3
L’esposizione è suddivisa in tre parti fondamentali. La prima
di esse offre un quadro dell’evoluzione dottrinale e
giurisprudenziale del concetto di ente senza scopo di lucro nel corso
del tempo, in particolare sotto la vigenza del cod. comm. 1882 e del
cod. civ. 1865 e dopo l’unificazione dei codici.
La seconda parte intende proporre un’analisi delle norme del
T.u.i.r. n.917/86, che contribuivano a qualificare la nozione di ente
senza scopo di lucro, prima della riforma introdotta dalla delega
contenuta nell’art. 3 commi 186, 187, 188, 189 della legge n.
662/96 e culminata nel d. lgs. n. 460/97 che ha opportunamente
modificato le norme del T.u., nell’ottica di incentivare l’azione
degli enti in questione.
La terza parte dell’elaborato illustra la disciplina, con gli
annessi contributi dottrinari, di speciali enti senza scopo di lucro, di
nascita recente, e destinati a diventare, come si auspica, tra i più
importanti soggetti non profit, data la notevole disponibilità di
mezzi economici: si tratta delle Fondazioni bancarie. Lo studio,
attraverso passaggi intermedi, costituiti dalla definizione della
natura giuridica e del regime tributario di tali organismi, perviene
all’analisi del recente d. lgs. n. 153/99 emanato sulla scia dei
principi sanciti in prima istanza nel disegno di legge Ciampi, e poi
trasfusi nella legge delega n. 461/98.
4
I. COLLOCAZIONE NELL’AMBITO CIVILISTICO DEGLI
ENTI NON PROFIT
I.1. Origini del problema degli enti senza scopo di lucro sotto la
vigenza del cod. comm. 1882 nel rapporto con il cod. civ. 1865
Il problema degli enti senza scopo di lucro ha origini remote,
in quanto una diffidenza verso associazioni costituite per conseguire
interessi di natura non patrimoniale era da ravvisarsi già nell’epoca
post-rivoluzionaria francese: si riteneva, infatti, che forme
associative di quel genere potessero ricondurre in vita le
corporazioni dello Stato assoluto, con la conseguenza di disgregare
l’unità statale e di elidere il rapporto diretto Stato-cittadino, ritenuto
una fondamentale garanzia d’ogni ordinamento liberale.
L’influenza di una tale ideologia si coglie nelle previsioni del
cod. civ. del 1865, in cui era attribuita rilevanza alle sole forme
associative costituite al fine di realizzare scopi di lucro e, al limite,
ad associazioni per le quali era intervenuto un atto di
riconoscimento da parte del potere statuale, nel presupposto che
quest’ultimo soltanto fosse in grado di rimuovere le limitazioni
poste all’autonomia privata
1
.
1
Secondo GALGANO, F., “Delle persone giuridiche”, Commentario del cod. civ., Libro I,
Artt. 11-35, Bologna-Roma, 1969, p. 128, solo in virtù del riconoscimento “la volontà dei
privati diretta a costituire un rapporto associativo riceveva piena attuazione da parte del potere
statuale”; a conferma della posizione marginale riservata agli enti per i quali non era
5
L’orientamento rigoristico nei confronti degli enti senza scopo
di lucro cominciò gradualmente a cambiare ed un dato positivo in
tal senso è desumibile dalla norma contenuta nell’art. 229 del cod.
comm.1882, alla stregua del quale le cosiddette “società civili”
senza scopo di guadagno economico potevano assumere la forma
delle società per azioni.
Essendo la nozione di società civile l’unica a consentire
un’apertura verso forme associative che non perseguono interessi di
ordine economico, sia la dottrina sia la giurisprudenza dibatteva
circa la possibilità che le associazioni senza scopo di lucro
potessero essere ricondotte nell’ambito di questa categoria e quindi
assumere forma commerciale ex art. 229 cod. comm..
L’orientamento prevalente negava una tale assimilazione, in base al
convincimento che lo scopo di guadagno (economico)
2
, inteso come
“beneficio pecuniario che si ritrae da un’impresa o speculazione
intervenuto un riconoscimento, possiamo riportare la definizione coniata da FERRARA, SR.,
Teoria delle persone giuridiche, II ed., Napoli-Torino, 1923, pp. 1034-1036, secondo la quale
“il soggetto che si crea nell’associazione (non riconosciuta) è un soggetto sociale, risultante dal
procedimento intellettuale di sintesi del nostro pensiero, non un soggetto giuridico”, dato che
“la posizione giuridica delle associazioni non riconosciute è e deve essere inferiore a quella
delle persone giuridiche: posizione precaria, fragile, incresciosa, posizione inadeguata e non
corrispondente all’intenzione delle parti”.
