essere compresi in
quegli anni. L’omosessualità, la dissacrazione del potere religioso, la realtà
dei giovani proletari, i quali tentavano invano di imitare la vita dei giovani
borghesi, erano temi scomodi, impensabili per un’epoca in cui vigeva il
silenzio assoluto sulla realtà, sul presente.
La scuola di Francoforte, invece, ha introdotto le prime considerazioni
sull’industria culturale, su quell’enorme macchina o fabbrica che produce il
consenso unanime di tutti gli individui. Le loro teorizzazioni hanno il merito
di aver dimostrato quanto forte sia il potere dei mezzi di comunicazione di
eliminare la funzione critica della cultura attraverso l’obbedienza, lasciando
che le catene del consenso s’intreccino con i desideri e le aspettative dei
consumatori.
Con gli anni ’80, invece, argomento del terzo capitolo, si ha una svolta
sia nel sistema televisivo che nella coscienza degli italiani. Sono anni di
trasformazione in cui si passa dalla dimensione dell’avere a quella dell’essere.
C’è un ritorno all’etica privata, alla famiglia ma, nello stesso tempo, si fa
preponderante l’affermazione del sé, l’individualismo, l’essere prima di tutto
per se stessi e poi per gli altri.
Anche dal punto di vista televisivo sono stati anni memorabili, giocati
sul principio della concorrenza più spietata, sui primi contratti miliardari, sui
programmi osannati o cancellati in base all’indice d’ascolto. La televisione
era un enorme serbatoio in grado di rispondere alle esigenze di un pubblico
sempre più eterogeneo, si andava dalle telenovelas al telefono che interagiva
con il video dispensando gettoni d’oro. La tv pubblica è sempre più attenta
allo spettacolo e meno all’informazione, quest’ultima, quando c’è, è sempre
più spettacolarizzata e al pubblico, più che la verità, interessa lo scontro
politico, il tifo, la partigianeria, magari anche il divertimento e l’indignazione,
senza capire come stanno veramente le cose. Un ruolo fondamentale, in questi
anni, è stato giocato dalla liberalizzazione delle reti private e dal loro
successivo ingresso sul territorio nazionale, avvenuto a seguito delle sentenze
della Corte Costituzionale. Con l’avvento della concorrenza televisiva
cambia il modus operandi della Rai. Quest’ultima è consapevole che, se vuole
sopravvivere nel farwest televisivo, deve superare la fase didattico-
pedagogica e adeguarsi agli standard televisivi delle concorrenti. In
particolare, chi creò maggiori problemi alla televisione di Stato fu la neonata
Mediaset di Silvio Berlusconi che riuscì, col passare degli anni, a distruggere
il monopolio Rai.
Nonostante questi stravolgimenti politici, la censura continuava ad
ricoprire un ruolo centrale nei palinsesti tv. Al centro del mirino censorio ora
erano le grandi inchieste, le quali tentavano di raccontare le verità su temi
scottanti di un’Italia dal volto sconosciuto. Furono bloccati i reportage sulla
prostituzione, sulle carceri italiane, sulla mafia, adducendo come scuse le
pressioni politiche. Anche la musica leggera non è esente dalla censura. Nel
corso dei vari decenni sono stati molti i cantanti che hanno visto
ridimensionati i propri brani a causa dell’inadeguatezza del contenuto. Gaber,
de Andrè, Rino Gaetano, Zucchero, Vasco Rossi, Mina, Elio e le storie tese,
Nilla Pizzi: generi e contenuti diversi, ma tutti rei e “meritevoli” di censura.
Gli anni ’90 consacrano a modello di riferimento il frivolo, il
superficiale, l’apparenza. I Media acquistano in questi anni un potere tale da
influenzare a dismisura la nostra vita quotidiana. Entrano nelle nostre case
proiettandoci in tempo reale dentro le notizie o gli avvenimenti più
importanti, rendendo purtroppo oltremodo spettacolari con le immagini dal
vivo anche gli eventi più crudi.
