Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
5
dall’altro. In altre parole, il lento fluire del tempo, che governa
ogni opera cechoviana, mal si incontrava con una tradizione
teatrale che considerava il “movimento”, l’”azione” una delle
principali caratteristiche che ogni rappresentazione doveva
possedere Per queste ragioni l’autore russo non fu pienamente
compreso al suo primo incontro con le scene italiane.
Per arrivare ad un approfondimento dell’arte di Cechov in Italia,
sarà necessario attendere le rappresentazioni di Pietro Sharoff del
1932 con Zio Vanya e di Tatiana Pavlova del 1933 con Il giardino
dei ciliegi .
Questi eventi, insieme ad una maturazione delle esigenze dello
spettacolo, indussero a riconsiderare l’opera cechoviana. Da allora
in poi Cechov fu interamente offerto all’interpretazione dei registi
italiani, con la possibilità di ricrearne l’opera secondo la
sensibilità del tempo attuale.
Claudio Meldolesi spiega come negli anni ’50 in Italia il teatro
registrò l’affermazione della regia critica.
2
La regia critica nacque
nella forma di un compromesso fra la pratica del regista
allestitore, che mirava a spettacoli di ampia orchestrazione, che
restituissero con evidenza stilistica i valori del testo, e la pratica
del regista artista, impegnato a svolgere il suo filo espressivo, un
suo spettacolo ideale, ora forzando, ora dilatando i valori testuali.
I suoi ideatori, Strehler, Visconti, Squarzina, De Bosio, erano
animati da un forte desiderio di rinnovamento. Volevano che la
regia rompesse con il teatro di atmosfera, che diventasse portatrice
di senso critico nel presente degli spettatori.
2
Claudio Meldolesi, Fra Totò e Gadda, sei invenzioni sprecate dal teatro
italiano, Roma, Bulzoni, 1987
Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
6
<<Tutto è molto diverso da quando debuttammo noi, registi e
attori. Quando noi lo aggredimmo, con le nostre idee e le nostre
iniziative spesso considerate folli, il teatro italiano era ancora la
conseguenza diretta di quello ottocentesco. Prima di noi,
certamente, qualche tentativo di ammodernamento c’era stato: il
teatro di Pirandello all’Odescalchi, il lavoro della compagnia di
Niccodemi e poi di altre formazioni, come quella di Salvini, che
però avevano avuto una vita assai breve. Ma in generale il livello
era bassissimo, negli allestimenti come nella recitazione. Per quel
che riguardava i testi, era un teatro autarchico, compromesso,
provinciale. Credo che ormai si possa dire senza offendere
nessuno: era un teatro di approssimazione. Sì, naturalmente
c’erano gli attori veri. Basta pensare a Benassi, a Cervi, alla
Pagnani, alla Morelli, a Ruggeri, a Ricci, alla Ferrati. Tutta
gente piena di talento e di mestiere. Ma che aveva, anch’essa, un
estremo bisogno d’esser inquadrata in una visione del teatro più
ordinata, più disciplinata e cioè più culturale(.. .) Cos’è stato il
teatro finora? Uno svago da prendere in posizione digestiva, un
dopocena, riservato per lo più a poche migliaia di clienti di un
certo ceto, in un paese dove quasi cinquanta milioni di persone
non ne hanno mai saputo nulla o quasi. Adesso mi pare che
questo genere di spettacolo si stia smitizzando un poco. Ma non è
tanto il pubblico che lo sta scoprendo. Piuttosto è il teatro che sta
scoprendo il suo vero pubblico.
Vent’anni fa lo sapevamo già, tutto questo, sia pure in maniera un
po’ più vaga. E se oggi un progresso comincia a esserci, sono
convinto che lo si deve anche al nostro lavoro. Voglio dire al
lavoro di poche persone che subito dopo la guerra iniziarono in
teatro un discorso coerente ed appassionato: Strehler, Orazio
Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
7
Costa, Ettore Giannini e io. Bene o male, siamo stati noi a fare il
nuovo teatro. E mi pare che oggi i risultati più solidi e chiari
abbiano tutti alle spalle una fatica lunga e costante.
Quali sono i fatti più importanti ed incoraggianti della stagione?
A Milano, Strehler ha presentato il suo Gioco dei potenti, questa
specie di summa delle sue esperienze scespiriane . Io ho
presentato a Roma un Cechov che è sembrato completamente
nuovo al pubblico. Dopo di me è venuto Giannini, e il suo ritorno
alle scene di prosa, dopo una assenza tanto lunga, è un fatto pieno
di interesse. Anche il suo Mercante di Venezia continua un
discorso cominciato più di vent’anni fa. Poi c’è lo spettacolo di
Giorgio De Lullo, che io considero un mio allievo. Il suo Gioco
delle parti mi pare una straordinaria rivalutazione critica di
Pirandello (…) >>
3
.