2
In dottrina si discuteva dell’ampiezza del concetto di guadagno e le posizioni si alternavano
tra coloro i quali ritenevano si trattasse soltanto di incrementi patrimoniali, come ad esempio
SOPRANO, E., Trattato teorico-pratico di diritto commerciale, Torino, 1934, vol. I, p. 265,
secondo il quale, sul presupposto che “…il fine ultimo dei soci…soggiace alla legge del
minimo mezzo:…ogni contraente cercherà di dare agli altri contraenti il meno possibile di
sé…per ottenere il massimo rendimento” (p. 101), sostiene che “il fine dei soci è quello di
“conseguire un vantaggio individuale…che consiste nel conseguimento di un utile ripartibile
fra i soci”; e coloro che consideravano guadagno anche altri vantaggi di ordine economico,
come ad esempio VIVANTE, C., Trattato di diritto commerciale, V ed., Milano, 1923, vol. II,
p. 37, secondo il quale “…il risparmio di spesa ottenuto dal socio di una cooperativa di
consumo…ed anche il risparmio di spesa ottenuto dal socio che si assicura presso una mutua
sono guadagni…perché un risparmio nella spesa corrisponde a un guadagno quando si rifletta
alla riduzione che il patrimonio avrebbe sofferto se si fosse fatta la spesa normale”.
6
qualsiasi”
3
, è requisito causale essenziale tanto delle società civili
quanto delle società commerciali.
Pur essendo questi istituti accomunati dal fatto che la
soddisfazione di interessi non patrimoniali era ritenuta
incompatibile con la loro configurazione, una notevole differenza
tra essi s’innestava piuttosto sull’ampiezza del concetto di guadagno
ex art. 1697 cod. civ., considerando che tale norma non indicava
tassativamente il modo attraverso il quale il guadagno doveva
essere perseguito: le società commerciali soltanto attraverso atti
speculativi di commercio, le società civili anche mediante lo
svolgimento di attività non economiche, quali ad esempio la
semplice gestione in comune dei beni a fini di mero godimento.
Nonostante l’ampia portata così riconosciuta all’art. 229 cod.
comm., l’orientamento prevalente escludeva che esso potesse
prestarsi a legittimare associazioni con finalità artistiche, culturali,
religiose, caratterizzate dall’assenza della divisione degli utili tra i
soci e dalla loro destinazione a terzi. Si riteneva, infatti, che una tale
apertura sottendesse il rischio di consentire la ricostituzione, per via
indiretta, di società vietate dalla legge o soppresse, le quali,
3
App. Torino, 14 Novembre 1913, Giur. it., vol. I, sez. II, 1914, p. 232. Nel caso di specie si discuteva
della qualifica da attribuire ad una società denominata “Stadium”, che si occupava
dell’organizzazione di spettacoli, definita “società civile particolare” dai soci, ma non
riconosciuta tale dalla Corte perché avente “unicamente uno scopo educativo, diretto a
contribuire al pubblico bene”; in particolare, in alcuni passaggi si legge “perché una società
civile possa assumere le forme delle S.p.A., bisogna che sia una società civile nel vero senso
voluto dalla legge…elemento indispensabile del contratto di società è quello di aumentare la
produzione e la ricchezza, scopo evidentemente materiale, valutabile a contanti, e non già
scopo avente un valore esclusivamente morale o di semplice diletto”.
7
assumendo forma commerciale, avrebbero goduto di tutte le
prerogative proprie del tipo societario: dalla disponibilità di un
patrimonio alla capacità di contrattare e di ricevere eredità e legati.
Per tutte queste ragioni si preferiva ricomprenderle nella categoria
dei negozi innominati ed evitare così i pericoli della “manomorta”.
Parte minoritaria della dottrina e della giurisprudenza,
muovendo dall’assunto che scopi più nobili del lucro fossero
ugualmente meritevoli di considerazione come fondamento di un
contratto di società, aveva proposto un concetto di guadagno
comprensivo anche di benefici di natura non economica, con la
conseguenza di includere le suddette forme associative nell’ambito
della disciplina ex art. 229 cod. comm.
4
.
