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Introduzione
Gli anni settanta del secolo precedente, ai cui principali avvenimenti
dal punto di vista giuridico è dedicato il presente lavoro, appaiono
ricchi di eventi, di fermenti ideali, di appassionate dialettiche di
pensiero, di significative innovazioni normative. Nel giro di pochi
anni le “strutture” di cui si alimentano le ideologie e, soprattutto, il
diritto hanno subito più trasformazioni che nei venti anni precedenti e
in quelli successivi, innescando un'evoluzione accelerata dei materiali
legislativi e dei modelli di riferimento delle operazioni dei giuristi.
Ripercorrere quell'intenso periodo, anche dal punto di vista della
politica, è un 'operazione abbastanza complessa, ma particolarmente
suggestiva; innanzitutto perchè negli anni settanta il grande fiume del
cambiamento scorreva in un alveo tutto “collettivo”, materiato di lotte,
rivendicazioni e precipitati normativi “declinati al plurale”, a ridosso
delle classi, dei gruppi e dei movimenti. Non soltanto le lotte operaie (
per gli aumenti salariali, l'egualitarismo, il riequilibrio dei poteri in
fabbrica, contro la nocività), ma anche i movimenti per i diritti civili (
il femminismo, le battaglie per il divorzio e l'aborto, le lotte
studentesche) erano in quel periodo espressione di aspirazione e
vicende di massa, più che di istanze individuali. Raffaele De Luca
Tamajo, giustamente, ha parlato degli anni settanta come di “un genius
temporis improntato al collettivo”
1
, il quale non poteva non esaltare la
strutturale vocazione del diritto del lavoro che nasce e si nutre del
conflitto industriale e dell'antagonismo classista tra capitale e lavoro
ed ha come referente il “collettivo”, piuttosto che il singolo. Come
1
Così in: “Il diritto del lavoro nell'Italia repubblicana- teorie e vicende dei
giuslavoristi dalla Liberazione al nuovo secolo-”, a cura di P. Ichino, Giuffrè,
2008, p.81.
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anticipato, gli anni settanta furono anni intensi e particolarmente
significativi, anche dal punto di vista politico; sembra opportuno,
quindi, ripercorrere, sia pur brevemente, gli eventi più importanti di
quegli anni che segnarono, inevitabilmente, anche lo stesso diritto del
lavoro. Il punto di partenza del nostro breve “excursus”, può essere,
sicuramente, rinvenuto nel 1968; in quell'anno la baby boom
generation, figlia del miracolo economico e della crescita culturale del
paese, si rese protagonista della protesta giovanile, già divampata
negli Stati Uniti e, poi, diffusasi nel resto del mondo. A partire dalle
università, gli studenti avviarono nella primavera del sessantotto una
serrata contestazione dei caratteri selettivi e meritocratici del sistema
scolastico e della cultura dominante nelle università; presto il
movimento assunse una forte connotazione ideologica, marxista e
rivoluzionaria, elevando a propri modelli ideali personaggi come Che
Guevara e Mao- Tse- Tung. Gli anni dal 1968 al 1974 videro un
rilancio dalla conflittualità operaia in tutta l'Europa, ma in Italia il
fenomeno presentò alcuni aspetti peculiari; da un lato, perchè la
protesta si allargò dalle università alle fabbriche, dando vita, nel 1969,
al cosiddetto “autunno caldo”, dall'altro perchè il fenomeno assunse la
forma di una contestazione che non si pose solo obiettivi salariali e
normativi, ma avanzò richieste più vaste: una riforma dal basso del
sindacato attraverso nuove strutture elettive ( i consigli di fabbrica)
formate dai delegati di reparto, un monte – ore retribuito ( le
cosiddette “ 150 ore”) da destinare allo studio e alla formazione, il
rifiuto di mansioni e ambienti di lavoro nocivi per la salute. La
pressione si allentò solo nel 1970, con l'approvazione da parte del
Parlamento, dello Statuto dei lavoratori, che assicurava ai lavoratori,
tra l'altro, nuove garanzie circa l'occupazione e l'iniziativa sindacale
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nelle fabbriche e, a cui, è dedicato il primo capitolo della tesi. La
tempesta non passò, tuttavia, senza conseguenze; il sessantotto
produsse, infatti, trasformazioni profonde nella mentalità e nei
