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comportamenti ostili o discriminatori nei confronti dei membri di un gruppo per la loro
sola appartenenza ad esso” (Brown 1995, 15).
Tajfel (1981) collega il concetto di pregiudizio a quello di stereotipo, inteso come il nucleo
cognitivo del primo, ossia l’insieme degli elementi di informazione e delle credenze circa
una certa categoria di oggetti, rielaborati in un’immagine coerente e tendenzialmente
stabile, in grado di sostenere e riprodurre il pregiudizio nei loro confronti (Mazzara, 1997).
Gli stereotipi sono quindi definiti come generalizzazioni diventate patrimonio degli
individui, derivati dal processo di categorizzazione; essi diventano sociali quando sono
condivisi da un gran numero di persone.
Da alcuni anni l’espressione manifesta del pregiudizio nelle culture occidentali è diventata
sempre meno diffusa, tanto che ai nostri giorni è difficile trovarsi di fronte a forme
conclamate di pregiudizio sociale (Brown, 1995). Con il mutare delle norme sociali,
sempre più tese a sanzionare ogni forma di discriminazione, la tendenza delle persone è
diventata quella di presentarsi democratici, “politicamente e socialmente corretti”, il che
renderebbe più rare le espressioni aperte di pregiudizi e atteggiamenti negativi nelle
situazioni pubbliche. Ciononostante, nella vita intima e privata, persisterebbero credenze
pregiudiziali.
Accanto alle più plateali, dirette e manifeste espressioni di pregiudizio si insidierebbero
quindi delle forme nascoste, sottili e indirette che permetterebbero di mantenere
un'immagine di sé come persona priva di pregiudizio, coerente con le norme sociali ed
incline al rispetto dei valori umanitari.
Numerose ricerche hanno focalizzato l’attenzione sulle forme più indirette di pregiudizio,
forme che sono state riscontrate principalmente negli Stati Uniti (Gaertner e Dovidio,
1986; McConahay, 1986; Sears, 1988), ma anche in numerose nazioni europee (Pettigrew
e Meertens, 1995; Akrami, Ekehammar, Araya, 2000), Italia inclusa (Arcuri e Boca, 1996;
Manganelli Rattazzi e Volpato, 2001).
Sono diverse le definizioni date a questa forma di pregiudizio: “razzismo simbolico” (Sears
e collaboratori 1988; 2003; 2007), “razzismo moderno” (McConahay e collaboratori 1986),
“razzismo di avversione” (Gaertner e Dovidio nel 1986) e “pregiudizio sottile” (Pettigrew
e Meertens, 1995). L’elemento che accomuna queste etichette è che esse fanno riferimento
a forme di pregiudizio latenti, nascoste o sottili, che si aggiungono o sostituiscono le
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classiche forme pregiudiziali espresse in maniera più diretta e aperta nei confronti dei
gruppi sociali stigmatizzati.
Un contributo fondamentale per la comprensione delle modalità di espressione di queste
due forme di pregiudizio è stato dato in Europa da Pettigrew e Meertens (1995).
Secondo gli autori, le forme esplicite di pregiudizio, che corrispondono a quello
tradizionale, si esprimono attraverso un rifiuto diretto e aperto e si articolano attorno a due
nuclei concettuali: l’idea che l’outgroup costituisca una minaccia per il proprio gruppo e
l’idea che occorra evitare qualsiasi contatto con i membri dell’outgroup (anti-intimità).
Le forme sottili si manifestano invece attraverso comportamenti ed espressioni che, in
quanto normativi, sono considerati accettabili nelle società occidentali: l’accentuazione
delle differenze culturali, la difesa dei valori tradizionali ed il rifiuto di provare emozioni
positive nei confronti dell’outgroup costituiscono le dimensioni su cui tale forma di
pregiudizio si fonda.
La scala del pregiudizio sottile e manifesto messa a punto da Pettigrew e Meertens nel
1995 è stata validata in Italia da Arcuri e Boca (1996) e successivamente da Manganelli
Rattazzi e Volpato (2001). Entrambe le ricerche hanno confermato le proprietà
psicometriche dello strumento e la sua applicabilità al contesto italiano.
Altri autori (Sniderman e Tetlock, 1986; Sniderman et al. 1991; Tetlock, 1994; Coenders et
al., 2001; Leone, Chirumbolo e Aiello, 2006) hanno messo in discussione alcuni aspetti
dello strumento, sottolineando la sua difficoltà a rappresentare le importanti differenze
teoriche e le caratteristiche distintive delle forme tradizionali e moderne di pregiudizio.
