Il testo di questo decreto, presentato dall'indovino Diopite intorno al 433/32 a.C., viene riportato nel
modo seguente da Plutarco:
"ψηφισµα ∆ιοpiειθηs εγραψεν εισαγγελλεσται τουs τα θεια µη νοµιζονταs η λογουs piερι των µ
εταρσιων διδασκονταs" (Plut. Per. 32).
Lo psefisma in questione aveva come obiettivo immediato il filosofo Anassagora ed è per questo che
nella sua seconda parte si fa riferimento ai "discorsi intorno alle cose celesti", ma a noi interessa
soprattutto l'espressione τουs τα θεια µη νοµιζονταs.
Prima di tutto si può discutere se il testo di Diopite sia stato effettivamente questo. Infatti dall'accusa
che, sulla base di questo decreto, fu rivolta a Socrate, siamo portati a supporre che nella redazione
originaria ci fosse il maschile τουσ θεουs al posto del neutro τα θεια (8).
Comunque ciò è di secondaria importanza rispetto al problema dell'esatto significato di questa
espressione. A renderne difficile la traduzione è il doppio valore del verbo νοµιζειν che può essere
usato tanto nel senso di "essere costume" quanto in quello di "credere, opinare". Così, a seconda del
significato attribuito al verbo, la formula τουs θεουs νοµιζειν può essere resa o con "venerare gli dei
secondo il costume" o con "credere nell'esistenza degli dei".
La soluzione migliore alla questione, dopo che a lungo gli studiosi si sono divisi sostenendo chi l'uno
chi l'altro significato, ci sembra quella proposta da W. Fahr, il quale mette in luce l'evoluzione storica
di θεουs νοµιζειν.
Fino alla metà del V secolo, infatti, non poteva darsi il significato di un puro opinare sugli dei, ritenuti
una realtà autoevidente, e solo dopo che il libero pensiero aveva messo in discussione la tradizione e
aveva preso ad avanzare critiche sempre più radicali alla religione, emerse anche il secondo valore che
troviamo attestato in diversi passi (9).
Secondo Fahr, è proprio nel decreto di Diopite che si può individuare il momento in cui il significato di
θεουs νοµιζειν si biforca, poiché lì questa espressione viene ad indicare non solo l'ateismo pratico di
chi contravviene alle leggi cultuali, ma anche l'ateismo teorico di chi nega l'esistenza degli dei.
Il decreto di Diopite introduceva quindi per la prima volta un reato di opinione: la
negazionedell'esistenza degli dei, mentre le altre leggi sull'empietà si preoccupavano di punire le azioni
concretamente commesse contro il culto o comunque ritenute sgradite agli dei. Conseguenza di questa
innovazione legislativa furono i processi per empietà celebrati contro i filosofi.
Per quanto ne sappiamo, tali azioni giuridiche ebbero luogo solo ad Atene e, proprio per esse, lo storico
ebreo Flavio Giuseppe accusò d'intolleranza gli ateniesi (10). Ma come mai la città simbolo della
democrazia, che si faceva vanto di concedere libertà di parola a tutti, condanna uomini come
Anassagora o Protagora, la cui sola colpa era di aver sostenuto pubblicamente certe idee?
La ragione di ciò può essere trovata nel fatto che in Atene le teorie dei filosofi, sia attraverso i libri, sia
attraverso le discussioni pubbliche dei sofisti, entrarono nell'orizzonte dei comuni cittadini. Ora il
cittadino medio ateniese non era preparato ad accogliere il libero pensiero, che si era sviluppato nella
più progredita Ionia, e quando se lo trovò davanti ne rimase sconcertato e irritato (11).
Il popolo crede ai prodigi e alla mantica e ritiene che la grandezza dello stato sia dovuta alla
benevolenza degli dei: è ovvio che il diffondersi della nuova cultura, che ai suoi occhi implica una
totale miscredenza, lo trovi ostile e pronto ad appoggiare le azioni giuridiche contro gli alfieri del
libero pensiero. Anzi, considerando la cosa da questo punto di vista, i processi contro i filosofi
appaiono decisamente in numero esiguo. Ma va considerato che un reato d'opinione non è facile da
provare, e questo ancor più in una città come Atene alla quale era del tutto estranea l'idea di
inquisizione.
Da questa difficoltà venne la necessità di addurre, nella formulazione dell'accusa, anche un fatto che
potesse costituire un riscontro oggettivo dell'empietà di pensiero: l'insegnamento di dottrine sulle cose
celesti nel caso di Anassagora, la profanazione dei Misteri Eleusini per Diagora, la corruzione dei
giovani e il culto di nuove divinità nel caso di Socrate. Il dover "trovare" questo fatto costituì, in
qualche modo, una limitazione nel ricorso all'accusa di asebeia contro i filosofi.
Al di là di ciò, fu la stessa organizzazione giudiziaria greca che contribuì a limitare il numero di questi
processi. La mancanza di una figura assimilabile al nostro pubblico ministero rimetteva l'iniziativa di
ogni azione giuridica nelle mani del privato cittadino e ciò può spiegare alcuni caratteri costanti dei
processi per empietà. Pensiamo al loro tipico concentrarsi nei momenti di maggiore fermento religioso,
cioè nei periodi bellici o prebellici, quando soprattutto la città aveva bisogno di sentirsi protetta dagli
dei e si acuiva il timore di perderne il favore a causa di qualche empio che vivesse nella comunità.
Dovendo essere i privati cittadini ad assumersi l'iniziativa ed il rischio (12) di un processo per asebeia,
si può capire che questi processi non avessero solo motivazioni religiose, ma anche politiche e, a volte,
personali o professionali. Tali motivazioni non religiose sono rintracciabili, seppure in diversa misura,
in quasi tutti i processi per empietà che si celebrarono in Atene dal 433/32 alla fine del IV secolo a.C.
La loro importanza però non va esagerata: ci sembra che la difesa della religione fosse l'obiettivo
primario, se non degli accusatori (13), almeno di coloro che pronunciavano la condanna (14).
E che la religione avesse bisogno di essere difesa è indubbio. Infatti, se consideriamo episodi come la
mutilazione delle Erme o la ripetuta profanazione dei Misteri Eleusini, dobbiamo concludere che sul
finire del V secolo l'irreligiosità era molto diffusa in Atene. E non era, come si potrebbe pensare, una
prerogativa esclusiva dei circoli filosofici: un club di miscredenti, ad esempio, si era riunito attorno al
poeta ditirambico Cinesia. I membri di questa singolare associazione si erano dati il nome di
κακοδαιµονισται (qualcosa come "adoratori del demone cattivo"). Si trattava di un nome infausto,
che essi avevano scelto evidentemente in segno di sfida verso le credenze popolari, così come per lo
stesso motivo si riunivano nei giorni ritenuti infausti.
Come si dirà meglio in seguito, causa del diffondersi della miscredenza non furono solamente gli
sviluppi del pensiero filosofico. A non credere negli dei , o almeno nella loro provvidenza, si poteva
essere indotti anche da drammatiche esperienze come quella della peste, che colpì Atene nel 430/29.
Perché credere e venerare gli dei se poi tutti si moriva nello stesso modo atroce (15)?
Tali riflessioni, comunque, dovettero essere frequenti solo tra le persone colte, mentre nel resto della
popolazione si manifestò una tendenza a regredire verso forme di fede più primitive e superstiziose
(16), cosicché l'ateismo non assunse mai nell'antichità i contorni di un fenomeno di massa.