4
In questo senso VIDARI, E., Corso di diritto commerciale, Milano, 1893, vol. I, p. 452, per il
quale l’art. 1697 c.c. avrebbe avuto valore meramente esemplificativo senza intenzione di
escludere dal novero delle società le associazioni non lucrative. Anche nella giurisprudenza si
riscontrano orientamenti favorevoli ad un’apertura verso un più ampio concetto di scopo di
guadagno; ad esempio nella sentenza Cass. Firenze, 4 aprile 1907, Riv. dir. comm., 1907, vol.
II, p. 506, la Corte ha ritenuto società commerciale “una società costituita a scopo di
divertimento, la quale pel raggiungimento del suo scopo assume imprese di pubblici spettacoli
a pagamento, come rappresentazioni teatrali, corsi carnevaleschi, fiere fantastiche e simili, con
agevolazioni pecuniarie per le famiglie dei soci”; infatti, secondo la Corte “non è possibile
disconoscere che più persone, le quali per scopo di divertimento e ricreazione si uniscono
insieme, formino una vera e propria società…allorché fruiscono di certi vantaggi pecuniari, sia
pure modesti, oltre che morali, i quali appunto si concretano nel divertimento…infatti, la
parola guadagno, nel suo lato senso, comprende qualsiasi profitto e beneficio, tanto materiale
che morale, ossia anche quel lucrum boni delectabilis…”. In senso conforme la sentenza Cass.
Firenze, 7 luglio 1887, Giur. it., 1887, vol. I, sez. I, p. 673, in cui si discuteva se una società
filarmonica fosse o meno da considerare società civile e la Corte ha optato per la prima
soluzione, considerando che “tutto quanto nell’ordine materiale e morale può giovare al
benessere dell’uomo, e così anche la ricreazione onesta e civile con dati intrattenimenti (nella
specie il culto dell’arte musicale) può essere oggetto di contratti di società”.
8
I.1.1. Teoria del negozio indiretto: presupposti ed obiezioni, anche
alla luce del nuovo art. 2247 cod.civ.
Un primo effettivo sforzo di ricostruzione della categoria delle
società senza scopo di lucro si ebbe con la teoria del negozio
indiretto, elaborata al fine di superare la negazione di una propria
rilevanza all’intento giuridico, ossia la volontà delle parti diretta
alla produzione di effetti giuridici
5
. Il problema era particolarmente
sentito proprio per i negozi innominati, caratterizzati da un
contenuto negoziale non sussumibile sotto un tipo legale ben
determinato ma, allo stesso tempo, ritenuto meritevole di tutela
6
.
La teoria del negozio indiretto, elaborata inizialmente con
riferimento ai contratti di scambio, fu trasposta in campo societario
ad opera di Ascarelli
7
, con l’obiettivo di sminuire la portata causale
5
Secondo MARASÀ, G., Le società senza scopo di lucro, Milano, 1984, pp. 19 sgg., il
dibattito iniziato in dottrina a proposito del negozio indiretto trovò origine nella riconosciuta
compressione del principio della libertà contrattuale; infatti, da una parte si riteneva che
spettasse esclusivamente al legislatore ricollegare effetti giuridici all’intento empirico
manifestato dalle parti, le quali potevano soltanto formare il nuovo materiale di fatto (cfr.
RUBINO, D., Il negozio giuridico indiretto, Milano, 1937, p. 48), dall’altra era previsto il
divieto di coniare materiale negoziale diverso da quello incluso nelle fattispecie tipizzate dal
legislatore.
6
Per tale categoria negoziale la dottrina era divisa in due posizioni: da un lato, coloro i quali li
identificavano con i contratti misti, risolvendo quindi il problema della disciplina da applicare
o individuandola in quella dell’elemento tipico prevalente, o combinando quelle dei diversi
elementi tipici presenti, oppure ricorrendo alla disciplina del contratto tipico più adeguata alla
fattispecie; dall’altro, coloro che optavano per l’individuazione della parte dell’intento pratico,
nell’ambito del nuovo materiale negoziale, da sussumere sotto lo schema di un tipo nominato.
Ma, in entrambe i casi, non restava alcuno spazio per il cd. intento giuridico, ossia la reale
volontà delle parti, soprattutto quando la fattispecie atipica si proponeva la costituzione o il
trasferimento di un diritto reale, effetto ritenuto realizzabile soltanto attraverso contratti
nominati; per evitare la dichiarazione di nullità del negozio, l’unica via da seguire restava
quella di ricorrere ad una costruzione giuridica, imposta dal principio di conservazione del
contratto.