Il presente lavoro si articola in quattro capitoli: nel primo, viene illustrata una rassegna dei
più significativi studi sulla natura del pregiudizio; nel secondo, vengono descritti gli
stereotipi sociali, dal punto di vista teorico, nel terzo, vengono presentate le nuove forme di
pregiudizio; nel quarto, viene fatta una descrizione sulla scala di pregiudizio manifesto e
latente di Pettigrew e Meertens, ponendo l’attenzione agli sviluppi e ai rilievi critici dello
strumento.
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PRIMA PARTE
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PRIMO CAPITOLO
Approcci di studio sul pregiudizio in psicologia sociale
1.1 Pregiudizio: definizioni
Che cos’è il pregiudizio? Il pregiudizio, così come lo definisce il Grande dizionario della
lingua italiana di Salvatore Battaglia, è una opinione precostituita, un giudizio preventivo
affrettato o avventato privo di giustificazione razionale o emesso a prescindere da una
conoscenza precisa e quindi tale da impedire valutazioni corrette; una posizione mentale
assunta acriticamente fondata su convinzioni tradizionali o comuni ai più imposta
dall’ambiente e dall’educazione, solitamente espressione di diffidenza, disposizione
sfavorevole verso qualcuno, derivante da ristrettezze di idee, da posizioni mentali anguste e
retrive che vengono a costituire oltraggio ai valori etici, umani e sociali (Amerio 2004, 135
- 136).
Il lavoro fondamentale da cui ha inizio lo studio psicosociale sul pregiudizio è stato
realizzato da Gordon Allport, psicologo statunitense, nel suo La natura del pregiudizio del
1954.
Allport pubblicò la seguente definizione:
Il pregiudizio etnico è un’antipatia basata su una generalizzazione irreversibile e in mala
fede. Può essere solo intimamente avvertita o anche dichiarata. Essa può essere diretta a
tutto un gruppo come tale, oppure ad un individuo in quanto membro di tale gruppo
(Allport 1954, 10).
Successivamente altri autori seguendo il percorso iniziato da Allport, hanno proposto
nuove spiegazioni, ponendo sempre l’accento su caratteristiche quali la “scorrettezza” o
l’”inaccuratezza” del pregiudizio. Ad esempio Jones scrive:
Il pregiudizio è un giudizio negativo a priori dei membri di una razza o di una religione o
nei confronti di chi assolve un qualunque altro ruolo sociale significativo, mantenuto a
dispetto dei fatti che lo contraddicono (Jones 1972, 61).
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Oppure più recentemente Worchel, Cooper e Goethals lo definiscono come:
Un atteggiamento negativo ingiustificato che si fonda unicamente sull’appartenenza del
medesimo individuo ad un particolare gruppo (Worchel, Cooper e Goethals 1988, 449).
Elemento comune delle definizioni attribuite da studiosi che hanno dedicato la loro vita
allo studio ed approfondimento del fenomeno, è il suo essere un orientamento sociale nei
confronti di certi individui per il fatto che essi appartengono a particolari gruppi. Il
pregiudizio di gruppo ha, in second’ordine, una connotazione negativa. Più che sulla forma
positiva, gli studiosi si concentrano sulla comprensione della sua caratteristica negativa.
Rupert Brown (1995), allievo di Tajfel, afferma di non ritenere necessario presumere,
come fanno queste definizioni, che il pregiudizio possa essere considerato un insieme
“falso” o “irrazionale” di credenze, una generalizzazione “ingannevole” o una disposizione
“arbitraria” a comportarsi negativamente nei confronti di un gruppo diverso dal proprio.
Una ragione per mettere in discussione questa prospettiva è per esempio che affermare che
un atteggiamento o una credenza sia “falsa” implica che avremmo modo di stabilirne la
“correttezza”; ma spesso un’operazione del genere risulta impossibile perché la maggior
parte delle affermazioni pregiudiziali tendono a venire espresse in termini molto vaghi e
ambigui. Considerazioni come questa hanno portato Brown ad adottare una definizione di
pregiudizio più estesa, che lo concepisce come:
Il mantenimento di atteggiamenti sociali e credenze cognitive squalificanti, l’espressione
di emozioni negative o la messa in atto di comportamenti ostili o discriminatori nei
confronti dei membri di un gruppo per la loro sola appartenenza ad esso (Brown 1995,
15).
