4
2. Le origini storiche del giudicato penale
Il giudicato penale, così come è attualmente concepito e disciplinato, costituisce
l’esito di una lenta e non sempre coerente evoluzione che ha attraversato i più disparati
contesti storici, dal mondo antico fino ai giorni nostri. Il denominatore comune di questo
percorso più che bimillenario è costituito dall’intangibilità del giudicato penale: essa, in-
fatti, benché abbia visto la propria fisionomia mutare a più riprese, ha rappresentato una
costante che tuttora connota i rapporti tra individuo e potere statuale in quel delicato con-
testo che è il processo penale.
«Togliere al giudicato il suo carattere irrevocabile, attentare ad esso, sia pure per mezzo
di una legge o di un decreto del popolo, è delitto spaventevole, è un atto empio, è un
attentato ai principi fondamentali del governo democratico»
11
: queste parole dell’oratore
e politico ateniese Demostene risalgono al IV secolo a.C. e dimostrano come l’intangibi-
lità del giudicato penale fosse già in quell’epoca considerata un principio in grado di ga-
rantire ordine e stabilità politica e sociale. Essa, secondo l’Autore, non avrebbe dovuto
10
PADOA SCHIOPPA A., Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, Bologna, il Mu-
lino, 2007, p. 9.
11
DEMOSTENE, Contro Timocrate, 152.
5
essere vulnerata nemmeno tramite una legge: volendo, potrebbe qui scorgersi quello che
oggi definiremmo come rango o fondamento costituzionale dell’intangibilità della cosa
giudicata penale
12
.
È significativo notare come i medesimi concetti siano stati espressi, in un contesto com-
pletamente diverso, quello dell’ottocentesca Seconda Repubblica francese, dal giurista e
consigliere di Cassazione Faustin Hélie, considerato uno dei padri del diritto penale e
processuale penale transalpino: nel suo Traité de l’instruction criminelle si legge che
«l’autorità della cosa giudicata è sovrana; essa è più forte della stessa verità»
13
. Apertis
verbis, questa affermazione denota come nella cultura giuridica del tempo la stabilità del
giudicato fosse avvertita come un’esigenza che, in caso di contrasto, doveva prevalere
anche rispetto al bisogno di garantire la conformità tra l’accertamento contenuto nella
sentenza e la realtà sostanziale.
Il fatto che due Autori tra loro così lontani nel tempo e nel contesto sociopolitico abbiano
espresso concetti pressoché sovrapponibili fa ben comprendere come l’esigenza di assi-
curare stabilità e incontrovertibilità alla res iudicata sia stata sempre avvertita dall’uomo
come cruciale al fine di garantire «una organizzazione armonica della società»
14
.
Ciò che si è da ultimo affermato, tuttavia, va rettamente inteso: non bisogna cioè com-
mettere l’errore di ritenere che il giudicato penale si sia mantenuto uguale a se stesso nel
corso di più di duemila anni di storia; al contrario, sulla sua fisionomia ha sensibilmente
inciso il succedersi di esperienze giuridiche e di riflessioni teoriche le più disparate. In
altri termini, «la scelta del mezzo tecnico, che il legislatore compie per garantire la irre-
trattabilità del risultato del processo, varia secondo le epoche ed è modellata secondo la
particolare struttura della istituzione giudiziaria in cui opera»
15
: per afferrare appieno il
cruciale ruolo che ancora oggi il giudicato penale ricopre è pertanto opportuno svolgere
un breve excursus delle maggiori esperienze storiche e giuridiche del passato, così da
mettere in luce l’evoluzione che l’ha condotto ad assumere le attuali caratteristiche. Nel
fare questo, non si può non prendere le mosse dal diritto romano, nella consapevolezza
12
Si tratta di un aspetto su cui ci soffermeremo diffusamente infra (cap. I, §§ 5 ss.).
13
HÉLIE F., Traité de l’instruction criminelle, III, Paris, Charles Hingray, 1848, p. 524.