1.2 CI SONO STATI ATEI NELL'ANTICHITA'?
Giustamente, ci sembra, M. Winiarczyk ha osservato che lo studioso impegnato nell'indagine
dell'ateismo nel mondo antico deve porsi due tipi di domande:
1) se gli antichi abbiano a buon diritto rivolto l'accusa di ateismo ad un certo filosofo;
2) se quel filosofo rientrerebbe anche oggi nella categoria degli atei.
Va detto infatti che nell'antichità della qualifica di ateo si fece un uso più ampio del nostro. Innanzi
tutto il significato originario del termine αθεοs non è quello di "negatore degli dei", ma quello di
"senza dio" e, fino all'Apologia di Platone, esso venne usato per indicare lo stato di colui che è
abbandonato dagli dei (17), o per qualificare un comportamento ripugnante agli dei in quanto empio e
scellerato (18). Va anche notato che solo nello Pseudo-Lisia (6-19) troviamo l'aggettivo αθεοs riferito
direttamente ad un uomo, mentre in precedenza esso serviva a qualificare uno stato o un'azione e,
quindi, solo indirettamente le persone. Quando Platone, nell'Apologia, dà ad αθεοs il valore di "uno
che nega del tutto gli dei", già da alcuni decenni (19) veniva usata, per indicare l'ateismo teorico, la
formula θεουs ου νοµιζειν. E, infatti, nel dialogo fra Socrate e il suo accusatore Meleto, si stabilisce
un perfetto parallelismo fra le due espressioni: a Socrate che dice "ουκ ειµι το piαραpiαν αθεοs"
Meleto risponde "το piαραpiαν ου νοµιζεισ θεουs" e quindi, evidentemente, το piαραpiαν αθεον
ειναι equivale a το piαραpiαν ου νοµιζειν θεουs, cioè al non credere assolutamente all'esistenza
degli dei (20). Ma, al di là della pluralità di significati del termine αθεοs, bisogna anche considerare
che ciò che per gli antichi bastava a motivare un'accusa di ateismo può non essere sufficiente dal nostro
punto di vista.
Nell'antichità, ad esempio, erano considerati atei anche ebrei e cristiani. La cosa può apparire strana,
ma il fatto è che il loro credo monoteistico implicava il rifiuto di venerare gli dei del pantheon greco-
romano e questo, nella prospettiva ritualistica (21) propria della religione antica, equivaleva a
dichiararsi atei. Ovviamente se gli antichi avevano le loro buone ragioni per chiamare "atei" i cristiani,
dal nostro punto di vista essi non possono essere considerati tali. Ed anche a proposito di quei
pensatori, il cui nome ricorre più di frequente nei cataloghi degli atei (22), bisogna ben distinguere fra
il rifiuto del politeismo tradizionale e la negazione assoluta della divinità.
Proprio sulla base di questa distinzione vi è chi non ammette l'esistenza di veri atei nel mondo antico.
E' il caso di Carlo del Grande che, in un suo articolo intitolato significativamente "Negazione di un
ateismo ellenico", interpreta le critiche alla religione, emerse soprattutto in ambito sofistico, non come
segni di un incipiente ateismo, ma al contrario come conseguenza di una più alta sensibilità religiosa
che spingeva verso il monoteismo. Insomma, secondo del Grande, i sofisti rifiutavano gli dei del mito
"proprio perché essi non potevano accettare l'idea di un dio che non fosse un primum, origine di tutte le
cose" (23) ed anche perché non potevano più accettare una divinità il cui comportamento era in
contrasto con la legge morale. Le critiche sofiste alle credenze religiose sarebbero dunque il coerente
sviluppo, da una parte, della tendenza a divinizzare il primo principio cosmico propria della filosofia
ionica, dall'altra dei rilievi che al mito venivano mossi sulla base di motivazioni etiche.
Tale interpretazione però non trova il minimo fondamento né in ciò che sappiamo dei sofisti, né nelle
vicende ateniesi dell'ultima parte del V secolo.
Che la nuova cultura di cui i sofisti sono gli alfieri apra la strada non già al monoteismo, ma alla
negazione della stessa idea di dio risulta evidente e da documenti letterari come la frase iniziale del
Περι θεωον di Protagora e dai fatti storici, visto che in questo periodo furono commesse azioni empie
di estrema gravità.
D'altronde, a renderci certi che nel mondo antico ci furono atei veri e propri, può bastare la lettura del
decimo libro delle Leggi di Platone, dove con tutta chiarezza si dice che vi sono molti che non credono
assolutamente negli dei (24). Ed è proprio perché esistono persone di tal genere che l'ospite ateniese si
vede costretto a dimostrare che gli dei ci sono (25).
Quanto detto qui da Platone conferme che l'ateismo aveva avuto una rapida diffusione fino a diventare
un fatto rilevante anche da un punto di vista sociale, tanto che, nel dodicesimo libro di questa stessa
opera, Platone ritiene opportuno abolire, durante il processo, il giuramento delle parti in causa "per il
fatto che le opinioni degli uomini sugli dei sono mutate"(26).
Tornando all'osservazione iniziale, possiamo dire che, mentre per gli antichi è ateo chiunque non creda
all'esistenza degli dei del politeismo (ουκ οιεται θεουs ειναι ο αθεοs), a prescindere dalle ragioni
che lo spingono a negarli, noi dobbiamo distinguere chi negava la realtà di questi dei in nome di una
diversa concezione della divinità - è il caso dei cristiani, ma anche di Senofane o Antistene - , da chi si
limitava alla pura e semplice negazione, senza sostituire agli dei della tradizione alcun altro principio
divino.
Che tali negatori assoluti degli dei ci siano stati appare sicuro, come si diceva, dal decimo libro delle
Leggi di Platone, ma, quanto all'identificare qualcuno di essi, le cose si fanno assai più difficili e
incerte. Queste difficoltà derivano dalla natura delle informazioni che abbiamo sugli atei dell'antichità:
esse, infatti, per lo più risalgono ad epoca tarda e sono perciò scarsamente attendibili. Inoltre si tratta di
notizie troppo succinte per permetterci di capire se il pensatore che viene presentato come ateo
respingeva l'idea stessa di divinità o si limitava a rifiutare le credenze popolari.
Da qui l'impossibilità di pronunciarsi sull'ateismo di questo o quell'autore sulla sola base delle
testimonianze che lo definiscono "αθεοs", per quanto numerose esse possano essere. Un tale giudizio
può scaturire solo da un attento esame del pensiero e delle vicende biografiche dell'autore in questione.
NOTE AL CAPITOLO 1
1) cfr. A. Lelande, Dizionario critico di filosofia, Milano, 1971, s.v. Ateismo.
2) I poemi omerici, sebbene abbiano avuto un'enorme importanza nell'educazione e nella vita culturale
dei greci, non possono certo essere considerati la loro Bibbia, poiché ad essi non venne mai
riconosciuta un'origine sacra. E ciò vale anche per Esiodo, benché egli cerchi di accreditare la sua
Teogonia come verace rivelazione delle Muse.
3) Su ciò cfr. W. Fahr, Theous Nomizein : zum Problem der Anfage des Atheismus bei den Griechen,
Hildesheim, 1969. Vedi in particolare p. 161: " Ein blosses, unverbindliches Meinen ueber die Goetter
gab es bis zur Mitte des fuenften Jahrhunderts nicht, denn die Goetten waren eine selbsverstaendliche
Autoritaet".
4) Le azioni, volontarie o involontarie, considerate capaci di suscitare l'ira divina erano molte: innanzi
tutto il compiere atti contrari al culto (come ad esempio la profanazione di oggetti e luoghi sacri, il
disturbo delle cerimonie, la violazione dei regolamenti riguardanti riti e sacrifici), poi ancora l'esercizio
di pratiche magiche e la trasgressione di leggi aventi anche un particolare valore sacrale (come il non
dare sepoltura ai morti, il commettere incesto o usare violenza ai propri genitori, il tradire la patria,
l'uccidere volontariamente un uomo).