Questa lunga parentesi non si allontana dal tracciato del nostro
discorso, quello sull’esordio di Cechov nel teatro italiano, anzi,
serve a comprendere in che modo i registi italiani affacciatisi
nell’immediato dopoguerra, che misero in scena le opere
cechoviane, iniziarono un discorso coerente ed appassionato,
“svegliando” lo spettatore, abituato ad un teatro inteso come
svago, ed invitandolo a considerare con sguardo critico l’opera e
la sua messinscena.
Nell’arco della sua attività registica teatrale, Luchino Visconti
portò sulla scena tre opere di Cechov: Tre sorelle, Zio Vanja, e Il
giardino dei ciliegi.
3
Luchino Visconti, Vent’anni di teatro, ne “L’Europeo”, nn. 13 e 14, 1966
Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
8
Il regista stesso dichiarò più volte, nel corso delle sue interviste,
quanto fossero profondi l’amore e la considerazione per l’autore
russo:<<(…)Nella mia carriera teatrale, ci sono due elementi di
uguale importanza. Il primo è il teatro di Cechov, che ho
affrontato relativamente tardi, per deferenza. Cechov è l’autore
che io considero il più grande, accanto a Shakespeare e
Verdi(…)>>.
4
<<(…)Mi interessa soprattutto lavorare con esseri umani, cercare
nel fondo di un’anima la verità che essa tenta di esprimere: quella
dell’autore, dei personaggi, degli attori che li interpretano, del
pubblico (…)E’ Cechov il più grande scrittore di teatro moderno e
la sua influenza, la sua impronta è riconoscibile anche nel cinema
realistico italiano. La sua posizione è moderna, e la sua
concezione realistica della vita gli deriva anche dall’essere stato
medico e per tale ragione portato a sezionare l’animo umano sin
nelle più riposte pieghe e a frugare nell’animo dei personaggi
senza disegni ambiziosi>>.
5
Alla luce di queste dichiarazioni, è sembrato quasi naturale,
quindi, approfondire l’incontro di Luchino Visconti con Cechov,
secondo una prospettiva che li vede uniti nell’impegno a rendere
testimonianza, nel bene e nel male, della loro ricerca sull’uomo e
sulla società.
4
Luchino Visconti in “La table ronde”, maggio 1960
5
Luchino Visconti, Io, Luchino Visconti, in Pio Baldelli, Luchino Visconti
Milano, Mazzotta, 1973, p.337
Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
9
L’intento di quest’analisi è stato quello di ricostruire, mettendone
in luce i momenti più significativi, i processi compositivi che
portarono Visconti alla realizzazione dei tre spettacoli; a questo
scopo, oltre che sui testi e sui saggi critici, questa ricerca si è
basata sui materiali di documentazione custoditi alla Fondazione
Visconti, presso l’Istituto Gramsci di Roma; per quanto riguarda
l’allestimento de Il giardino dei ciliegi, inoltre, sono stati
consultati i materiali di documentazione presenti al Centro Studi
del Teatro Argentina di Roma e al Centro Studi Giancarlo
Sbragia; è stato possibile, inoltre, consultare l’Archivio Guerrieri
custodito presso il Dipartimento di Italianistica e Spettacolo,
Sezione di Spettacolo, dove sono presenti appunti, lettere,
materiali di documentazione indispensabili per comprendere il
lavoro preliminare di studio e di ricerca compiuto da Visconti e
Guerrieri per gli allestimenti degli spettacoli. Inoltre, molto utili ai
fini di questa ricerca sono risultate le testimonianze degli attori
che parteciparono ai tre spettacoli, rendendo possibile un
approfondimento sullo studio di Visconti regista teatrale e del suo
metodo.
Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
10
INTRODUZIONE
- Parte Prima
Le prime rappresentazioni dell’opera di Cechov in Italia
L’esordio teatrale di Cechov in Italia risale al 22 agosto 1922,
quando la compagnia Palmarini-Campa-Capodaglio rappresenta
per la prima volta Zio Vanya al teatro Olimpia di Milano.