14
CALLARI F., La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, Milano, Giuffrè, 2009, p. 60. A questo
proposito, vi è stato chi si è spinto ad affermare l’esistenza di un nesso necessario e inscindibile tra l’intan-
gibilità del giudicato e l’umanità stessa: si tratta di NICOLINI N., Della procedura penale nel regno delle
Due Sicilie, I, Livorno, Vincenzo Mansi, 1843, p. 33, secondo cui «fin che vi è l’uomo, la forza immutabile
della cosa giudicata è uno dei canoni necessari ed eterni dell’umanità».
15
DE LUCA G., voce Giudicato. II) Diritto processuale penale, cit., p. 3.
6
che «il diritto come scienza è nato a Roma e pertanto chi intende coltivare tale scienza
non può ignorarne le origini, come non è concepibile che uno studioso d’arte ignori gli
insuperabili modelli offerti dall’antica Grecia»
16
.
2.1 L’intangibilità del giudicato nel diritto greco e romano
Come si è fatto precedentemente notare, il ruolo del giudicato penale era lucida-
mente avvertito già nella Grecia classica. A titolo meramente esemplificativo, si pensi a
ciò che si legge nel Critone, uno dei più noti dialoghi di Platone: secondo il filosofo ate-
niese, non è possibile «che possa sussistere e non essere sovvertito uno Stato nel quale le
decisioni emanate dai giudici sono prive di ogni forza e sono eluse ed annullate per opera
dei privati cittadini»
17
. È assai significativo notare che questa considerazione portò So-
crate, protagonista del dialogo, ad accettare senza remore l’ingiusta condanna a morte che
gli era stata inflitta, rifiutando categoricamente ogni proposta di fuga: la stabilità e il ri-
spetto delle leggi e delle decisioni su queste fondate, infatti, erano per lui dei valori asso-
lutamente preminenti, la trasgressione dei quali avrebbe comportato la rapida dissolu-
zione dell’ordine individuale e sociale.
Una vera e propria elaborazione teorica dell’intangibilità del giudicato penale si deve,
però, all’esperienza giuridica romana, nella quale, attraverso una lenta e non sempre li-
neare evoluzione, si giunse gradualmente ad affermare il concetto della firmitas iudicati.
Si tratta di un principio sorto in ambito civile
18
: ben presto, tuttavia, si diffuse la convin-
zione che, considerata la somma rilevanza dei beni in gioco nel processo penale, esso
dovesse a fortiori connotare anche quest’ultimo.
È dunque pacifico che l’intangibilità del giudicato costituisse un principio cardine del
diritto romano: più discusse sono, invece, le origini di questo istituto. L’oggetto di questo
elaborato non ci permette di addentrarci in una discussione che ha visto contrapposti Au-
tori che facevano risalire la regola del ne bis in idem addirittura alla Legge delle XII
16
METRO A., L’eredità giuridica di Roma, in CERAMI P. – CORBINO A. – METRO A. – PURPURA G., Storia
del diritto romano, Messina, Libreria Editrice Torre Catania, 1996, p. 345.
17
PLATONE, Critone, XI.
18
Se ne occupa diffusamente MARRONE M., Dal divieto di agere acta all’auctoritas rei iudicatae. Alle radici
delle moderne teorie sul giudicato, in ROMANO S. (a cura di), Nozione formazione e interpretazione del
diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor F. Gallo, II, Napoli, Jo-
vene, 1997, pp. 9 ss.
7
Tavole
19
, e dunque al V secolo a.C., e altri che la riconducevano a una Lex Petronia del I
secolo d.C.
20
: dibattiti di questo genere, peraltro, non tengono in debita considerazione
l’origine prettamente giurisprudenziale del diritto romano, le cui regole scaturivano dal
rituale e costante ripetersi di azioni che lentamente, ma instancabilmente, innovavano
l’ordinamento giuridico. Le leggi cui si cerca di ricondurre l’origine dell’istituto del giu-
dicato, dunque, non hanno in realtà fatto altro che recepire un principio nato nell’espe-
rienza giuridica, e soprattutto giurisprudenziale, concreta.