Anche la censura ha subito una metamorfosi negli anni Novanta. Si è
passati da un rigido regime censorio ad un’apparenza di democrazia. La
nuova censura non ha censori che si fanno carico delle proprie responsabilità,
del palinsesto e che perseguono una specifica linea etica e politica. La censura
moderna è stata censurata a sua volta dall’audience, dagli indici di ascolto e
dalle leggi del mercato; almeno all’apparenza i motivi determinanti sono stati
questi. In realtà dietro qualsiasi movimento delle notizie c’è stata la mano
pressante e pesante del mondo politico, Berlusconi in primis, che, attraverso
una precisa scelta di programmi da mandare in onda, ha distratto la gente dai
veri scandali che stavano avvenendo: Tangentopoli, mani pulite, inchieste ai
danni della maggior parte dei politici italiani e leggi ad personam. Infatti gli
anni ’90 sono quelli della Legge Mammì. Essa rappresenta il primo tentativo
serio di riorganizzare e rendere funzionante il sistema tv. Fino ad allora il
complesso televisivo era regolamentato dalla legge del 4 febbraio 1985,
denominato anche decreto salva Berlusconi bis, che affidava il monopolio
radio televisivo allo Stato il quale delegava il compito a una società per azioni
a totale partecipazione pubblica. La legge Mammì non fa altro che stabilizzare
le situazione presente rendendo definitivamente legale la diffusione a livello
nazionale di programmi radiotelevisivi privati: non a caso è soprannominata
sarcasticamente legge Polaroid in quanto si limita a legittimare la situazione
anomala preesistente, da stato di fatto a stato di diritto. Vista la situazione
legislativa degli anni ’90 è facile intuire che la censura era fondamentalmente
politica: colpiva le notizie scomode a tal punto da condizionare i
telespettatori. I burattini della tv hanno eseguito alla perfezione i propri
compiti manovrati da mani esperte e senza scrupoli. Ed è così che a partire
dagli anni ’90 fino ad arrivare ai nostri giorni, argomento del quinto e ultimo
capitolo, le censure sono state indirizzate a individui che si arrogavano il
diritto di esprimere la propria opinione su argomenti di scottante attualità. La
lista degli eretici in questo caso è lunga e le accuse mosse sfiorano il ridicolo
delle volte. Abbiamo Biagi, Santoro, Luttazzi e il diktat bulgaro; Guzzanti e il
caso Raiot, Paolo Rossi, Travaglio, tutti denigrati e allontanati dal piccolo
schermo perché rei di essere controcorrente rispetto alla logica dominante.
In conclusione del percorso le domande che mi pongo sono molteplici.
In un paese democratico come è definito l’Italia, in cui si dovrebbe essere tutti
uguali di fronte alla legge, in cui vige una Costituzione di cui l’articolo 21
sancisce espressamente la libertà d’espressione, è possibile parlare a tutt’oggi
di censura? E’ possibile dover apprendere notizie riguardanti la vita del Paese
da fonti alternative perché l’informazione televisiva italiana può solo
aggiornarti sui gossip delle top model straniere? Io ritengo necessaria una
riflessione seria e intransigente su questi temi più urgenti che mai. Le nuove
generazioni sono spesso definite annoiate, prive di interessi politici o
riguardanti, più in generale, i problemi del nostro Paese. Io non penso che
tutto ciò sia vero; le nuove generazioni hanno un modo diverso di rapportarsi
al mondo (vedi i computer la televisione le radio), non a caso sono definite
Nativi Digitali. Se effettivamente si vuole che queste generazioni abbiano la
possibilità di esprimere le proprie opinioni su ciò che li circonda, è necessario
indirizzare l’informazione nei canali da loro frequentati e che soprattutto
l’informazione non sia ristretta al campo del gossip e delle frivolezze in
generale.