costumi, che attraversarono sottotraccia le diverse società nazionali
per manifestarsi compiutamente a distanza di tempo. L'autoritarismo
che era stato l'ispirazione di fondo e il tratto unificante della rivolta
giovanile dette una forte spinta alla liberalizzazione dei rapporti di
potere all'interno delle istituzioni e delle famiglie, all'affermazione dei
diritti civili, umani, all'accettazione delle differenze ( di razza, di
nazionalità, di genere, ecc.). Ne derivò una tendenza alla
democraticizzazione della società, che in forme e con tempi diverse,
fece sentire i suoi effetti sia sulle democrazie parlamentari
dell'Occidente, sia sulle dittature militari dell'Europa meridionale
dell'America latina, sia sui regimi comunisti. Nella complessa
situazione politica e sociale dell'Italia tra gli anni sessanta e settanta,
trovarono spazio tentativi non riusciti di colpo di Stato da parte degli
esponenti dell'estrema destra; questo periodo fu profondamente
segnato dal terrorismo di destra e di sinistra o, meglio, dal terrorismo
“nero” a cui si oppose un terrorismo “rosso”. La “strategia della
tensione”, sostenuta dai gruppi neofascisti, usata come arma di lotta
contro la sinistra e che mirava all'instaurazione di un regime
autoritario, si concretizzò in una lunga serie di attentati e stragi (
Banca nazionale dell'agricoltura in piazza Fontana a Milano, strage
della stazione di Bologna, strage di piazza della Loggia a Brescia); al
terrorismo “nero” si contrappose subito un terrorismo di opposta
matrice politica: il terrorismo “rosso”. Quest'ultimo invece, che aveva
come obiettivo la rivoluzione proletaria, ebbe il gruppo di maggior
spicco nelle Brigate rosse che, dopo una fase di intimidazioni nelle
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fabbriche e di sequestri lampo, passarono all' “attacco al cuore dello
Stato”, macchiandosi di omicidi di personalità politiche, magistrati,
giornalisti, poliziotti. Recessione economica e terrorismo si
collocavano in un quadro politico caratterizzato da una crescente
debolezza delle forze del centro sinistra, entrato in crisi per mancanza
di dialogo con la società; non esistendo alternanza al governo del
Paese tra i due maggiori partiti, Dc e Pci, ma essendo necessario un
coinvolgimento anche dell'opposizione, si realizzarono forme di
consociativismo ( questo fenomeno si realizza quando il Governo
giuda il Paese in aperta collaborazione con l'opposizione). La frattura
tra politica e società si ampliò con l'emergere del tema del
finanziamento illecito ai partiti attraverso le tangenti; a peggiorare il
clima intervenne anche la crisi internazionale del 1973, legata
all'aumento dei prezzi del petrolio, che portò l'Italia a una crescita del
debito pubblico e del tasso d'inflazione. Nello stesso anno il segretario
del Pci, Enrico Berlinguer ( 1922-1984), per superare l'immobilismo
politico e per rafforzare lo Stato contro i tentativi eversivi, propose un
“compromesso storico”, cioè un'alleanza tra forze della sinistra
marxista e cattolici, nella convinzione che un accordo tra maggioranza
ed opposizione avrebbe potuto portare alla realizzazione di riforme. In
seguito alla proposta di Berlinguer, il Pci ottenne un gran successo
elettorale, prima alle elezioni amministrative del 1975 e poi alle
politiche del 1976, conquistando la fiducia di gran parte della classe
media; queste ultime elezioni confermarono la Dc come primo partito
italiano e segnarono una grossa sconfitta per il Partito socialista, alla
guida del quale saliva Bettino Craxi. L' esperienza elettorale rese
necessario un cambio di rotta; si inaugurò, così, una stagione di
“solidarietà nazionale”, in cui si susseguirono tre governi Andreotti
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appoggiati dall'esterno dal Pci e dagli altri partiti dell'arco
costituzionale. Ma il clima di collaborazione tra le forze politiche non
rispecchiava tutta la società italiana, in cui si scatenò una nuova
protesta guidata dal “movimento del'77”, che riempì le piazze, le
scuole e le fabbriche di manifestazioni sempre più violente e radicali;
il 1977 fu, infatti, un anno duro e particolarmente violento.