Tra le svariate opzioni ricostruttive sorte sul punto, ve n’è una
21
particolarmente sugge-
stiva, secondo la quale tale principio affonda le sue radici nell’età arcaica, quando Roma
era ancora governata dai re. In quell’epoca, era piuttosto raro che i pubblici poteri inter-
venissero nella repressione dei reati, essendo questa per lo più lasciata all’iniziativa pri-
vata delle vittime o del loro nucleo familiare. Solo in casi particolarmente gravi si rendeva
necessario un intervento diretto del rex: egli, in qualità di sommo sacerdote, aveva il com-
pito di reprimere gli scelera, ossia quei delitti che, per la loro efferatezza, rischiavano di
incrinare la pax deorum, il rapporto pacifico e amichevole tra la civitas e le divinità. Si
trattava di giudizi in cui l’elemento giuridico si coniugava, spesso rimanendo a esso su-
bordinato, a quello religioso: quest’ultimo consisteva in quella forza mistica originaria
che permetteva al rex di giudicare; la nascita del carattere intangibile del giudicato penale
andrebbe appunto ricollegata, secondo questa teoria, alla consumazione di tale forza che,
una volta impiegata, veniva definitivamente meno.
Questa opinione, in realtà, presta il fianco a svariate critiche: in questa sede, merita in
particolare di essere menzionata quella che fa notare come l’irripetibilità non fosse affatto
una caratteristica comune a tutti i riti religiosi, molti dei quali potevano anzi essere cele-
brati più volte
22
. Del resto, «la radice ontologica [del giudicato] non risiede nel dato
19
Ex multis, si veda ROCCO A., Trattato della cosa giudicata come causa di estinzione dell’azione penale.
La riparazione alle vittime degli errori giudiziari, II, Roma, Società editrice del «Foro italiano», 1932, p.
44.
20
Si veda ROTONDI G., Leges publicae populi romani. Elenco cronologico con una introduzione sull’atti-
vità legislativa dei comizi romani, Milano, Società editrice libraria, 1912, p. 468.
21
Sostenuta, tra gli altri, da SANTORO R., Potere ed azione nell’antico diritto romano, in Annali del Semi-
nario Giuridico dell’Università di Palermo, XXX, Palermo, Michele Montaina, 1967, pp. 309 ss.
22
Sul punto, si veda MARRONE M., Agere lege, formulae e preclusione processuale, in MILAZZO F. (a cura
di), Praesidia libertatis. Garantismo e sistemi processuali nell’esperienza giuridica di Roma repubblicana.
Atti del convegno internazionale di diritto romano (Copanello 7-10 giugno 1992), Napoli, Edizioni scien-
tifiche italiane, 1994, p. 468.
8
meramente esteriore dell’irripetibilità dell’atto, ma nel connotato sostanziale dell’incon-
trovertibilità del contenuto dell’atto stesso»
23
.
In ogni caso, la critica alla ricostruzione poc’anzi proposta non deve far perdere di vista
il carattere giurisprudenziale del diritto romano
24
. L’intangibilità del giudicato penale ha
quindi anch’essa, come pressoché tutti gli istituti romanistici, un’origine rituale: sempli-
cemente, non si tratta della ritualità mistica che connotava l’epoca arcaica, ma di quella
laica tipica del periodo repubblicano. Mentre il primo tipo di ritualità trovava la sua fonte
di legittimazione sul piano divino, la ritualità laica era legittimata e orientata dal criterio
dell’utilitas publica, ossia della convenienza per gli interessi della cittadinanza.
Individuata l’origine del principio dell’intangibilità del giudicato penale nel diritto ro-
mano, è ora opportuno analizzarne la fisionomia e il contenuto. In quell’esperienza giu-
ridica la res iudicata era definita come una decisione giurisdizionale che statuiva su una
determinata accusa e metteva in tal modo fine alla controversia, così assumendo il carat-
tere della definitività e dell’irrevocabilità.
La definitività connotava la sentenza, tanto di condanna quanto di assoluzione, che non
poteva più essere emendata dal giudice che l’aveva pronunciata. L’irrevocabilità, invece,
non era originariamente necessaria per fondare l’intangibilità del giudicato penale: a que-
sto fine, infatti, era sufficiente la mera definitività. Come si vede, dunque, l’originaria
efficacia del giudicato penale era solo quella negativo-preclusiva che si sostanziava – e si
sostanzia tuttora – nel principio del ne bis in idem. Questo divieto rappresentava l’anello
di congiunzione tra diritto sostanziale e diritto processuale: il principio nulla poena sine
iudicio, affermatosi stabilmente a partire dall’età repubblicana, assegnava infatti al pro-
cesso penale un carattere di strumentalità rispetto al diritto penale sostanziale
25
, renden-
dolo l’unico strumento esperibile per l’attuazione di quest’ultimo nel caso concreto, men-
tre il ne bis in idem svolgeva la funzione di assicurare l’incontrovertibilità dell’esito del
processo.