5) Per fare alcuni esempi di questi legami pensiamo ai sacrifici fatti a cura dello stato, al giuramento
cui è tenuto il magistrato prima di entrare in carica ( lo stesso sistema di estrarre a sorte i magistrati
aveva probabilmente un fondamento religioso, infatti in questo modo si metteva in mano agli dei la
scelta degli uomini che dovevano guidare la città), alle feste religiose che erano anche istituzioni della
polis, alle maledizioni solenni contro i nemici dello stato.
6) Punizione che veniva concepita come un sacrificio espiatorio.
7) La definizione è di E. Derenne, Les procès d'impiété intentés aux Philosophes à Athènes au V et au
IV siècle av. J. C., Liege, 1930, p. 262.
8) La forma neutra fu probabilmente usata da Plutarco per creare una corrispondenza con il successivo
neutro των µεταρσιων. Tale è l'ipotesi avanzata da J. Rudhardt, La définition du délit d'impiété
d'après la législation attique, in Museum Helveticum, 1960, pp. 87-105. Ma va detto, come riconosce
lo stesso autore, che il maschile τουs θεουs può essere stato inserito nel testo durante la riforma
legislativa avvenuta sotto l'arcontato di Euclide nell'anno 403 a.C., in occasione della quale si sarebbe
anche sostituita la procedura di εισαγγελια con quella di γραϕη.
9) cfr. ad esempio Aristofane, Nubes 819; Platone, Ap. 18 c-d, Eutyphr. 3b3, Leg. X 885 c 7, 899 c 2,
908 c 4; Ps. Lysia VI 19.
10) cfr Ioseph. Flav., Ap. II 262.
11) Le Nuvole di Aristofane ci forniscono, al di là delle forzature comiche, un quadro attendibile di
come gli ateniesi dovevano considerare sofisti e filosofi della natura, che essi mettevano tutti in un
mazzo. Il sospetto verso le nuove teorie doveva essere reso più forte dal fatto che chi le sosteneva era
per lo più straniero.
12) Qualora l'accusatore non avesse raccolto a favore della sua tesi almeno un quinto dei voti della
giuria era prevista una multa di mille dracme.
13) Può essere interessante notare che i promotori di questi processi provenivano o dall'ala più radicale
del partito democratico o dal partito oligarchico. La cosa non è sorprendente se pensiamo che i ceti
popolari erano avversi alla novità del pensiero filosofico non meno dei circoli aristocratici. Quindi
sembra legittimo vedere anche dietro le accuse di asebeia un sincero interesse per la difesa della
religione; esse non erano cioè un puro strumento di lotta politica.
14) Riprendiamo quanto già detto da Derenne, op. cit., p. 261, cioè che "si la politique a le plus souvent
déterminé les accusateurs à agir, c'est la religion qui est la grande cause des condamnations". Cfr. però
anche quanto detto nella nota precedente.
15) cfr. Thuc. 2, 53, 4: "Nessun timore degli dei e nessuna legge degli uomini li tratteneva: da una parte
giudicavano che fosse la stessa cosa esser religiosi o meno, dal momento che vedevano tutti morire
egualmente" - Tr. di Guido Donini, Torino, 1982.
16) La paura della peste e la speranza di guarire miracolosamente sono alla base, ad esempio, dello
sviluppo del culto di Asclepio, che, da eroe di secondaria importanza, divenne un dio particolarmente
venerato.
17) cfr. Bacchilide, Epin. 11, 107-109 (Snell); Sofocle, O. T., 254 e 663.
18) Atheos è usato in questo senso da Pindaro (Pyth. IV 159-162), da Eschilo (Pers. 808, Eum. 151 e
541), da Sofocle (Trach. 1036, O. T. 1360, El. 124 e 1181), da Gorgia (Palam. 36), da Antifonte (2 B
13, D.-K.), da Aristofane (Plut. 491) e da Senofonte (Anab. 2, 5, 39).
19) Almeno a partire dal decreto di Diopite.
20) Che tale fosse il significato della formula θεουs ου νοµιζειν nell'Apologia lo dimostrava già J.
Tate, Greek for Atheism, in Classical Review, 50, 1936, pp. 3-5. Che l'accusa rivolta a Socrate fosse
non già di non rendere il culto dovuto agli dei della città, ma di non credere nella loro esistenza è
opinione anche di Fahr che così traduce il testo dell'accusa: "Sokrates tut Unrecht, indem er die Jugend
verdirbt und die Existenz der Gotter nicht fuer wirklich haelt, deren Existenz die Stadt fuer wirklich
haelt, sondern anderer, neuer Gottheiten Existenz fuer wirklich haelt".
21) Come si è detto nel paragrafo precedente, per gli antichi la fede consisteva nella manifestazione
visibile di essa attraverso il sacrificio.
22) Le due più importanti liste di atei le troviamo in Cic., De nat, deor. I, 117-119 e in Sext. Emp.,
Adv. math. IX, 50-58. Esse hanno in comune i nomi di Diagora, Prodico, Teodoro, Evemero e
Protagora (Sesto cita anche Crizia ed Epicuro di cui Cicerone parlerà altrove) e derivano da un'unica
fonte: il Περι αθεοτητοs di Clitomaco di Cartagine. Sembra però probabile che la lista abbia avuto
origini più antiche, nascendo in ambiente epicureo. Va considerato infatti che nessuno degli autori che
compaiono nell'elenco ha scritto dopo il 290 e che da Filodemo sappiamo che Epicuro attaccò per il
loro ateismo Prodico, Diagora, Crizia. Per altri argomenti a sostegno dell'origine epicurea del catalogo
degli atei cfr. O. Gigon, Il libro sugli dei di Protagora, in Rivista di storia della filosofia, 1985, p. 423.
23) cfr. C. Del Grande, Negazione di un ateismo ellenico, in AA.VV., Il problema dell'ateismo,
Brescia, 1962.
24) cfr. Leg. 885 b, 885 c, 908 b.
25) cfr. Leg. 887 c-d.
26) cfr. Leg. 948 d.
2. ORIGINE DELL'ATEISMO ANTICO
2.1 Le prime critiche alla religione
Sul finire dell'età arcaica e poi nell'età classica, la religione greca fu oggetto di un crescente numero di
riflessioni e di critiche. Si cominciò con il mettere in questione la veridicità dei miti il cui contenuto
spesso appariva inaccettabile dal punto di vista etico.
Questa incapacità di soddisfare il senso etico da parte del mito fu dovuta al fatto che religione e morale
ebbero in Grecia origine diversa, derivando la prima dal rapporto dell'uomo con l'ambiente naturale e la
seconda dalle relazioni con gli altri uomini. Queste due sfere sono ancora ben distinte in Omero, nella
rappresentazione del quale ciò che preoccupa gli dei nel loro agire non è certo il rispetto delle norme
morali né la tutela della giustizia. Gli dei omerici prestano invece massima attenzione alla salvaguardia
del loro onore, il che li rende molto sensibili alle offese fatte ai loro sacerdoti, alle mancanze commesse
nella sfera del culto, agli spergiuri. Ma, in seguito, il crescere dell'esigenza morale fece sentire i suoi
effetti anche sul mondo divino: si ebbe cioè, come giustamente afferma W. Nestle, una moralizzazione
degli dei a seguito del progredire della moralità umana.