Crescevano le incomprensioni tra sinistra tradizionale e settori del
movimento operaio che vivevano come un tradimento l'avvicinamento
del Pci alla Dc; così si giustificano, ad esempio, i disordini scoppiati
in piazza fra autonomi e servizio d'ordine del Pci, durante il comizio
tenuto dal segretario della Cgil Luciano Lama davanti all'Università di
Roma, il 14 Febbraio 1977. In quelli che furono definiti “anni di
piombo”, i più duri e drammatici della storia della Repubblica,
l'estremismo di sinistra sviluppò una lotta armata, facendo ricorso
anche al terrorismo; il culmine della tensione si raggiunse nel 1978,
quando le Brigate rosse, volendo contestare la linea del dialogo tra Pci
e Dc, rapirono il 16 Marzo, mentre in Parlamento si apriva il dibattito
sulla fiducia a questo nuovo governo di “solidarietà nazionale”, colui
che ne era stato sostenitore, l'onorevole Aldo Moro. L'Italia visse
cinquantaquattro giorni di angoscia e di paura, mentre i partiti si
dividevano sull'opportunità di trattare il rilascio dell'uomo politico, ma
fu tutto inutile: il 9 Maggio 1978, il cadavere del leader democratico
venne trovato riverso nel bagagliaio di un auto posteggiata in via
Caetani, a Roma, non lontano dalle sedi del Pci e della Dc.
Guadagnata visibilità dal delitto Moro, l'offensiva terroristica sviluppò
la sua strategia della violenza per tutto il 1979; ma iniziò anche una
strategia più efficace da parte dello Stato, che per esempio incoraggiò
il pentitismo, riducendo le pene in cambio di collaborazione. Sebbene
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sconvolta dalla follia terroristica, l'Italia di quegli anni manteneva un
grande dinamismo sociale,e la stessa spinta riformista dei governi
sembrò beneficiare dell'intesa tra maggioranza e opposizione. A tale
riguardo, anno cruciale fu il 1978; fu varata la legge sull'equo canone,
( l. 27 Luglio 392/1978) che fissava criteri più giusti per la
determinazione degli affitti delle case; venne creato il Sistema
sanitario nazionale, con l'abolizione delle vecchie mutue differenziate
e l'estensione dell'assistenza medica a tutti i cittadini. Con la legge 180
( c.d. Legge Basaglia) si chiudevano gli ospedali psichiatrici: per la
cura delle malattie mentali si limitavano i ricoveri e si puntava su
presidi medici territoriali. Fu, infine, approvata, dopo un lungo e
travagliato cammino parlamentare, la legge che legalizzava l'aborto, (
l. 22 Maggio 194/1978) stroncando, così, la piaga dell'aborto
clandestino: alla donna veniva data la possibilità di interrompere
legalmente la gravidanza nelle strutture sanitarie pubbliche.