23
CALLARI F., La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, cit., p. 70.
24
Tale carattere è ben descritto da CERAMI P., Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale ro-
mana, Torino, Giappichelli, 1996, p. 15, ove si legge che nella storia giuridica romana «l’azione [sta] al
posto della norma, la quale, solo attraverso un processo lento ed incerto, riuscirà ad affermarsi, in età post-
classica […], come effettivo modello a priori dell’azione».
25
Per una riflessione più ampia circa la strumentalità della legge penale processuale rispetto a quella so-
stanziale, si veda TONINI P., Manuale di procedura penale, XX ed., Milano, Giuffrè, 2019, pp. 1 ss.
9
Di irrevocabilità della sentenza e, di riflesso, di firmitas iudicati si iniziò a parlare solo
con la nascita dell’appello, dunque in età imperiale e più precisamente nel II secolo d.C.
È significativo che l’istituto dell’appello sia sorto in un’epoca di relativa tranquillità so-
ciale e politica: nei secoli precedenti, in particolare negli ultimi anni della Repubblica,
infatti, i continui sommovimenti interni alla civitas, uniti alle guerre combattute
all’esterno, imponevano di assicurare un’obbedienza assoluta alle decisioni delle pubbli-
che istituzioni, impedendo di metterle in discussione; si voleva, in altri termini, evitare
un ulteriore indebolimento dei pubblici poteri. Solo dopo aver consolidato lo Stato si poté
pensare di introdurre l’istituto dell’appello, essendo questo ormai incapace di vulnerare
una stabilità che, assicurata dall’assolutezza dell’autorità imperiale, appariva del tutto
granitica e inscalfibile
26
.
L’avvento dell’Impero comportò, in particolare, un radicale rinnovamento del sistema
giudiziario, che iniziò a essere caratterizzato da una struttura gerarchica al cui vertice era
posto il sovrano
27
, dal quale emanava la giustizia stessa. Da questo punto di vista, è cer-
tamente innegabile che l’appello sia nato a fini innanzitutto politici: l’intento era cioè
quello di concentrare il potere giurisdizionale nelle mani dell’imperatore. Questa affer-
mazione, tuttavia, non deve indurre a commettere l’errore di considerare l’appello uno
strumento esclusivamente politico: esso, infatti, aveva anche un profilo garantistico, dal
momento che offriva ai singoli uno strumento da esperire per porre rimedio all’ingiustizia
della decisione impugnata, così da assicurare globalmente una migliore e più efficiente
amministrazione della giustizia.
In conclusione, la nascita dell’appello non mise affatto in discussione il principio dell’in-
tangibilità del giudicato penale. Semplicemente, l’accertamento giudiziale assunse i con-
notati di una fattispecie a formazione progressiva, in cui l’irrevocabilità scaturiva
dall’esaurimento del potere giurisdizionale in relazione a un determinato thema deciden-
dum. L’irrevocabilità – e con essa il passaggio in giudicato della sentenza – sorgeva per-
tanto nel momento in cui si fossero percorsi tutti i gradi della giurisdizione. A tal
26
Sui rapporti tra appello e consolidamento dello Stato romano, si veda ROCCO A., Trattato della cosa
giudicata come causa di estinzione dell’azione penale. La riparazione alle vittime degli errori giudiziari,
cit., p. 71.
27
A tal proposito, si veda PADOA SCHIOPPA A., Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contem-
poranea, cit., p. 19, ove si legge che «la corte imperiale, attraverso un suo ufficio centrale (lo scrinium a
libellis), risolveva [i casi che le venivano sottoposti] emettendo a nome dell’imperatore un rescritto o un
consulto, cioè un breve testo nel quale la questione controversa era impostata nei suoi profili di diritto sulla
base dei dati forniti da chi l’aveva sottoposta al giudizio superiore».