CAPITOLO I
LA TV TRA DIVULGAZIONE E INTRATTENIMENTO
1.1. La televisione muove i suoi primi passi
La nascita della televisione risale al 25 marzo 1925, quando l'ingegnere
scozzese John Logie Baird ne diede dimostrazione nel centro commerciale
Selfridges di Londra. Nella dimostrazione di Baird, le immagini in
movimento rappresentavano delle silhouette, avevano cioè solo due tonalità di
grigio. La trasmissione a distanza di immagini in movimento con una vasta
gamma di grigi, quelle che comunemente chiamiamo in bianco e nero, riuscì
a realizzarla il 2 ottobre del 1925 . La trasmissione avvenne dal suo
laboratorio alla stanza a fianco. Si trattava della ripresa del viso di William
Taynton, il suo fattorino, che si era prestato per l'esperimento. La risoluzione
verticale dell'immagine televisiva era di 30 linee e la frequenza delle
immagini era di 5 immagini al secondo. Il 26 gennaio 1926, Baird diede una
nuova dimostrazione pubblica di televisione nel suo laboratorio di Londra ai
membri del Royal Institution e alla stampa, pervenuti per l’occasione, mentre
1927 riuscì a trasmettere da Londra a Glasgow (700 km di distanza) attraverso
una normale linea telefonica in cavo. Nel 1928 realizzò la prima trasmissione
televisiva transoceanica, da Londra a New York e sempre nello stesso anno
riuscì a trasmettere le prime immagini a colori.
La televisione di Baird fu successivamente definita televisione
elettromeccanica perchè l'apparecchio di ripresa delle immagini e quello di
visione si basavano su un dispositivo elettromeccanico inventato il 24
dicembre 1883 da Paul Gottlieb Nipkow, il disco di Nipkow. Fu definita
elettromeccanica per differenziarla dalla televisione elettronica inventata
negli anni seguenti e tuttora utilizzata.
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La televisione elettromeccanica era ancora ad uno stadio embrionale e
si diffuse solo in alcuni stati del mondo e in aree geografiche molto limitate.
In Italia non si diffuse, fu solo sperimentata. Già nel 1939 fu completamente
dismessa e sostituita dalla televisione elettronica. Quest’ultima fu realizzata
per la prima volta il 7 settembre 1927, dall'inventore americano Philo
Farnsworth nel proprio laboratorio di San Francisco. La definizione è dovuta
al fatto che sia l'apparecchio di ripresa delle immagini che quello di visione
erano realizzati con un dispositivo elettronico, il tubo a raggi catodici,
inventato dal fisico tedesco Ferdinand Braun nel 1897.
In Italia, le prime sperimentazioni di diffusione televisiva risalgono al
1934; nel 1949 ci fu già una trasmissione sperimentale dalla Triennale di
Milano condotta da Corrado. Nonostante ciò, la programmazione ufficiale in
Italia incominciò solo il 2 Gennaio 1954 a cura della RAI, in bianco e nero e
le trasmissioni venivano irradiate sulla banda VHF dalle stazioni di Torino,
Milano e Roma di cui l'85% delle trasmissioni era realizzata nella sede di
Milano. Erano previste 32 ore settimanali di programmazione con un canone
di 12.500 lire, il più alto in Europa (due sterline in Inghilterra e cinquemila
franchi in Francia). Grazie a una serie di ripetitori, entro marzo metà della
popolazione poté ricevere il segnale televisivo. Era prevista una seconda fase,
tra il 1955 e il 1956, che avrebbe dovuto potare progressivamente il segnale
verso il Sud. I televisori costavano dalle 160. 000 alle 300.000 lire a secondo
che si trattasse di 14 o 21 pollici.