Sono necessarie alcune osservazioni. La prima riguarda la necessità di non considerare il
pregiudizio come un fenomeno puramente cognitivo o attitudinale e di prestare invece
attenzione alle sue componenti emotive e alle sue possibili espressioni comportamentali.
La seconda è relativa al fatto che lo studioso assume una prospettiva sociopsicologica che
gli permette di studiare il pregiudizio sia come fenomeno fondato nel gruppo che come
prodotto del comportamento individuale.
Le ragioni che vedono il pregiudizio come un fenomeno che trae origine da processi di
gruppo sono tre. La prima relativa al fatto che anche quando si rivolge a un singolo
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individuo ciò che conta non sono i singoli tratti di quel soggetto, ma la sua appartenenza ad
un gruppo piuttosto che a un altro. Un secondo motivo è che esso rappresenta un
orientamento per cui in una società un ampio numero di persone, connotate come ingroup,
tenderà a esprimere, nei confronti di un qualsiasi outgroup, stereotipi negativi. Da queste
ragioni deriva la terza e ultima osservazione. La natura del pregiudizio è fondata sulla
relazione intergruppi, nella misura in cui il giudizio di un gruppo determina il rapporto che
essi avranno con l’altro gruppo, ovvero con l’outgroup.
Una seconda analisi è rivolta specificatamente all’individuo. L’attenzione di Brown è
orientata alla stima dell’impatto di diversi fattori causali sulle percezioni, le valutazioni e le
reazioni comportamentali espresse dai soggetti nei confronti di membri di altri gruppi. Tali
fattori possono assumere svariate forme e collocarsi a un livello individuale; è anche vero
però che questi risiedono spesso nelle caratteristiche della situazione sociale in cui le
persone si trovano a interagire oppure dal singolo contesto.
Per Brown occorre distinguere, come già rimarcato da Sherif (1966) e Tajfel (1978), fra
individui che agiscono singolarmente e individui che agiscono in quanto membri di gruppi
rispetto alle loro appartenenze.
I due punti di vista apparentemente sembrano inconciliabili e contradditori, ma pensando
ad una relazione fondamentale tra individuo e comunità la prospettiva potrebbe cambiare.
Infatti, l’agire umano non si realizza nel vuoto sociale perché l’azione ha sempre un effetto
sul mondo esterno e allo stesso tempo il comportamento individuale è condizionato
dall’appartenenza ad un gruppo. Si comprende così come le due prospettive riflettano due
modi di vedere lo stesso oggetto.
Per comprendere il pregiudizio, secondo Brown, si deve tenere conto delle forze
economiche, storiche, politiche, sociopsicologiche che operano in ogni contesto; tutte le
dimensioni hanno un ruolo importante nel regolare la relazione intergruppi.
1.2 Pregiudizio in una prospettiva individuale. La personalità autoritaria
Rupert Brown (1995), adottando un approccio sociopsicologico, appare in contrasto con
altri studiosi che invece spiegano il fenomeno del pregiudizio come derivante da forme
patologiche di personalità determinate a loro volta dalla storia familiare.
Il punto di partenza di questa prospettiva fu lo studio sulla cosiddetta Personalità
Autoritaria di Adorno, Frenkel-Brunswik, Levinson e Sanford (1950) che tentò di
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collegare il pregiudizio ad un tipo di personalità caratterizzata da una struttura autoritaria
del carattere.
L’ipotesi fondamentale era che le persone più inclini al pregiudizio sarebbero coloro che,
per ragioni di personalità, sono più sensibili alle idee fasciste o razziste prevalenti in una
società in un dato momento storico. Adorno e collaboratori puntavano solo in astratto a
spiegare le origini di tali idee a livello sociale; nella loro ricerca, tuttavia, si interessarono a
spiegare esclusivamente le differenze individuali nella recettività a tali idee.
La guida del loro studio è stata la teoria di Freud sulla struttura della personalità umana.
Secondo gli studiosi, le differenze di personalità potevano essere ricondotte alla famiglia
nella quale il soggetto era stato socializzato. In queste famiglie i genitori impartiscono ai
figli rigidi codici morali, li orientano a quella che all’interno di rigidi schemi ritengono
essere “la buona condotta”, soprattutto a riguardo della sfera sessuale.