7
L’Autore ha studiato il problema del negozio indiretto in varie opere, fra le quali ricordiamo
Appunti di diritto commerciale, III Ed., Roma, 1936, pp. 350 sgg.; “Sul problema del negozio
9
dello scopo di lucro nel contratto di società
8
. l’Autore sosteneva che
la fattispecie del negozio indiretto, o con scopi indiretti,
rappresentasse “un fenomeno storico di indole generale”, di cui
prendere atto nel segno dell’evoluzione del diritto, in quanto tali
negozi avrebbero dato luogo, nel loro successivo sviluppo, a nuovi
istituti, rispondenti alle mutevoli esigenze economiche.
L’esigenza delle parti era quella di perseguire, attraverso
opportune clausole, intenti che non coincidevano con la funzione
tipica del negozio posto in essere, ma che rivestivano
un’importanza psicologica prevalente. La funzione voluta poteva
essere propria di un negozio carente di una compiuta disciplina,
oppure regolato da una normativa che le parti ritenevano di dover
posporre a quella del negozio adottato, restando comunque, sul
piano giuridico, un motivo, che acquistava rilevanza soltanto in
quanto tradotto in particolari clausole.
indiretto e della simulazione delle società commerciali nella giurisprudenza della Corte
Suprema”, Foro it., vol. I, 1936, pp. 778 sgg.; Studi in tema di società, Milano, 1952, p. 69
sgg.; “Riflessioni in tema di consorzi, mutue, associazioni e società”, Riv. trim. dir. e proc. civ.,
1953, p. 327; Saggi di diritto commerciale, Milano, 1955, pp. 304 sgg..
8
Una delle applicazioni della teoria del negozio indiretto attiene la società anonima, costituita
allo scopo della successiva concentrazione delle azioni in un’unica mano; infatti la massima di
una sentenza della Corte di Cassazione (n. 1233, 8 aprile 1936, Foro it., vol. I, 1936, p. 779)
così si esprime “la società anonima, purché sia attuata nella forma di legge e come tale
esclusivamente si esteriorizzi resta intangibile con tutti i suoi effetti, qualunque sia stato
l’intento dei soggetti creatori, e quindi anche quando quell’intento consiste esclusivamente
nella limitazione della responsabilità sancita nell’art. 1948 c.c.; e i terzi non hanno
normalmente il mezzo di superare i limiti della costruzione sociale a responsabilità limitata,
anche se dimostrino con qualunque mezzo (possesso delle azioni o altro), che l’anonima è di
comodo”. Secondo ASCARELLI, T., “Sul problema del negozio indiretto…”, op. cit., p. 780,
“…la giurisprudenza accoglieva un diverso ordine di idee, volto a distinguere tra simulazione
(ammissibile anche nella costituzione di società commerciali) e nuove funzioni assolte dalle
società commerciali, validamente e seriamente costituite, ma con una particolare disciplina
statutaria ed eventualmente con particolari convenzioni interne, onde permettere alla società di
assolvere funzioni diverse da quelle tipiche della società”.
10
La teoria si presentava articolata in una duplice alternativa.
La prima delle due costruzioni giuridiche si fondava su una
finzione di volontà: infatti, lo scopo effettivamente perseguito dalle
parti assumeva semplicemente la qualifica di motivo ulteriore, la
cui esistenza non influenzava assolutamente la causa tipica del
negozio, l’unica rilevante per l’ordinamento. Sul piano soggettivo,
invece, le parti avrebbero potuto attribuire ad essa anche
un’importanza limitata, essendo piuttosto interessate al
raggiungimento dello scopo ulteriore che le aveva determinate a
porre in essere il negozio
9
.
L’altra ipotesi consisteva nella scissione della fattispecie
innominata in un insieme di negozi tipici, in modo che la
combinazione negoziale risultante consentisse di raggiungere
l’ulteriore fine preso di mira dalle parti.
Dopo l’unificazione dei codici, alla luce della norma cardine in
questa materia (art. 2247), si affermava pacificamente che
l’interesse egoistico dei soci sotteso al conferimento di beni o
servizi, fosse di natura economica, in quanto risiedeva nella
divisione degli utili derivanti dall’esercizio in comune di un’attività
economica.