10
proposito, per evitare che l’incertezza causata dalla pendenza del processo si protraesse
all’infinito, fu previsto un termine perentorio entro cui appellare, l’inutile scadenza del
quale determinava il passaggio in giudicato della pronuncia. La sentenza divenuta defini-
tiva o irrevocabile, in quanto non più appellabile o non appellata nel termine, era la fonte
della c.d. firmitas iudicati, ossia dell’irrefragabilità del giudicato
28
.
2.2 Segue: nel Medioevo e nell’età moderna
La caduta dell’Impero romano d’Occidente travolse anche gli istituti giuridici che
ne avevano caratterizzato la secolare esistenza, ivi compreso il giudicato così come si era
andato strutturando in quell’esperienza giuridica. Sotto la dominazione barbarica, il pro-
cesso penale perse gran parte della sua giuridicità e si affermò quale esperienza mistica,
sovrannaturale, in cui la dichiarazione dell’innocenza o della colpevolezza dell’accusato
era rimessa alla volontà divina. Quest’ultima emergeva, nell’ambito dell’ordalia
29
, da
prove fisiche cui il sospettato era sottoposto: se ne usciva indenne, questa era la prova
della sua innocenza; se, invece, soccombeva, questo denotava la sua colpevolezza.
Quest’epoca era caratterizzata da una totale assolutezza del giudicato, non essendo pos-
sibile mettere in discussione una decisione che si riteneva fosse stata presa direttamente
da una divinità. L’intangibilità del giudicato, dunque, cessò di avere un fondamento giu-
ridico per assumerne uno mistico e religioso.
Questa situazione di innegabile arretratezza, specie se comparata alle raffinate elabora-
zioni cui era giunto il diritto romano, iniziò ad essere accantonata nell’epoca carolingia.
In tale contesto, l’intangibilità del giudicato penale dipendeva dalla circostanza che le
28
Per un’approfondita analisi dei rapporti tra introduzione dell’appello e momento formativo del giudicato,
si veda CALAMANDREI P., La cassazione civile, I, Storia e legislazioni, Torino, Fratelli Bocca, 1920, p. 73,
ove si legge: «mentre in origine, al momento in cui il giudice emetteva la sua pronuncia, due soli eventi
potevano prodursi – o che la pronuncia, per qualche suo vizio, dovesse considerarsi come assolutamente
non nata, o che, altrimenti, la pronuncia valida dovesse senz’altro formare l’irrevocabile accertamento del
diritto – una terza possibilità fu aperta dall’appello: quella di una sentenza giuridicamente esistente, e pur
non ancora capace di formare l’accertamento del diritto, perché soggetta al pericolo di perdere ogni sua
efficacia di fronte a una nuova sentenza che venisse a sostituirla. Venne così a modificarsi sostanzialmente,
in virtù dell’appello, la nozione originaria della forza del giudicato».
29
La cui struttura è ben descritta da PADOA SCHIOPPA A., Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età
contemporanea, cit., pp. 36 ss. Si veda anche ALIMENA B., Principi di procedura penale, I, Napoli, Luigi
Pierro Tip. Editore, 1914, p. 17, ove viene operata una distinzione tra i delitti che offendevano soltanto il
privato e quelli che offendevano la collettività: solo questi ultimi «erano soggetti ad una vera e propria
procedura, e l’accusa aveva luogo d’ufficio. Base delle prove erano le ordalie ed il duello giudiziario».
11
parti avessero accettato la decisione: se non lo facevano, il giudicato non poteva formarsi.
Questo, tuttavia, non significa che le parti potessero a loro piacimento sottrarsi all’autorità
della pronuncia cui il giudizio aveva messo capo: per farlo, infatti, esse dovevano denun-
ciare di falsità la decisione, altrimenti venivano private della libertà personale affinché si
esprimessero in ordine all’accettazione o meno del giudicato. La natura in un certo senso
consensuale del giudicato denotava evidentemente «una condizione di debolezza dei po-
teri pubblici, che si modificherà soltanto con l’avvento dell’età comunale»
30
.