La necessità di far valere l'esigenza morale anche nell'ambito religioso porta Senofane a polemizzare
con Omero e con Esiodo per il fatto che essi "hanno attribuito agli dei tutto quanto presso gli uomini è
oggetto di onta e di biasimo: il rubare, commettere adulterio e ingannarsi reciprocamente" (1). Pindaro,
per parte sua, si preoccupa di correggere il famoso mito di Tantalo, nel quale si vedevano gli dei
banchettare con carne umana (2), e questo dopo aver fatto la seguente riflessione generale sul mito:
"forse in parte anche la voce dei mortali va al di là del verace discorso: c'ingannano favole (µυθοι)
adornate di varie menzogne" (3).
Ma a cosa fu dovuta questa messa in questione del mito (che, tra l'altro, divenne via via più radicale,
tanto che in Diogene di Apollonia il parlare µυθικωs sugli dei è opposto al parlarne veracemente) (4),
e più in generale la nascita di un atteggiamento critico verso quelle credenze religiose, che per lungo
tempo nessuno si era sognato di discutere? Nel rispondere a questa domanda ci sembra che una
notevole importanza vada annessa al passaggio della civiltà greca dall'oralità alla scrittura.
Questa trasformazione, resa possibile dall'adozione, intorno all'800 a.C., di un alfabeto di derivazione
fenicia (5) operò un graduale ma profondo cambiamento nel modo di pensare e di percepire il mondo e
stimolò il sorgere di una prospettiva critica (6). La scrittura permette, infatti, di fissare una volta per
sempre le parole e con ciò apre la possibilità "di un ritorno al testo in vista dell'analisi critica di esso"
(7).
Una volta che un'espressione è messa per iscritto se ne può fare un esame dettagliato, se ne può
verificare la coerenza interna così come la coerenza con le altre parti del discorso. Insomma è possibile
un tipo di vaglio molto più approfondito di quello che si può fare quando la comunicazione è
puramente verbale. Ma, detto ciò, va pure notato che la "nascita della ragione", di cui le critiche alla
religione possono essere considerate un aspetto, non può essere il risultato della sola introduzione della
scrittura. Non si saprebbe infatti come evitare l'obiezione che una eguale capacità di esame critico e di
elaborazione razionale non si sviluppò in Oriente, dove pure l'uso della scrittura era molto più antico.
E' vero che la scrittura alfabetica greca, in virtù della sua semplicità, poté divenire patrimonio di una
considerevole parte della popolazione, mentre negli stati del Vicino Oriente la scrittura (e dunque la
cultura) restò sempre possesso esclusivo di gruppi ristretti di scribi. Il fatto decisivo per spiegare la
peculiarità greca è, però, che in Grecia la diffusione della scrittura si inserì, accelerandolo ed
accentuandolo, in un processo di trasformazione che era già cominciato e che doveva influire non poco
sulla nascita del pensiero critico. Pensiamo alla rottura del vecchio ordine aristocratico e al nascere
delle prime costituzioni democratiche con conseguente aumento della mobilità sociale; pensiamo
all'ampliamento dell'orizzonte mentale che dovette derivare dalla fondazione di numerose colonie e
dall'intensa attività commerciale che metteva in contatto con popoli di costumi diversi; pensiamo anche
alla prosperità di cui godette la Ionia e che, permettendo tempo libero e indipendenza economica,
favorì lo sviluppo di una speculazione non convenzionale.
2.2 Le radici dell'ateismo
La critica al mito svolta nell'età arcaica non poneva ancora il problema dell'esistenza degli dei, ma solo
quello di quali essi fossero. Il vero e proprio ateismo, cui si giungerà solo sul finire del V secolo a.C.,
se pure può essere visto come l'esito ultimo di questo processo di revisione delle credenze religiose,
ebbe radici più specifiche, per l'individuazione delle quali ci può essere d'aiuto il decimo libro delle
Leggi di Platone.
a) L'ingiusto felice.
A pagina 899 d-e delle Leggi si dice: "Ma le sorti di uomini malvagi e ingiusti, le loro fortune
pubbliche e private in verità non felici, ma nelle opinioni di molti troppo ritenute tali, se pure in modo
sconveniente, ti portano verso l'empietà" (8). Una causa dell'empietà viene quindi indicata
nell'esistenza di ingiusti felici (o meglio, ritenuti tali).
Quello dell'αδικοs ευδαιµων è un problema che ha tormentato a lungo la riflessione e la coscienza dei
greci. La questione, che si inserisce in quella più vasta della presenza del male nel mondo, è di quelle
cruciali per ogni credo religioso, ma è particolarmente acuta per la religione greca visto che in essa, per
la sua peculiare concezione dell'aldilà, la giustizia divina non può che manifestarsi in questo mondo.
Nell'Ade infatti non c'è né premio per i buoni né punizione per i malvagi, ma si vive in una sorta di
limbo, pieni di tristezza e di rimpianto per l'esistenza terrena (9). Quindi il conto della giustizia deve
chiudersi in questo mondo. Ma è proprio qui che si constata che non si chiude. E allora la coscienza
morale greca ricorre a due soluzioni, che sono già accennate in Esiodo, ma che saranno poi
particolarmente sviluppate nella tragedia.
La prima di esse riposa sulla supposizione di una solidarietà fra la città e il suo capo, cosicché, se
ingiusto è chi governa, quand'anche costui sfugga alla punizione divina, non vi sfugge però la città. Il
contrappasso di Zeus (10) vede quindi ampliati i suoi limiti, potendo esercitarsi contro l'intera
collettività e potendo disporre di tempi lunghi per realizzarsi (non è detto che la punizione, consistente
per lo più in una guerra, una pestilenza o una carestia, si abbatta sulla città subito dopo che è stata
commessa l'ingiustizia).
L'altra soluzione cui ricorre la cultura greca si basa invece sulla solidarietà di γενοs, per la quale, se chi
commette la colpa non ne paga il fio, lo pagheranno certamente le sue generazioni future. Che il figlio
pagasse per il padre era accettabile finché si considerava la vita del figlio un prolungamento di quella
del padre; però, quando nel corso del V secolo si ebbe l'emancipazione del singolo dalla famiglia e un
accentuarsi dell'individualismo, queste soluzioni, fondate sulla solidarietà del γενοs con il suo
antenato e della città con il suo re, entrarono in crisi. Sembrò infatti sempre meno giusto che a pagare
per la colpa fosse chi non l'aveva commessa direttamente.
Si affermarono allora altre prospettive come quella orfico-pitagorica della reincarnazione, secondo la
quale, per scontare le colpe commesse, ci si reincarna in esseri sempre più degradati, e più tardi quella
platonica, per la quale il pareggiamento dei conti avviene nell'aldilà. Ma si aprì anche la strada alla
negazione dell'esistenza degli dei.
Che si potesse giungere ad un radicale ateismo in base alla constatazione della prosperità dei malvagi è
chiaramente mostrato dal seguente frammento del Bellerofonte di Euripide:
"E poi si dice che ci sono dei in cielo! No, non ce n'è nessuno là, se voi non siete abbastanza pazzi da
essere sedotti dalle vecchie chiacchiere. Pensate da voi stessi riguardo alla faccenda e non fatevi
influenzare dalle mie parole. Io affermo che i tiranni uccidono le persone su vasta scala, prendono le
loro ricchezze e distruggono le città in disprezzo ai loro giuramenti e sebbene essi facciano tutto
questo, essi sono più felici delle persone che, in pace e in tranquillità, conducono la vita nel timor di
dio. Ed io conosco piccoli stati che onorano gli dei, ma debbono obbedire a grandi stati meno pii per il
fatto che i loro lancieri sono meno numerosi".