9
Secondo ASCARELLI, T., “Il negozio indiretto e le società commerciali”, in AA.VV., Studi
di diritto commerciale in onore di Cesare Vivante, vol. I, pp. 41 sgg., “…l’elemento decisivo è
il raggiungimento di scopi ulteriori rispetto ai quali quello tipico del negozio adottato non è che
un presupposto, un punto di passaggio…e così si constata come ogni negozio possa
indirettamente adempiere anche a delle funzioni che non corrispondono a quella tipica in
relazione alla quale si caratterizza…ma la causa tipica deve sempre ritenersi sussistente, anche
quando nel pensiero delle parti essa non abbia che un’importanza economica minima”.
11
Dato che la disposizione non offriva una definizione del
concetto di utile, si riteneva innanzitutto che l’art. 2247 delineasse
soltanto il principale degli interessi lucrativi perseguibili nel corso
del rapporto sociale, perché esistono incrementi patrimoniali, quali
ad esempio il sovrapprezzo azionario che, pur non scaturendo dallo
svolgimento dell’attività, potevano essere divisi tra i soci.
Inoltre, mentre la lettera della norma configurava il momento
produttivo dell’utile come strumentale rispetto al momento
distributivo, in cui effettivamente si concretava l’interesse dei soci,
gli interpreti continuavano a privilegiare la fase della produzione
come indicativa della nozione in questione: la divisione degli utili,
infatti, non poteva essere considerata separatamente dall’esercizio
in comune di un’attività volta a realizzarli.
In ogni caso è ormai pacifico in dottrina scindere il concetto di
lucro societario nei due aspetti che devono concorrere affinché si
configuri una società conforme al tipo legislativo: si tratta del lucro
oggettivo, che rappresenta la produzione degli utili, e del lucro
soggettivo che indica il momento della loro distribuzione tra i
soci
10
.
10
Cfr. SCIALOJA, A., “Sul concetto di impresa come atto obiettivo di commercio”, in
AA.VV., Saggi di vario diritto, vol. I, Roma, 1927, pp. 337-338, secondo il quale, pur dovendo
distinguere “la creazione dalla destinazione del guadagno”, l’aspetto rilevante affinché si abbia
un’impresa commerciale è “…l’intento di ottenere un risultato economico…qualunque
destinazione sia data a questo risultato…”; in senso parzialmente difforme BIGIAVI, W., La
professionalità dell’imprenditore, Padova, 1948, p. 54, secondo il quale “affinché esista,
nell’ambito delle società il fine di lucro, non basta il solo fine di conseguire un lucro, ma
occorre anche quello di devolverlo ai soci; non basta il semplice lucro oggettivo: occorre anche
il lucro soggettivo”.
12
Ascarelli, nel trasferire la teoria del negozio indiretto dal
terreno dei contratti di scambio all’ambito societario, sosteneva che,
ferma restando l’osservanza della causa tipica delle società, scopi
non lucrativi potevano essere perseguiti in via indiretta come
risultato ulteriore: in tal modo una società formalmente rispettosa
dei requisiti ex art. 2247 poteva, di fatto, perseguire finalità
benefiche laddove, all’unanimità, i soci acconsentissero o
comunque non si opponessero alla devoluzione degli utili a terzi; la
disciplina applicabile restava quindi quella richiamata dalla
fattispecie.
Dall’altro lato, lo studioso decretava la nullità di quei contratti
di società che, mediante una clausola o un patto parasociale,
disponevano espressamente lo scopo non lucrativo.
La principale obiezione mossa ad una tale impostazione faceva
leva sulla mancanza di una ponderata considerazione della causa
nei contratti associativi rispetto ai contratti di scambio. In questi
ultimi, l’interesse delle parti si realizza con il compimento di uno o
più atti, cosicché per stabilire se ci si trova in presenza di un
negozio indiretto si effettua una comparazione tra atto dichiarativo
di una determinata causa e atto attuativo anche di uno scopo
diverso.
Nel contratto associativo la causa consiste invece
13
nell’esercizio in comune di un’attività
11
che mira ad un obiettivo
unitario e che pertanto non si configura come mera risultante di
singoli atti; perciò il raffronto tra l’attività suddetta ed il programma
contrattuale, per appurarne il rispetto, è meno immediato sia perché
non sono predeterminabili gli atti che la costituiscono, sia perché lo
svolgimento di un’attività lucrativa può avvenire anche attraverso
singoli atti non lucrativi, a condizione però che la loro importanza
non sia tale da incidere sul risultato dell’attività. Piuttosto una
comparazione potrà effettuarsi soltanto quando un’attività conforme
alla causa tipica è non solo contrattualmente dichiarata, ma anche
attuata in concreto, consentendo inoltre la realizzazione di un
interesse diverso da quello tipico
12
.