In quei giorni, la televisione era una promettente sfida che si avviava
ad occupare un posto di primo piano nel panorama dei media e più in generale
nell’industria culturale. Essa si inseriva all’interno di un progetto già
precedentemente definito per la radiofonia pubblica e palesemente ispirato al
più importante servizio pubblico europeo, la BBC, con la sua triplice funzione
di informare, educare e divertire. Un progetto, cioè, caratterizzato dal
desiderio di usare il nuovo mezzo come uno strumento di promozione
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culturale, dall’idea di una televisione in grado di sostituire i libri scolastici, le
letture obbligatorie e fare in modo di avvicinare il vasto pubblico a mondi
culturalmente distanti. Detto con le parole di Sernesi:
l’immediata diffusione visiva di avvenimenti lontani è il lato più affascinante di questo
nuovo mezzo di comunicazione col pubblico
1
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La prima annunciatrice, Fulvia Colombo, apparve sullo schermo il 3
gennaio 1954, alle 11:00 precise del mattino, elencando i programmi
inaugurali della televisione di stato. I discorsi ufficiali proseguirono fino alle
due del pomeriggio, seguiti dal primo telegiornale e dalla commedia di
Goldoni, L’Osteria della posta. Il tele-romanzo rappresentò uno dei generi di
punta della televisione delle origini e risultò essere una colonna portante
dell’impegno produttivo Rai per oltre vent’anni. Numerosi furono i romanzi
mandati in onda in quegli anni : Cime Tempestose, i Promessi sposi, i
Miserabili, Piccole donne, alcuni di questi erano accompagnati da articoli sul
Radiocorriere nei quali si cercava di spiegare l’opera originaria per facilitare
l’apprendimento della materia da parte del vasto pubblico.
In quel primo palinsesto furono altresì presenti la musica, il varietà, una
rubrica di incontri e interviste e la domenica sportiva che chiuse la prima
giornata televisiva, con l’ annuncio dei risultati delle partite di calcio.
L’esordio si svolse senza intoppi, ma, fin dai primi mesi di attività, il
presidente e i funzionari Rai vigilarono affinchè il lessico e le immagini non
turbassero i telespettatori.
1
M. Caroli, Proibitissimo, censori e censurati della radiotelevisione italiana, Garzanti, Milano 2003, cit., p.
22.
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1.2. TV: strumento di comunicazione sociale
Nell’attenta opera di vigilanza, svolsero un ruolo fondamentale il
partito cattolico e gli ambienti ecclesiastici, i quali, come scrisse Arturo
Gismondi:
mostrarono di guardare la tv non solo come un mezzo di propaganda e di influenza
politica, ma anche come un mezzo di penetrazione ideologica e confessionale
2
.
Il controllo RAI da parte della Dc avvenne in concomitanza con
l’insediamento del primo governo democristiano in Italia, nel dicembre 1945,
dopo la breve parentesi del governo Parri. Il primo governo De Gasperi
accompagnò l’Italia nel passaggio dalla monarchia alla repubblica
(referendum popolare del 2 giugno 1946). Alcide De Gasperi nominò, nel
1945, al ministero delle Poste Mario Scelba (un fermo anticomunista e
membro della prima ora del Pp) e alla presidenza RAI Giuseppe Spataro
(anch’egli figura di primo piano nel Partito popolare di Sturzo e segretario
della Dc nel periodo clandestino). Il 15 gennaio 1947, dopo ripetute richieste
di regolamentazione da parte alleata e dopo un lungo iter viziato da numerose
pressioni politiche, venne approvato il decreto n. 428 che riorganizzò l’intero
settore della radiofonia. Anzitutto ripristinò la convenzione del 1927,
giudicandone idonei gli adempimenti e le norme relative alla concessione in
regime di monopolio. Inoltre, stabilì l’introduzione di due organi di vigilanza
da affiancare ai due ministeri che dal novembre del 1944 ebbero in mano la
radiofonia: un «Comitato per le direttive di massima culturali», gestito dal
ministro delle Poste (che doveva approvare i programmi trimestrali e gestire
la parte tecnica e finanziaria), e, la vera novità del decreto, una «Commissione
2
Ivi, p. 28.
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