La tragedia è andata perduta e non è lecito trarre conclusioni sull'atteggiamento di Euripide riguardo al
problema dell'esistenza degli dei sulla base di questo solo frammento; è però significativo che negli
ultimi decenni del V secolo si possa pronunciare in teatro una simile requisitoria contro gli dei e le
concezioni religiose tradizionali. Giustamente Drachmann nota che a Eschilo e Sofocle non sarebbe
mai venuto in mente di porre un tale discorso sulla bocca dei loro personaggi (11). Se Euripide lo fa ,
ciò significa che la questione dell'esistenza degli dei è ormai presente alla coscienza popolare e che è
presente anche la possibilità di una risposta negativa al problema.
b) La filosofia della natura
Ricostruire il pensiero religioso dei Presocratici è cosa tra le più ardue, visto che quel poco che ci resta
dei loro scritti deriva dalle "Opinioni dei fisici" di Teofrasto, opera nella quale le concezioni religiose
di questi pensatori potevano essere trattate solo marginalmente. Ciò deve rendere molto cauti quando si
voglia ricostruire la loro posizione nei confronti della religione. Comunque sembra lecito asserire che ,
in generale, i fisiologi sostennero posizioni molto lontane dall'antropomorfismo popolare tendendo a
trasferire i predicati tipici degli dei tradizionali (in particolare l'eternità e l'onniscienza) ad una qualche
sostanza prima. Ma proprio in quanto agli dei tradizionali viene sostituito un altro ente divinizzato,
questi filosofi non possono essere considerati atei in senso stretto, cioè negatori di ogni essere divino.
Forse la qualifica di atei può essere loro attribuita in un senso più lato, in quello cioè che a buon diritto,
dal punto di vista degli antichi, si possono considerare atei coloro che non credono in dei personali e
provvidenti (12). E che tali li considerasse l'opinione pubblica risulta chiaro dalle Nuvole di Aristofane.
Non è strano, quindi, trovare anche nelle Leggi (pag. 866 d-e) un attacco contro i fisiologi: "E' questo
dunque ciò che fanno discorsi di uomini come costoro: quando tu ed io portiamo le prove dell'esistenza
degli dei e proponiamo proprio cose come queste, il sole, la luna, le stelle, la terra come dei e cose
divine esistenti, allora coloro che si sono lasciati convincere da questi nuovi sapienti direbbero che
tutte queste cose non sono altro che terra e pietre, incapaci di pensare nessuna delle cose umane".
La negazione della divinità degli astri è il maggior punto di attrito fra la filosofia della natura e la
religione, anche se non è certamente l'unico. Essa fu uno dei punti salienti della meteorologia di
Anassagora, per il quale "il sole è una massa incandescente e più grande del Peloponneso" (13) e "la
luna contiene abitazioni ed anche colli e burroni" (14) e dunque è del tutto simile alla terra. A queste
conclusioni egli era giunto probabilmente in seguito alla caduta presso Egospotami di un meteorite e le
aveva espresse in un libro che poteva essere acquistato a poco prezzo nell'orchestra del teatro ateniese.
Si trattava di affermazioni molto pericolose dal punto di vista religioso, perché la negazione degli "dei
visibili" (gli astri appunto), faceva supporre che ancor meno si dovesse credere agli dei invisibili.
Inoltre su un altro punto spiegazioni scientifiche e credenze religiose potevano venire a collidere e
precisamente riguardo ai presagi che si era soliti trarre dai fenomeni celesti, così come da altri
fenomeni naturali (in particolare quelli fuori dalla norma). Ben noto è l'episodio del montone dall'unico
corno, che viene interpretato dall'indovino Lampone come il presagio di un futuro dominio
incontrastato di Pericle sulla città, mentre da Anassagora viene spiegato con la anomala disposizione
del cervello dell'animale, addensato in una sola parte del cranio (15).
Se i naturalisti, dando una spiegazione scientifica a fenomeni che fino ad allora erano considerati
manifestazioni del divino, procedono ad una desacralizzazione della natura, essi però non portarono
avanti una critica sistematica e coerente alla religione. I conflitti che si svilupparono con le credenze
popolari furono conflitti puntuali; infatti, essendo la filosofia ionica impegnata innanzi tutto nella
ricerca dell'archè e essendo l'idea di una creazione divina del mondo del tutto estranea alla religione
greca, non c'era necessario contrasto tra filosofia e fede. Lo stesso trasferimento all'archè di alcune
caratteristiche tipiche degli dei non sembra implicare, quando esso non sia esplicitamente espresso
come in Senofane, il rifiuto delle figure divine tradizionali (non è impossibile ad esempio che in
Anassimandro l'αpiειρων divinizzato coesista con le divinità omerico-esiodee).
Va infine sottolineato che per lungo tempo la filosofia della natura non fu sentita come una minaccia
alla religione perché essa rimase limitata a circoli ristretti. Ciò aiuta a capire come mai non abbiamo
notizia di processi contro i filosofi se non a partire dall'Atene periclea.
Dopo essere stata la principale protagonista delle vittorie sui Persiani, Atene divenne, con la
fondazione della lega Delio-Attica, il principale polo di attrazione politica e culturale della Grecia e
ben presto in essa si trasferirono numerosi intellettuali provenienti soprattutto dalle città della Ionia.
Nel 463 a.C. vi giunse anche Anassagora di Clazomene, che fu il primo filosofo ad essere processato
per empietà (16).
La condanna con cui quasi certamente si concluse il processo, condanna comprensibile in base a quanto
detto in precedenza, non basta a farci ritenere Anassagora un ateo (17). Non solo egli parla del Nous,
adottando il solenne stile religioso, come se fosse il supremo essere divino (18), ma non è credibile
neppure che egli abbia condotto un'esplicita polemica contro le concezioni religiose del suo tempo,
visto che non se ne trova traccia nei frammenti che delle sue opere ci sono rimasti e visto che un tale
atteggiamento non sembra conciliabile col ritratto di un Anassagora tutto assorto nella ricerca
scientifica. Infatti un aperto contrasto con le credenze popolari avrebbe messo in pericolo quella
tranquillità che era indispensabile ai suoi studi.
c) La Sofistica
Se i fisiologi entrarono in collisione con il credo popolare solo su quei punti in cui esso contrastava con
i risultati delle loro ricerche scientifiche, l'attacco dei sofisti fu invece globale.
Essi non si limitavano a mettere in discussione particolari credenze, ma scalzavano le fondamenta
stesse della fede arrivando a ridurre la religione ad una convenzione umana, spiegabile sulla base di
certi dati psicologici (la paura, la gratitudine). Ancora nelle Leggi di Platone (pag. 899 e) possiamo
leggere: "Caro mio questi cominciano col dire che gli dei sono frutto dell'arte degli uomini, non sono
per natura, sono per certe leggi e convenzioni, sono diversi da luogo a luogo, come cioè ciascun popolo
convenne con se stesso nello stabilirli per convenzione, come fissando una legge".
Si evidenzia qui come alla base della critica dei sofisti alla religione ci fosse quell'opposizione tra
νοµοs e φυσιs che del movimento sofistico fu uno dei temi principali. Non è un caso che questa
discussione cominci proprio ad Atene: la forte immigrazione da ogni parte del mondo greco, i
commerci che la mettevano in contatto con i diversi popoli del Mediterraneo, le discussioni politiche
durante l'assemblea: tutto ciò faceva di Atene il luogo più adatto a far nascere la consapevolezza della
varietà e della relatività dei costumi umani di contro alla costanza della natura. Conseguenza di tale
constatazione fu la messa in questione del valore del νοµοs e l'asserzione della sua inferiorità rispetto
alla legge di natura (19).