6
Le recensioni critiche dell’epoca mostrano con quante riserve
fosse stato accolto quest’autore, allora pressoché sconosciuto nel
teatro italiano: << Questi quattro atti di Anton Cechov, che ora
tediano, ora interessano, ora ci deludono, ora ci riprendono,
mancano certo di potenza, ma non di umanità. L’umanità, cercata
dall’autore in caratteri che si degradano, in sensibilità che si
alterano, in coscienze che si intorbidano e si decompongono, è
come dispersa, fluida, imprecisa; non riesce a raccogliersi in
figure artistiche che abbiano o una limpida evidenza o un valore
universale; ma con lenti procedimenti, con successione di
particolari talvolta monotoni, talvolta imprudentemente
sgradevoli, finisce a palpitare nell’aria, a creare una grigia
atmosfera, nella quale i personaggi tremano come ombre
dolorose...(…)>>. E’ questo il commento di Renato Simoni
6
Raul Radice, Come i nostri registi e attori hanno presentato in Italia l’opera di
Cechov, in AA.VV.Goldoni nel teatro russo, Cechov nel teatro italiano, Roma,
Atti dei Convegni Lincei, 1976, p.152
Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
11
apparso sul “Corriere della Sera” del 23 agosto 1922, che
concludeva la sua analisi con la seguente affermazione: << Certo
l’opera d’arte non é riuscita...>>, presumibilmente dettata dalla
mediocre accoglienza degli spettatori, completamente impreparati
a intendere un testo di tal genere. Delle reazioni del pubblico a
questa prima, troviamo una più precisa descrizione in Ettore
Albini
7
: << (…)Sarebbe stato sorprendente se il pubblico
dell’Olimpia avesse fatto buon viso a questo Zio Giovanni , tanto
sconcertante nella sua apparente semplicità di dialogo e d’azione,
che nasconde una così ricca vena di sottili e complessi sentimenti,
tipi e figure accennate appena, ma così varie ed ingegnose. Non
furono infatti di atto in atto scarse le risa, i motteggi, le proteste
(…)>>.
A Zio Vanya segue la rappresentazione che Virgilio Talli diede al
teatro Manzoni di Milano de Il gabbiano, il 13 aprile 1924;
malgrado gli venga riconosciuta una messinscena apposita e bella
ed un’esecuzione ben curata, dove spiccò l’eccellente prestazione
di una Marta Abba esordiente, il teatro cechoviano risulta ancora
di difficile comprensione. Ciò risulta evidente nelle parole di
Marco Praga che ritroviamo nel resoconto settimanale dedicato da
“Illustrazione Italiana” alle attività dei teatri
milanesi:<<(…)Rimaniamo per così dire in Russia e diciamo
qualcosa de Il Gabbiano che Virgilio Talli ha portato con tutti gli
onori alla ribalta del Manzoni. Diciamone qualcosa, sì, non
molto; chè, questione di spazio a parte, non mi pare valga la
pena. Molti di questi così detti capolavori russi appaiono oggi a
noi delle ben misere cose! E Il gabbiano é di essi. Trenta o
quarant’anni or sono- non so bene - quando questo dramma fu
scritto, poté apparire in Russia un’opera di primo ordine di un
7
“Goldoni nel teatro russo, Cechov nel teatro italiano” cit., p.153
Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
12
valore e di un significato eccezionali; ma non credo che tale
possa apparire a noi oggi. Per noi quest’arte é
sorpassata(…)L’azione del Gabbiano potrebbe essere trasportata
altrove che in Russia con mutamenti minimi(…)>> .
Il 1924 é anche l’anno in cui approda sulle scene italiane Il
giardino dei ciliegi, presentato dalla compagnia di Maria Melato;
questo “doppio incontro” con Cechov non ne agevola la
comprensione, anzi, viene giudicato come una mancanza, da parte
dei capocomici italiani, di senso della misura e della opportunità.
Scrive Ettore Albini il 17 maggio dello stesso anno
8
:<<Cechov
non è autore da ingozzarcene; va spaziato un poco (...) E’
mirabile di finezze e di sensibilità, ma alquanto grigio, uguale,
monotono (...) Nel nostro teatro, che va da un fastoso
romanticismo a un verismo talvolta piatto, grossolano, quel suo
realismo spiritualizzato dà una nota caratteristica che è tutta sua
(...) E’ un osservatore prodigioso (...) Ma non bisogna
abusarne>>.
Appaiono delle riserve riguardo l’interpretazione nella recensione
del Simoni su “Il corriere della Sera”, il 17 maggio 1924 : <<La
commedia fu rappresentata nella eccellente traduzione di Carlo
Grabher. L’interpretazione fu accurata, piena di dignità e di buon
gusto, ma non mi parve semplice, significante, poetica come
avrebbe dovuto essere. Occorreva ottenere una suggestione che
non fu raggiunta. Molti tratti parvero o inutili o prolissi o infantili
perché non si è trovata quell’unità di stile, quella perfezione
sobria e netta di espressione che l’opera richiedeva. Il pubblico
ascoltò con grande attenzione, applaudì con rispetto, ma senza
entusiasmo>>.
8
AA. VV., Goldoni nel teatro russo, Cechov nel teatro italiano, cit. p.154
Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
13
Cosa aveva impedito a Maria Melato ed agli attori della sua
compagnia, Ernesto Sabbatini, Margherita Bagni, Renzo Ricci,
primi interpreti de Il Giardino dei ciliegi , di entrare nello spirito
della commedia e farne partecipe il pubblico?