La rinascita delle città, delle attività economiche e di quelle culturali che segnò il conti-
nente europeo a partire dall’XI secolo determinò la riscoperta del diritto romano, che ini-
ziò, con gli opportuni adattamenti, a regolare i rapporti dei consociati tra loro e con i
pubblici poteri. Fu proprio a partire da questo momento che si assistette alla reviviscenza
del giudicato penale e dei suoi connotati come definiti dall’esperienza giuridica romana.
Il carattere intangibile del giudicato penale, sia di condanna sia di assoluzione, fu dunque
ampiamente riconosciuto dal diritto medievale e si mantenne fermo anche all’inizio
dell’età moderna. Già a partire dal Quattrocento, tuttavia, il principio in esame entrò in
crisi per effetto di un’elaborazione dottrinale che prese le mosse dalla considerazione che
in quell’epoca, accanto alle tradizionali sentenze di condanna e di assoluzione, fosse pre-
vista anche la c.d. absolutio pro nunc, ossia un’assoluzione instabile e momentanea mo-
tivata dalla riscontrata insufficienza di prove. La mancanza della presunzione di non col-
pevolezza, infatti, comportava che, se l’innocenza dell’imputato non era stata pienamente
dimostrata
31
, il processo dovesse essere sospeso fino alla scoperta di nuove prove della
colpevolezza dell’accusato.
Si trattava, in altri termini, di un’assoluzione non definitiva, ma “allo stato degli atti”: dal
momento che tale pronuncia non chiudeva il processo, essa era inidonea ad acquisire la
stabilità propria del giudicato, in quanto il processo stesso poteva essere in qualunque
momento ripreso qualora si fossero trovate nuove prove della colpevolezza dell’imputato.
Queste particolari sentenze arrivarono progressivamente a sostituire la classica sentenza
di assoluzione: ne conseguiva, evidentemente, che l’autorità del giudicato restasse attri-
buto esclusivo delle sentenze di condanna, mentre quelle di assoluzione non erano mai in
grado di assumere il carattere dell’intangibilità, essendo sempre aperte a una possibilità
30
PADOA SCHIOPPA A., Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, cit., p. 58.
31
L’innocenza necessitava di essere provata proprio perché non era presunta.
12
di smentita. Si trattava chiaramente di una conseguenza del carattere spiccatamente in-
quisitorio del rito penale, che mirava al disvelamento della verità a prescindere dal costo
che ciò comportasse in termini di durata dei procedimenti e, soprattutto, di compressione
delle libertà individuali
32
.
Benché non espressamente menzionata, l’absolutio pro nunc confluì nella francese Or-
donnance criminelle del 1670. Più precisamente, furono previste due diverse forme di
questa particolare sentenza. La prima, denominata plus amplement informé indéfini o plus
amplement informé usquequo, riguardava i reati più gravi, qualora vi fossero indizi rile-
vanti circa la colpevolezza dell’imputato: quest’ultimo era in questi casi assolto – sempre
che di vera assoluzione si potesse parlare – e, tuttavia, era tenuto in stato detentivo o
comunque sottoposto ad una pervasiva sorveglianza. La seconda, denominata plus am-
plement informé à temps, era invece prevista per i reati meno gravi o per i casi in cui non
vi fossero indizi significativi circa la colpevolezza dell’imputato: egli veniva assolto “a
tempo”, nel senso che, se alla scadenza del termine fissato non si fossero scoperte nuove
prove, si sarebbe pronunciata un’assoluzione definitiva, o si sarebbe prorogato il termine,
ovvero, nei casi più gravi, si sarebbe fatto ricorso alla prima forma di absolutio pro nunc.
Come si vede, dunque, l’ordinamento processuale penale dell’Europa continentale pre-
Rivoluzione francese non prevedeva una rigida alternativa tra condanna e assoluzione,
dal momento che tra questi due estremi si era inserita una soluzione intermedia, rappre-
sentata appunto dall’absolutio pro nunc. Inutile dire che una simile soluzione vulnerasse
in modo pressoché totale i giudicati assolutori e, di riflesso, la certezza del diritto: la de-
finitività era infatti riconosciuta solo alla dichiarazione di colpevolezza, mentre la dichia-
razione di innocenza era sempre esposta a possibili stravolgimenti. In altri termini, si po-
teva essere definitivamente colpevoli, ma non si era mai definitivamente innocenti.