Sicuramente più incerto era il panorama politico. Dopo la morte di
Moro, l'unico uomo della Dc che avrebbe potuto gestire la fase del
“compromesso storico”, il dialogo tra le forze di centro e di sinistra
comunista lentamente si esaurì: con la richiesta del Pci di entrare
nell'esecutivo, e il netto rifiuto da parte della Dc, si chiudeva l'epoca
della “solidarietà nazionale” e ricominciava l'instabilità politica. Gli
anni settanta segnarono un punto di svolta anche nella condizione
delle donne e nella loro collocazione nella società; il lungo cammino
dei movimenti per i diritti politici, giuridici e civili delle donne,
iniziato nel lontano 1848 negli Stati Uniti, raggiunse il suo culmine,
prima negli anni sessanta, dove si misero in primo piano i diritti
sociali e civili delle donne, e poi negli anni settanta con l'introduzione
del concetto di differenza sessuale, dove il femminismo superò
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l'orizzonte emancipazionista della parità dei diritti: la tematica
dell'uguaglianza venne, infatti, rifondata a partire non più dalla
semplice esistenza di due diversi soggetti ( uomini e donne), ma dal
riconoscimento e dalla valorizzazione delle differenze di cui ognuno
era portatore. La distinzione dei sessi non doveva più essere
fondamento di una gerarchia di ruoli e funzioni che poneva
costantemente la donna in svantaggio rispetto al suo compagno, in
famiglia e al lavoro; lo slogan, infatti, che accompagnava il
movimento è “ io sono mia” che ben esprimeva il rifiuto
dell'appartenenza o della dipendenza da chiunque, sia esso l'uomo, i
figli o la società. Le femministe italiane potevano invocare in aiuto la
stessa Costituzione: all'art. 3 essa afferma la pari dignità sociale di
tutti i cittadini e la loro uguaglianza davanti alla legge, tra le altre cose
“senza distinzioni di sesso”. Ancora più esplicito è l'art 37 I comma:
“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse
retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono
consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e
assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.”
La Costituzione era, in realtà, assai avanti rispetto alle tradizioni
culturali e alle usanze del Paese che l'aveva espressa; il movimento
femminista aveva, quindi, ragione nel sostenere la sua battaglia contro
la discriminazione sessuale. Puntava ad un pieno egualitarismo e lo
faceva in maniera assai rumorosa: i cortei femministi degli anni
settanta, con le grandi gonne, gli abiti colorati, gli slogans e le danze
di piazza, rimangono tra le immagini più vivide e suggestive di quel
periodo. E dato che si trattava di un'epoca intrisa di ideologia e
politica, ecco fiorire anche in Italia la mistica femminista, la filosofia
femminista, l'invito a “partire da sè”, il desiderio di riappropriarsi del
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proprio corpo, in opposizione al ruolo di madre e al destino biologico
della procreazione. Il movimento femminista comportò una grande
trasformazione che travolse la società italiana; basti pensare alla legge
sul divorzio ( l. 1 Dicembre 898/1970), alla riforma del diritto di
famiglia ( l. 19 Maggio 151/1975), all'istituzione dei consultori
familiari, alla legge sulle pari opportunità, alla liberalizzazione dei
contraccettivi, alla costituzione dei Centri antiviolenza e alle Case
delle donne e all'approvazione della legge che regola l'aborto. Come
già ricordato in apertura, gli anni settanta sono molto significativi
anche per il diritto e, soprattutto, per il diritto del lavoro; in quegli
anni, infatti, giunge a maturazione il processo di revisione e
arricchimento metodologico degli studi di diritto del lavoro e
sindacale. Dopo un lungo periodo di egemonia delle metodologie
civilistiche, gli anni settanta registrarono una proficua apertura a
approcci sociologici e di politica del diritto, idonei a vivificare le
operazioni interpretative e ricostruttive dei giuslavoristi; gli strumenti
della dogmatica tradizionale e la tecnica della sistemazione