Fra le cose che sono νοµωι, cioè esistenti per convenzione, i sofisti misero anche la religione e questo
aprì la via alla negazione dell'esistenza degli dei. Protagora è il primo ad enunciare la possibilità che gli
dei non esistano nella ben nota frase iniziale del suo Περι Θεων. Qui egli scrive: "Riguardo agli dei,
non ho la possibilità di accertare né che sono né che non sono: opponendosi a ciò molte cose: l'oscurità
dell'argomento e la brevità della vita umana" (20). Tale posizione agnostica non era una novità assoluta
nel panorama culturale greco: già Senofane aveva detto: "il certo nessuno lo ha mai colto né alcuno ci
sarà che lo colga e relativamente agli dei e relativamente alle cose di cui parlo " (21) e, a sua volta,
Melisso affermò che "sugli dei non bisogna pronunciarsi perché di essi non è possibile conoscenza"
(22). Ma, certo, l'asserzione di Protagora ha ben altro peso dato che essa mette in questione la stessa
esistenza degli dei prospettando la possibilità di una risposta negativa al problema.
Noi non conosciamo il contenuto dell'opera e con ragione ci si può chiedere cosa mai si potesse dire
sugli dei dopo che si era cominciato affermando che su di essi non si sa nulla. Probabilmente Protagora
doveva discutervi gli argomenti a favore e quelli contrari sia in riferimento all'esistenza degli dei sia in
relazione alla loro forma (23).
Possiamo dire che con Protagora gli dei vengono coinvolti nella distinzione fra sapere (ειδεναι) e
credere (νοµιζειν), infatti se essi non possono essere oggetto di conoscenza certa,
(Περι µεν θεων ουκ εχω ειδεναι) sono però oggetto della fede umana (ο ανθρωpiοs θεουs
ενοµισεν) (24). Così, in virtù dell'opposizione fra sapere e credere, la religione viene respinta tra i
νοµιζοµενα.
Ma Protagora fu un ateo? Non mancò nell'antichità chi interpretasse la frase iniziale del
Περι Θεων come una asserzione della non esistenza degli dei, sebbene camuffata per cautela. Tale è
l'interpretazione dell'epicureo Diogene di Enoanda, che equipara Protagora a Diagora, l'ateo per
eccellenza:
"Protagora di Abdera nella sostanza ebbe la stessa opinione di Diagora, ma si servì di altri termini per
sfuggire all'eccessiva audacia di essa; disse infatti di non sapere se gli dei esistono, che è lo stesso che
dire che non esistono".
E' però difficile prendere per buona tale interpretazione, soprattutto perché, come ha mostrato Fernanda
Decleva Caizzi (25), del Περι Θεων Diogene aveva davanti una versione diversa da quella che
leggiamo noi. Infatti il frammento di Diogene continua dicendo:
"Se infatti avesse contrapposto alla prima espressione <<e neppure che non sono>> è chiaro che
avrebbe avuto un pretesto per non sembrare di togliere di mezzo totalmente gli dei. Ma disse <<che
essi sono>> senza <<che essi non sono>> in realtà facendo appunto la stessa cosa di Diagora e,
dicendo di non sapere che esistono, se ne sbarazzò".
Inoltre le poche cose che sappiamo di Protagora non ci autorizzano a ritenere che la prudente
asserzione del "Sugli dei" fosse solo un mascheramento di una posizione ben più radicale: a parte che,
dal mito che Platone gli attribuisce, Protagora appare apprezzare positivamente il fatto religioso in
quanto fenomeno sociale ed elemento importante della cultura umana (26), il nostro filosofo, sebbene
risulti processato e condannato per empietà, non sembra coinvolto in nessun atto contro il culto (e
vista la sua fama di asebeia, difficilmente la tradizione avrebbe mancato di riportare un tale atto), anzi
egli si serviva del giuramento per garantirsi il pagamento dei suoi onorari.
Se, a parte qualche eccezione come quella di Diogene di Enoanda, Protagora fu generalmente
considerato un agnostico, un vero e proprio ateo venne ritenuto nell'antichità Prodico di Ceo. Stando a
quanto riferisce Sesto Empirico, Prodico avrebbe sostenuto che "il sole, la luna, i fiumi, le fonti e in
genere tutte le cose che giovano alla nostra vita, gli antichi le ritennero divinità per l'utilità che ne
deriva; come fecero gli Egizi per il Nilo" (27). Fu così, continua Sesto, che "il pane fu ritenuto
Demetra, il vino Dioniso, l'acqua Poseidone, il fuoco Efesto e così via di ciascuna cosa di cui ci
serviamo" (28).
In Filodemo e Cicerone troviamo anche una formulazione evemeristica di questa teoria; infatti,
secondo loro, Prodico avrebbe affermato che furono ritenuti dei dapprima le cose utili e in seguito gli
scopritori di queste cose (29). Le due versioni si possono spiegare col fatto che forse Prodico non
faceva differenza fra la cosa e il suo scopritore (30). E, sull'elaborazione di una tale spiegazione
dell'origine della religione, non dovette essere senza influenza il fatto che nella letteratura greca a volte
si trovava il nome di un dio al posto di quello di una cosa (ad esempio Omero, in Iliade 2.426, dice
"Efesto" per dire semplicemente "fuoco"), oltre al fatto che per la religione greca erano divinità anche
il sole, la luna, i fiumi, le fonti. Partendo da queste premesse era facile, per un razionalista come
Prodico, arrivare a concludere che gli uomini antichi hanno considerato dei le cose utili alla nostra vita,
così come gli egiziani consideravano un dio il Nilo. Il nome di Prodico ricorre costantemente nei
cataloghi degli atei ad indicazione del fatto che gli antichi sentirono questa sua teoria come tale da
distruggere la fede (31), ma molti studiosi moderni ritengono infondata quest'accusa.
Secondo costoro (32) Prodico non collegherebbe la questione dell'origine della religione con quella
dell'esistenza degli dei; egli cioè si limiterebbe a individuare nella gratitudine la base psicologica della
fede, senza poi pronunciarsi sull'esistenza o meno degli dei. Va però considerato che Filodemo (33)
riporta un frammento di Prodico, di autenticità assai probabile, in cui la negazione degli dei è esplicita:
"[τουs υ]piο των ανθρωpiων νοµιζοµενουs θεουs ουτ'ειναι ϕησιν ουτ'ειδεναι, τουs δε καρpiουs
και piανθ'ολωs τα χρησιµα piρ[οs τ]ον βιον τουs αρ[καιο]υs αγα[σθενταs εκθειασαι]".
Dunque quelli che gli uomini ritengono dei , né esistono né sanno. Che la traduzione corretta
dell'espressione greca "ουτ'ειναι ... ουτ'ειδεναι" sia questa è stato dimostrato in modo del tutto
convincente da Heirichs nel suo saggio "Atheism of Prodicus" (34). Quella che può sembrare una
ridondanza (è superfluo negare che gli dei sappiano, quando se ne è negata l'esistenza) in realtà si
spiega perfettamente, se consideriamo quella che era la discussione teologica sul finire del V secolo. Il
concetto dell'onniscenza divina (35), proprio già della fede popolare, era stato ripreso da molti filosofi
(36) ed era uno dei punti principali difesi dai teisti. Non a caso Senofonte, riassumendo la posizione
teista si esprime così:
το θειον τοσουτον και τοιουτον εστιν ωσθ'αµα piαντα οραν και piαντα ακουειν και piαντακου
piαρειναι και αµα piαντα εpiιµελεισθαι (Xen., Mem. 1.4.18 e segg.).