Alla luce di queste considerazioni, appare inaccettabile
l’impostazione di Ascarelli che ritiene necessario e sufficiente il
rispetto dello scopo lucrativo in sede di stesura del contratto di
società, a nulla rilevando poi che nel momento attuativo esso non
venga realizzato, restando quindi al livello di semplice
enunciazione.
Secondo un’altra tesi, orientata nel senso di degradare lo scopo
11
Secondo GALGANO, F. (Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, nel
Commentario del cod.civ. a cura di Scialoja e Branca, artt.36-42, II Ed., Bologna-Roma, 1976,
sub artt. 36-38, p. 15 sgg.), “i caratteri essenziali del fenomeno associativo sarebbero tre:
l’origine contrattuale del fenomeno, lo svolgimento di un’attività comune con rilevanza
esterna, la presenza di uno scopo comune”.
12
Secondo RUBINO, Il negozio giuridico indiretto, op. cit., p. 23, “lo scopo indiretto o
ulteriore deve essere un risultato avente un profilo giuridico esattamente individuato, estraneo
al negozio adoperato nel caso concreto e che, quando questo negozio avrà ricevuto completa
esecuzione, si sostituirà in tutto o in parte al risultato immediato di essa”.
14
di lucro da connotato essenziale del contratto di società a mero
motivo, presente ma non essenziale, la causa del contratto
associativo consisteva esclusivamente nell’esercizio collettivo
d’impresa
13
, con la conseguenza che non sorgeva alcun problema
nel configurare una società costituita con finalità non lucrative.
Si è obiettato che, pur essendo lo svolgimento in comune di
un’attività economica un momento essenziale nella vita di una
società, esso non può esaurire la causa del contratto perché è in
grado di esprimere solo parzialmente l’interesse perseguito dalle
parti: infatti, l’esercizio di un’attività economica, produttiva di utili,
accresce la consistenza patrimoniale della partecipazione e ne
aumenta l’eventuale valore di scambio; ma l’interesse del socio è
compiutamente realizzato soltanto in vista della destinazione che
all’utile stesso viene data
14
.
13
Fra i sostenitori della tesi in esame ricordiamo VERRUCOLI, P., La società cooperativa,
Milano, 1958, p. 140, secondo il quale “Poiché la società è sempre impresa, l’elemento causale
della società…è sempre e soltanto l’esercizio d’impresa. A ben guardare, la volontà di cui
all’art. 2247 sta tutta nel fatto materiale dei conferimenti e non può darsi peso negoziale a tale
volontà a causa della menzione dello scopo (ripartizione degli utili)…tale
ripartizione…rappresenta soltanto un elemento causale aggiuntivo di quello fondamentale…”;
CASANOVA, M., Le imprese commerciali, Torino, 1955, p. 165, il quale afferma che “La
portata innovatrice dell’art. 2247 c.c. rispetto al diritto previgente consiste nell’escludere dal
novero delle società le forme di godimento collettivo dei beni…nel sistema vigente la società è
sempre una forma di esercizio collettivo di un’attività economica produttiva”; GIORDANO,
A., “Impresa sociale e scopo di lucro”, in AA.VV., Studi in onore di E. Betti, vol. V, Milano,
1962, p. 179, per il quale “…mentre è costante nelle varie figure di società lo scopo
dell’esercizio in comune di un’attività economica, varia lo scopo ulteriore che può essere
lucrativo o mutualistico o consortile”.
14
Nel senso del testo RAGUSA-MAGGIORE, G., “La causa del contratto di società-La causa
del contratto di società in particolare”, Dir. fall., vol. I, 1959, p. 117, il quale definisce la causa
del contratto di società come uno “schema complesso…costituito da elementi oggettivi e
soggettivi che, enucleati dagli intenti personali dei soci, si ricollegano alla causa del contratto,
facendo di essa la funzione della fattispecie. La caratteristica di tale funzione è quindi quella di
sussumere elementi eterogenei, aventi da soli esistenza autonoma, e, per così dire, neutra.
L’esercizio in comune di un’attività, elemento di per sé oggettivo, da solo non identifica la
causa, ricorrendo nelle associazioni e in altri tipi contrattuali con comunione di scopo”.