concettuale apparivano insufficienti a fotografare e decifrare, da soli,
il diritto del lavoro in una fase di grande fermento sociale e di
accelerato mutamento. Come ogni disciplina a stretto contatto con
significative vicende sociali ed economiche, la materia reclamava
dagli interpreti una profonda conoscenza dei fatti e contesti oggetto di
disciplina, nonché una particolare consapevolezza della ratio politica
ispiratrice delle norme. Questa feconda attenzione al sostrato fattuale,
storico e politico, quale indispensabile premessa e arricchimento del
momento ermeneutico, fu, però, guardata con sospetto dalla dottrina
tradizionale; e non sempre ingiustificatamente, perchè, una volta
allentato il legame con le categorie giuridiche e le loro coordinate
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concettuali, si dilatava il rischio di operazioni interpretative disinvolte
o ipotecate dal dato ideologico o volte a normativizzare i fatti nel loro
spontaneo divenire. Nonostante ciò, l'attenzione ai “fatti” è rimasto
tratto caratterizzante della migliore pubblicistica giuslavorista. Gli
anni settanta, con i loro fermenti socio-politici e i loro stimoli
culturali, sono anche gli anni in cui nascono o si consolidano
significative esperienze associative a ridosso dei problemi giuridici del
lavoro, esperienze che concorrono a dare alla materia una autonoma
identità scientifica e accademica ( ad es. l'Aidlass- Associazione
Italiana Diritto del Lavoro e della Sicurezza Sociale-), vengono
pubblicati i primi manuali ad uso didattico del “nuovo” diritto del
lavoro, i Commentari dello Statuto dei lavoratori, le raccolte di saggi e
numerosi trattati. Il mio lavoro è dedicato agli eventi, ritengo, più
importanti e significativi di quegli anni, nonché ad uno dei Maestri del
giuslavorismo italiano, di grande levatura e fascino intellettuale,Gino
Giugni, scomparso a Roma il 5 Ottobre 2009. Il primo capitolo
riguarda lo Statuto dei lavoratori, approvato con la l. 20 Maggio
300/1970 ( “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori,
della libertà sindacale e nell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e
norme sul collocamento”) che costituisce l'architrave del
giuslavorismo in Italia. Ne ho analizzato i presupposti storici, giuridici
e filosofici, fornendo anche un'analisi dettagliata del concetto di
“lavoro”; mi sono soffermata sulla disputa che precedette
l'approvazione della legge tra i sostenitori della linea “promozionale”
e “costituzionalista”, sull' obiettivo della nuova legge, quale quello di
rendere effettivi nei luoghi di lavoro i diritti sanciti in astratto nella
Carta costituzionale, di rafforzare i diritti individuali del lavoratore
all'interno dell'azienda ( diritto di manifestazione del pensiero, diritto
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alla reintegrazione nel posto di lavoro, divieto di controlli occulti e
odiosi); ho approfondito l'analisi degli art 1 e 18 St. lav.( quest'ultimo
oggetto di referendum nel 2003), norme di base del “nuovo” diritto del
lavoro e, infine, sulle reazioni e, addirittura, critiche che
l'approvazione dello Statuto sollevò. Il secondo capitolo della tesi è,
invece, dedicata alla riforma del processo del lavoro ( l. 11 Agosto
533/1973) che introduce una nuova disciplina per le controversie
individuali di lavoro e che ha integralmente sostituito il Titolo IV del
Libro II del codice di procedura civile. Ho analizzato, per prima cosa,
il processo del lavoro prima del 1973, soffermandomi sui Collegi
probivirali per poi arrivare a trattare ampiamente i caratteri del nuovo
processo del lavoro; un processo, innanzitutto, basato sui principi di
chiovendiana memoria dell'oralità, dell'immediatezza e della
concentrazione e finalizzato a garantire una tutela giurisdizionale
“differenziata” rispetto all'ordinario processo civile, proprio in
considerazione dell'esigenza di garantire maggiormente in termini di
effettività le situazioni soggettive di cui è titolare il lavoratore
subordinato. Da ciò ho approfondito l'analisi del nuovo art 409 c.p.c.