32
Emblematiche in tal senso sono le parole di CORDERO F., Procedura penale, VIII ed., Milano, Giuffrè,
2006, pp. 1220 ss.: «tende all’infinito l’opera inquisitoria: esplori una psiche o cada su reperti, testimo-
nianze, responsi peritali e simili, pesca in materie inesauribili; le immagini retrospettive variano nel flusso
dei dati. Ogni questione prima o poi risulta solubile: basta scavare abbastanza; e il giudice-terapeuta, chia-
mato a missioni importantissime, aborre gli insuccessi. Non ha fondo l’appetito inquisitorio». Al contrario,
«lo stile accusatorio risponde ai ritmi d’un tempo esatto: vigono forme e termini; gli uomini eseguono le
rispettive performances; indi il chiamato a giudicare, decide, nel senso tagliente del verbo, applicando date
regole. Siamo fuori da bulimia istruttoria e ossessione terapeutica, comunque risolto, il caso è chiuso (salvi
i rimedi straordinari in bonam partem)».
13
2.3 Segue: nell’età delle codificazioni
La messa in discussione del sistema dell’Ancien Régime operata dagli illuministi
nel corso del Settecento non poteva esimersi dal coinvolgere uno dei suoi simboli, ossia
l’absolutio pro nunc, la quale non chiudeva il giudizio e lasciava l’accusato, ma anche
l’intera collettività, in una specie di limbo totalmente antitetico rispetto alla certezza del
diritto. In realtà, l’intangibilità del giudicato penale era avvertita come una pressante esi-
genza non tanto per assicurare la certezza del diritto, quanto piuttosto per presidiare la
libertà del singolo e la sua innocenza, ponendo «un limite invalicabile all’attività repres-
siva dello Stato»
33
.
Quelle di cui si è appena riferito non rimasero affatto delle mere speculazioni confinate
sul piano teorico, ma furono ben presto messe in pratica al fine di scardinare il sistema
dell’Ancien Régime, obiettivo perseguito dai rivoluzionari francesi. La quasi totalità dei
componenti l’Assemblea costituente, infatti, concordava circa l’esigenza di affermare il
ne bis in idem come principio fondamentale e di utilizzarlo come strumento per iniziare
a superare il carattere inquisitorio del processo penale
34
. Si fece strada l’idea, chiaramente
espressione di uno spiccato favor libertatis, secondo cui un individuo la cui colpevolezza
non era stata provata doveva essere assolto in quanto innocente. Fu dunque il principio
della libertà individuale a guidare il costituente francese verso l’abolizione dell’istituto
dell’absolutio pro nunc e la conseguente affermazione dell’operatività del divieto di bis
in idem
35
. Tale principio fu emblematicamente affermato nella Costituzione del 3 settem-
bre 1791, il cui art. 9 del capo V prevedeva espressamente che «tout homme acquitté par
un juré légal, ne peut plus être repris ni accusé à raison du même fait»
36
.
Questo principio costituzionale trovò poi attuazione e specificazione a livello di legge
ordinaria: ci si riferisce, in particolare, agli artt. 255 e 426 del Code Merlin del 1795, in
cui, oltre alla consacrazione del carattere accusatorio del processo, emerse una chiara di-
stinzione tra le pronunce emesse in fase istruttoria e quelle dibattimentali. Solo queste
33
CALLARI F., La firmitas del giudicato penale: essenza e limiti, cit., p. 95.
34
Si veda MARTUCCI R., La Costituente e il problema penale in Francia (1789-1791), I, Alle origini del
processo accusatorio: i decreti Beaumetz, Milano, Giuffrè, 1984.
35
Secondo GALANTINI N., Il divieto di doppio processo come diritto della persona, in Riv. it. dir. e proc.
pen., 1981, p. 98, tale principio si afferma quale espressione della «sicurezza dei diritti e [della] stabilità
delle situazioni giuridiche, così come sono configurate nell’interpretazione concettuale dell’illuminismo».
36
Ossia: «chiunque, assolto da un giudicato legale, non può più essere ripreso né accusato a ragione dello
stesso fatto».