Parallelamente, chi vuole sostenere un completo ateismo negherà tanto l'esistenza degli dei quanto la
loro onniscienza (37). Se, nonostante questo frammento, qualche dubbio sull'ateismo di Prodico
rimane, ciò è perché gli autori a lui contemporanei (Platone, Senofonte, Aristofane) non solo non ce lo
presentano come un ateo, ma neppure come impegnato in un atteggiamento critico verso la religione.
Qualunque sia il motivo del silenzio delle fonti più antiche sul rapporto fra Prodico e la religione, è
indubbio che, se anche egli non trasse conclusioni radicali dalla sua teoria, essa era suscettibile di uno
sviluppo ateistico come mostra il suo ricomparire nel celebre brano del Sisifo di Crizia. Il frammento è
ricco di riferimenti a teorie di altri autori e ad idee che dovevano essere molto diffuse nell'Atene del
tempo, cosicché vale la pena di riportarlo per esteso:
"Tempo ci fu, quando disordinata era la vita degli uomini, e ferina, e strumento di violenza, quando
premio alcuno non c'era pei buoni, né alcun castigo ai malvagi. In seguito, parmi che gli uomini leggi
punitive sancissero, sì che fosse Giustizia assoluta signora <egualmente di tutti> e avesse ad ancella la
Forza; ed era punito chiunque peccasse. Ma poi, giacché le leggi distoglievan bensì gli uomini dal
compiere aperte violenze, ma di nascosto le compivano, allora suppongo, <dapprima> un qualche
uomo ingegnoso e saggio di mente inventò per gli uomini il timore <degli dei>, sì che uno spauracchio
ci fosse ai malvagi anche per ciò che di nascosto facessero o dicessero o pensassero. Laonde introdusse
la divinità sotto forma di Genio, fiorente di vita imperitura, che con la mente ode e vede, e con somma
perspicacia sorveglia le azioni umane, mostrando divina natura; il quale Genio udirà tutto quanto si
dice tra gli uomini e potrà vedere tutto quanto da essi si compie. E se anche tu mediti qualche male in
silenzio, ciò non sfuggirà agli dei; ché troppa è la loro perspicacia. Facendo di questi discorsi,
divulgava il più gradito degli insegnamenti, avvolgendo la verità in un finto racconto. E affermava gli
dei abitare colà, dove ponendoli, sapeva di colpire massimamente gli uomini, là donde sapeva che
vengono gli spaventi ai mortali e le consolazioni alla lor misera vita: dalla sfera celeste, dove vedeva
esserci lampi, e orrendi rombi di tuoni, e lo stellato corpo del cielo, opera mirabilmente varia del
sapiente artefice, il Tempo; là donde s'avanza fulgida la massa rovente del sole, donde l'umida pioggia
sovra la terra scende. Tali spaventi egli agitò dinanzi agli occhi degli uomini, e servendosi di essi,
costruì con la parola, da artista, la divinità, ponendola in un luogo a lei adatto; e spense così l'illegalità
con le leggi" (38).
C'è qui anzitutto il riferimento alla teoria di uno sviluppo progressivo dell'umanità da uno stato ferino
alla civiltà, identificata con l'instaurarsi della legge (39). Uno dei temi favoriti del dibattito sofistico era
poi, lo si è detto, la convenzionalità del diritto positivo, la quale implicava la possibilità di trasgredire
la legge, purché questa trasgressione restasse segreta. Ecco quindi la necessità di inventare il "timor
degli dei", dei che sono concepiti come attenti poliziotti in grado di vedere e sentire ogni cosa e di
conoscere gli stessi pensieri dell'uomo. La religione è vista quindi come instrumentum regni, come un
mezzo inventato da un qualche uomo ingegnoso per dare stabilità al sistema politico-legislativo. Infine,
nei versi in cui si spiega come mai l'inventore della religione scelse di collocare in cielo gli dei, sembra
lecito scorgere un riferimento a Democrito. Il grande atomista, infatti, attribuiva la nascita della
religione al terrore provato dagli uomini primitivi davanti a fenomeni celesti come fulmini ed eclissi,
fenomeni di cui gli uomini di allora, ignorandone le vere cause fisiche, ritenevano autori gli dei (40).
Ma dal cielo non vengono solo cose terrificanti, bensì anche cose benefiche: la luce del sole, la pioggia,
l'alternarsi delle stagioni. Dobbiamo credere che non solo Prodico, ma anche Democrito considerasse
questo aspetto, visto che nel frammento 16 (41) del P. Herc. 1428 leggiamo:
θεροs εν [...] χε[ι]µων και ε[αρ και] µεθοpiωρον [κ]αι piα[ν]τα ταυτα ανωθεν διειpiετη γεινεται
διο δη και το εξεργαζοµενον γνονταs σεβεσθαι
"L'estate, l'inverno, la primavera, l'autunno e tutti i fenomeni di tal genere vengono dall'alto; non
sorprende quindi che essi, riconoscendolo, abbiano adorato l'agente di questi fenomeni".
Quindi per Democrito la religione non nasceva solo dalla paura dell'uomo davanti ad una natura
sconosciuta ed ostile, ma anche dalla gratitudine per le cose utili alla vita che la stessa natura offriva
(42).
Tornando al frammento di Crizia, è chiaro che esso ci attesta un radicale ateismo: Sisifo, infatti, che
con ogni probabilità è il personaggio che sta parlando, dichiara che l'esistenza degli dei è solo un'utile
menzogna. Questo ovviamente non basta a dimostrare che Crizia fu ateo (sebbene tale lo abbiano
ritenuto gli antichi) poiché non è detto che l'autore di un'opera teatrale condivida quanto fa pronunciare
ad un suo personaggio (tanto più se questo è un famoso θεοµακοs come Sisifo, che alla fine del
dramma doveva ricevere la giusta punizione per la sua empietà). Non si può, però, nemmeno escludere
che Crizia queste idee le condividesse e che il farle esporre a Sisifo fosse solo un espediente per
mettersi al riparo da ogni rischio. A ritenere ciò induce anche il fatto che il nostro autore risulta
implicato nell'affare della mutilazione delle Erme e che doveva far parte, insieme con il suo amico
Alcibiade, di qualche gruppo di aristocratici che si divertivano a profanare i Misteri Eleusini e a
dileggiare la religione popolare.
In conclusione, sembra possibile distinguere, nel mondo antico, due diversi tipi di ateismo: un ateismo
che possiamo dire di senso comune ed un altro più strettamente filosofico. Alla base del primo stanno,
essenzialmente, alcuni dati di esperienza come i fulmini che colpiscono le querce o i templi anziché gli
spergiuri o la peste che fa le sue vittime tanto tra i buoni che tra i malvagi. Più in generale, questo
ateismo sembra motivato dall'amara constatazione della prosperità di chi agisce ingiustamente a fronte
dell'infelicità di tanti uomini giusti e pii (43).
Il secondo tipo di ateismo, seppure può utilizzare gli argomenti del senso comune, trova la sua origine
nel sistema filosofico di un certo pensatore, o almeno è collegato con l'elaborazione di una teoria
sull'origine della religione. Vedremo come l'ateismo di Diagora, che non era un filosofo
"professionista" anche se fu in contatto con l'ambiente della sofistica, può essere fatto rientrare nel
primo tipo, mentre quello di Teodoro è la conseguenza di alcuni principi basilari della sua filosofia.
NOTE AL CAPITOLO 2
1) cfr. I Presocratici: testimonianze e frammenti, Roma-Bari, 1981, 21 B 11. (in seguito indicato come
"I Presocratici")
2) Ai versi 53-54 dell'Olimpica I il poeta dichiara: "Ma per me è difficile dire che uno degli dei mangi
carne umana: mi rifiuto". Il pronome di prima persona, che in greco apre la frase, conferisce particolare
forza alla critica, impegnandovi direttamente Pindaro.