Questo tipo di rapporto gerarchico, di sfruttamento tra genitore e figlio, determina,
attraverso un meccanismo di proiezione, un atteggiamento aggressivo del figlio orientato
verso il potere e la dipendenza, portandolo ad un attaccamento disperato a tutto ciò che
appare forte e un rifiuto di tutto ciò che è inferiore. Fra i candidati naturali di questo sfogo
di aggressività vi sono i membri di gruppi etnici minoritari o di altre categorie socialmente
stigmatizzate come gli omosessuali e i criminali confessi.
Ne deriverebbe una persona ambivalente nei confronti della figura che rappresenta
l’autorità (i genitori), che vede al mondo solo il bianco e il nero escludendo ogni
gradazione di grigio, intollerante all’ambiguità cognitiva e ostile verso chiunque non
appartenga al gruppo.
Se questo tipo di educazione prepara il terreno al pregiudizio, il tipo di educazione opposta
porta alla tolleranza. Il bambino che si sente sicuro e amato qualsiasi cosa egli faccia, che è
trattato senza che i genitori esercitino ostentatamente il loro potere, elabora idee improntate
all’uguaglianza e alla fiducia (Allport, 1954).
Adorno e collaboratori per sostenere la loro teoria condussero un importante progetto di
ricerca.
I ricercatori rivolsero i loro studi verso 2099 soggetti studenti di varie università,
insegnanti di scuole pubbliche, infermiere, detenuti del carcere di San Quintino, pazienti di
una clinica psichiatrica, gruppi di reduci di guerra, di sindacalisti e di membri di vari club.
Essi erano in gran parte americani bianchi, non ebrei, nativi degli Stati Uniti ed
appartenenti alla classe media, mentre furono di proposito esclusi i membri dei gruppi di
minoranza (Roccato, 2003).
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La ricerca si basava sull’uso combinato di metodi psicometrici, proiettivi e clinici: i
soggetti furono sottoposti a questionari contenenti sia domande riguardo alla loro
collocazione sociale e la loro storia, sia soprattutto quesiti che fornissero informazioni
sugli atteggiamenti a proposito degli ebrei, delle minoranze in genere, etniche e culturali, e
delle tematiche politico-economiche. A tale scopo furono costruite quattro scale di
atteggiamento: la scala dell’antisemitismo, dell’etnocentrismo, del conservatorismo
politico-economico e, la più importante della ricerca, delle tendenze antidemocratiche. La
misura più nota venne chiamata scala F, per le «tendenze prefasciste» che intendeva
misurare, composta da 30 item. La scala, che aveva una buona coerenza interna, era in
linea con le ipotesi dei ricercatori: mostrava una correlazione significativa con le misure
precedenti del pregiudizio tra gruppi, pur non contenendo item connessi a gruppi etnici.
Nel valutare la scala F, gli autori selezionarono ottanta individui che alla dimensione
Etnocentrismo avevano ottenuto punteggi particolarmente alti o bassi per sottoporli sia a
colloqui clinici in profondità sia a domande proiettive e al test del T.A.T. che permettevano
un’analisi delle esperienze infantili di cui avevano memoria.
I risultati confermarono molte delle intuizioni teoriche dei ricercatori circa le origini e
sviluppi dell’autoritarismo. Soggetti con punteggi elevati nella scala F tendevano ad
idealizzare i loro genitori e a parlare della loro infanzia in termini di un periodo di
obbedienza alla loro autorità e di dure sanzioni. Gli atteggiamenti di queste persone erano
chiaramente moralistici, di condanna degli individui devianti, ed esprimevano stereotipi
categorici definiti. Al contrario, individui con punteggi bassi avevano un’immagine più
equilibrata della loro vita familiare.
1.3 Critiche alla Personalità autoritaria
L’impatto sulla comunità scientifica del lavoro di Adorno fu molto forte.
Furono condotti innumerevoli studi nei quali la scala F era correlata con quasi ogni
variabile immaginabile (Brown, 1989). Già a distanza di otto anni dalla pubblicazione del
volume più di duecento lavori ripresero e svilupparono i temi della ricerca originaria. Molti
di questi, proprio a causa dell’impatto che l’indagine di Adorno aveva avuto sulla comunità
americana, analizzarono in chiave critica gli strumenti d’indagine impiegati e lo stesso
costrutto di riferimento.
A livello metodologico, molte critiche si sono concentrate sulla progettazione e validazione
della scala F. Tre i principali limiti riscontrati.