e del nuovo concetto di “parasubordinazione” per poi concludere il
capitolo con un bilancio sulla ricaduta che questa legge ha avuto nella
gestione delle controversie di lavoro. Con il terzo capitolo mi occupo
di quella particolare fase del diritto del lavoro, definita “diritto del
lavoro della crisi o dell'emergenza”diretta ad attutire, ad ampio raggio,
le conseguenze delle avverse fortune economiche che segnarono una
decisiva inversione del diritto del lavoro. Mi sono soffermata, in
primis, sulle caratteristiche dell'abbondante legislazione del biennio
1977-78, sugli interventi volti ad abolire le c.d. scale mobili che
determinavano l'automatico adeguamento della retribuzione dal
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lavoratore dipendente alle variazioni del costo della vita, alimentando
fenomeni inflattivi; ho analizzato accuratamente la legge sulla
riconversione industriale ( l. 675/1977) e sue successive modifiche
operate con il d.l. 795/1978, l'Accordo interconfederale del Gennaio
1977 e, infine, la nuova disciplina dell'indennità di anzianità che
determina l'aumento della retribuzione in relazione all'anzianità di
servizio nella medesima azienda con il quadro politico-sindacale di
riferimento. Da ultimo, ma non per ultimo, il quarto capitolo, che vuol
essere una sorta di omaggio ad uno dei protagonisti degli anni settanta,
e non solo, un autorevole “attore”dei nostri tempi: Gino Giugni. In
occasione della sua recente scomparsa, mi è sembrato doveroso
dedicare a questo illustre protagonista del giuslavorismo una parte
del mio lavoro; fornire una dettagliata, sia pur inserita in poche righe,
descrizione della sua biografia, del suo progressivo avvicinarsi al
diritto del lavoro, dei suoi innumerevoli incarichi universitari e
politici, del suo pensiero e del suo insegnamento. Tra i suoi maggiori
incarichi, è noto, soprattutto, quello di Presidente della Commissione,
formata dai più noti giuslavoristi del tempo, istituita da Brodolini per
redigere lo Statuto dei lavoratori; e per questo è ricordato e,
naturalmente, omaggiato come il Padre dello Statuto dei lavoratori. In
occasione della sua morte, avvenuta il 5 ottobre scorso, molti sono
stati i messaggi di cordoglio da tutto il mondo politico e, come ha
annunciato il ministro del Welfare Sacconi, una delle sedi del
ministero del Lavoro porterà il suo nome.
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Capitolo I
LO STATUTO DEI LAVORATORI: LEGGE 20 MAGGIO 1970
N. 300
1.1 PREMESSE STORICHE, GIURIDICHE E FILOSOFICHE
DELLO STATUTO DEI LAVORATORI.
Nel secondo dopoguerra, l'esigenza di una strutturazione del nostro
Paese, uscito dalle macerie della dittatura fascista, si è fatta
impellente, così come una chiara regolazione dei rapporti intercorrenti
fra il padronato e la classe lavoratrice; questa era priva di ogni tutela
ed ancora sotto il giogo di una struttura corporativistica, erede del
Regime, che non si addiceva alla nuova veste democratica della
Repubblica nascente. Questa esigenza nasce, soprattutto, dalla grande
trasformazione della produzione italiana fra gli anni '50 e '60, quando
si ebbe il cosiddetto “ miracolo economico”, con il netto passaggio
dell'Italia nel novero dei paesi più industrializzati e con un processo
imponente di trasformazione sociale; ci fu, infatti, l'abbandono delle
campagne e una forte migrazione dal Sud nelle aree industrializzate
del Nord, per cui il lavoro della terra va in crisi e il lavoratore, che
fino a quel momento era addetto prevalentemente all'agricoltura,
diventa operaio, riempendo le strutture, costantemente in crescita, di
grandi, piccole e medie aziende industriali ubicate soprattutto nel
Nord Italia. Nonostante questi profondi cambiamenti, il lavoratore
continuava ad essere privo di garanzie e di tutela; molti subivano dagli
imprenditori ancora gravi discriminazioni, rischiando, non di rado, il
licenziamento. I pesanti ritmi di lavoro e le scarse norme di sicurezza
nelle fabbriche e nei cantieri rendevano, inoltre, il lavoro duro, nocivo
e spesso pericoloso. La voglia di migliorare la propria posizione