3) cfr. Pindaro, Ol. I, 28-30.
4) cfr. I Presocratici, 64 A 8
5) Non è che la civiltà micenea fosse illitterata, ma la scrittura sillabica (Lineare B) che si usava allora
era necessariamente, per la sua complessità, patrimonio di una ristretta cerchia di scribi. Questa
scrittura, poi, essendo un prodotto tipico dell'amministrazione palaziale, scomparve con il venir meno
di questa forma di organizzazione socio-politica.
6) Per un discorso più ampio sui mutamenti che si verificarono con il passaggio dalla fase dell'oralità a
quella della scrittura vedi A. Capizzi, La Repubblica cosmica, Roma, 1982 (in particolare pp. 134-
182); vedi anche E. A. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, Roma-
Bari, 1973
7) cfr. A. Capizzi, op. cit., p. 151. Il libro è, per usare le parole di Tucidide, uno κτηµα εs αει e
κτηµα va inteso qui, anzitutto, nel senso del possesso materiale, "che consente di rileggerlo ogni volta
che è necessario" (A. Capizzi, op. cit., p. 146, n. 407).
8) La traduzione è di Attilio Zadro, Roma-Bari, 1979.
9) Pensiamo alla risposta di Achille ad Ulisse che si congratula con lui per il suo ruolo di signore dei
morti: "Non mi elogiare la morte, o illustre Odisseo. Vorrei vivere in campagna e servire per mercede
ad un altro, stando presso un povero diseredato e che fosse privo di grandi sostanze, piuttosto che
regnare su tutti i morti" (Odissea XI, 488-491).
10) Secondo la concezione greca, la punizione per l'ingiustizia è un ανταδικειν, cioè un commettere
ingiustizia in contrappasso, in ricambio. Per i greci era legittimo commettere ingiustizia se la si era
subita. Sarà Socrate il primo a contrastare questo principio affermando che commettere ingiustizia è
sempre male.
11) cfr. A. B. Drachmann, Atheism in pagan antiquity, London, 1922, p. 54.
12) Questa è la tesi di Nestle (s.v. Atheismus, in Reallexikon fuer Antike und Christentun, Stuttgart,
1950, vol I, coll. 866-870), ma, come si dirà in seguito, a parte i casi in cui questa posizione è
esplicitamente espressa, non abbiamo prove per sostenere che i filosofi della natura non credettero
negli dei personali della tradizione.
13) cfr. I Presocratici, 59 A 1.
14) Ibidem.
15) Questo atteggiamento non doveva certo far guadagnare ad Anassagora le simpatie della numerosa e
potente categoria degli indovini, che, con i loro responsi, giocavano un diretto ruolo politico (pensiamo
al contrapporsi di presagi fausti ed infausti prima della partenza della spedizione per la Sicilia). E non
fu un caso che fosse proprio un indovino, Diopite, a presentare il decreto che doveva permettere di
accusare Anassagora.
16) Indubbiamente, il processo contro Anassagora aveva motivazioni politiche, iscrivendosi anch'esso
nella manovra degli avversari di Pericle che cercavano di colpirlo indirettamente con il trascinare in
giudizio i suoi amici. Ma, quali che siano le motivazioni che avevano fatto intraprendere l'azione
giudiziaria, va detto che la condanna venne pronunciata per motivi religiosi.
17) Nonostante l'opposto parere di W. K. C. Guthrie (s.v. Atheism, in The Oxford Classical Dictionary,
edited by N.G.L. Hammond and H.H. Scullard, 2. ed., Oxford, 1970), secondo cui Anassagora "senza
dubbio fu un'ateo nel senso moderno della parola".
18) cfr. I Presocratici, 59 B 12, dove del Nous si dice che: "è la più sottile di tutte le cose e la più pura:
ha cognizione completa di tutto e il più grande dominio e di quante cose hanno vita, quelle maggiori e
quelle minori, su tutte ha potere l'Intelletto ... E qualunque cosa doveva essere e qualunque altra sarà,
tutte l'Intelletto ha ordinato, anche questa rotazione in cui si rivolgono adesso gli astri, il sole, la luna,
l'aria, l'etere che si vengono separando".
19) Infatti "se uno trasgredisce le norme di legge, finché sfugge agli autori di esse, va esente da
biasimo e da pena; se non sfugge, no. Ma se invece violenta oltre il possibile le norme poste in noi da
natura, se anche nessuno se ne accorga, non minore è il male, né è maggiore, se anche tutti lo sappiano;
perché si offende non l'opinione, ma la verità" (I Presocratici, 87 B 44).
20) cfr. I Presocratici 80 B 4
21) cfr. I Presocratici 21 B 34
22) cfr. I Presocratici 30 A 1. Va detto però che forse la testimonianza di Diogene Laerzio non è esatta.
23) Appare plausibile che il libro avesse un andamento dialettico, ma non nel senso che gli dei fossero
solo l'oggetto di una esercitazione retorica destinata a mostarre l'abilità dell'oratore, capace di fare su
uno stesso argomento discorsi duplici.
24) Questa frase è parte del mito che Platone fa pronunciare a Protagora nel dialogo omonimo; un mito
in cui la venerazione di dio appare come un elemento essenziale della civiltà.
25) cfr. F. Decleva Caizzi, La tradizione protagorea ed un frammento di Diogene di Enoanda, in
Rivista di filologia e di istruzione classica, vol. 104, 1976, pp. 435-442.
26) E' vero che non possiamo stabilire fino a che punto qui parli Protagora e fino a che punto Platone,
comunque una tale concezione della religione si accorda con l'altra famosa dottrina protagorea
dell'homo mensura: se la reale esistenza degli dei è incerta, indubbio è che gli uomini credono negli dei
e ciò non poteva non essere significativo per chi faceva dell'uomo la misura di tutte le cose.
27) cfr. I Presocratici, 84 B 5
28) Ibidem.
29) Ibidem.
30) Lo stesso avviene in un passo delle Baccanti di Euripide (v. 272 e segg.), dove Dioniso è
considerato contemporaneamente l'inventore del vino e il vino stesso. Un passo che secondo Jaeger (La
teologia dei primi pensatori greci, Firenze, 1982, p. 280) è la più antica traccia dell'influsso esercitato
da questa teoria di Prodico.
31) cfr. I Presocratici, 84 B 5: "E che? Prodico di Ceo che affermò essere state annoverate tra gli dei le
cose utili alla vita dell'uomo, quale mai religione lasciò?"
32) cfr. A.B. Drachmann, op. cit., p. 44; W. Jaeger, op. cit., p. 291.
33) Filodemo, De Piet., p. 71, ed. Gomperz.
34) Vedi in Cronache Ercolanensi, 6, 1976, pp. 15-21.
35) Sull'onniscienza divina nelle religioni antiche, vedi l'illuminante saggio di R. Pettazzoni, L'essere
supremo nelle religioni primitive, Torino, 1958, nel quale si dimostra:
a) che l'onniscienza è una conseguenza dell'onniveggenza e dunque inizialmente compete ad una
specifica categoria di dei: gli dei del cielo, luminosi e sovrastanti;
b) che il suo oggetto è non tutto lo scibile , ma solo l'uomo e le sue azioni;
c) che essa non è di tipo passivo-contemplativo, ma dà luogo ad una sanzione, per lo più meteorica
(tuoni, fulmini, diluvi-alluvioni).
36) Così il dio di Senofane (cfr. I Presocratici, 21 B 24), "tutto intero vede, tutto intero pensa, tutto
intero ode; il Nous di Anassagora (cfr. I Presocratici, 59 B 12) "ha cognizione completa di tutto"; l'Aria