L’introduzione di Cechov sui palcoscenici italiani risentiva delle
manchevolezze e dei ritardi del teatro capocomicale, al quale va
tuttavia riconosciuto, qualora se ne escluda Virgilio Talli, di avere
affrontato a proprio rischio una drammaturgia per risolvere i cui
problemi era insufficientemente preparato. Tanto a Zio Vanya del
1922 quanto a Il giardino dei ciliegi del 1924 era mancata l’opera
coordinatrice di un regista.
A cavallo degli anni Trenta, in Italia, il regista non ha ancora un
nome. Secondo quanto afferma Paolo Puppa
9
, la difficoltà
dell’introduzione di questa figura nei palcoscenici italiani sarebbe
comprovata proprio dalla precarietà dello stesso statuto lessicale:
non ancora legittimato, il regista occupa uno spazio inesistente
nelle locandine e nelle retribuzioni. Le sue funzioni vengono
svolte, infatti, da altri, confusi e mescolati con la vecchia pratica
del capocomicato. Avanzano, quali lemmi candidati a definirne il
ruolo ancora impreciso, il regisseur e il “direttore di scena”,
l’”apparatore”, e il metteur en scene, tutti sinonimi dell’incerta
collocazione semantica.
Si potrebbe affermare che il primo vero contributo alla
comprensione e all’approfondimento dell’arte di Cechov viene
“importato” dalla Russia, dal Teatro d’Arte di Mosca
10
: Pietro
Sharoff che allestisce nel 1932 Zio Vanya per la compagnia di
9
Paolo Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Bari, Laterza. 1993,
p.4
10
Ettore Lo Gatto, Importanza e significato letterario del teatro di Cechov
secondo la critica italiana in AA. VV., Goldoni nel teatro russo, Cechov nel
teatro italiano, cit., pp.104-105
Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
14
Kiki Palmer e Tatiana Pavlova che l’anno successivo presenterà
un mirabile Giardino dei cilegi, allestito con la direzione del
regista che aveva collaborato alla sua prima rappresentazione nel
Teatro d’Arte di Mosca, Nemirovic-Dancenko. Si tratta di due
teatranti residenti in Italia ed entrambi cresciuti alla scuola o
comunque sulla scia di Stanislavskj.
Questi eventi inducono a riconsiderare l’opera di Cechov con
occhi nuovi che, da un lato, guideranno i registi italiani ad una più
profonda e consapevole meditazione sull’autore russo e, dall’altro,
aiuteranno la critica ad abbandonare atteggiamenti preconcetti che
rischiavano di travisare il senso dell’opera.
Dopo la rappresentazione de Il giardino dei ciliegi avvenuta a
Roma il 15 marzo 1933 e allestita dalla compagnia di Tatiana
Pavlova, Silvio D’Amico scrive
11
:
<<Se dicendo teatro, tanto per metterci su un piano di intesa
molto pratico, si vuol significare quell’arte per cui l’autore
dispone i pezzi del suo gioco in modo che essi assumano più che
mai il loro intero valore dalla prospettiva della ribalta, pochi
autori sono teatrali quanto Cechov; i cui drammi attendono tutti,
da una predisposta integrazione scenica, l’ultimo tenue rilievo
alla vita intima d’ogni loro creatura e la rivelazione di quelle
linee mitemente armoniose, che alla lettura rimangono sempre un
po’ sfocate e confuse.>>. D’Amico stesso, del resto, aveva già
parlato dell’ “essenziale teatralità” di Cechov in occasione della
precedente rappresentazione de Il giardino dei ciliegi del 1924,
dove <<un’interpretazione scenica volenterosa ma inadeguata
11
Raul Radice, Come i nostri registi e attori hanno presentato in Italia l’opera di
Cechov, cit., p.155
Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
15
della compagnia di Maria Melato>> aveva impedito che la
grande arte dell’autore raggiungesse il pubblico.
D’Amico svolse un importantissimo ruolo nel processo di
introduzione e comprensione dell’opera cechoviana, allorquando
se ne davano le prime rappresentazioni in Italia, con tutte le
riserve e diffidenze che a queste si accompagnavano. Egli volle
sottolineare più e più volte che non era Cechov a mancare di
qualità teatrali, come qualcuno andava sostenendo, ma era
un’adeguata interpretazione da parte dei primi attori italiani che
non si riusciva a raggiungere: <<Tra il 1910 e il 1920- D’Amico
scrive su “Il Tempo”, in occasione della messinscena viscontiana
di Tre sorelle, il 22 dicembre 1952- si discuteva sulla cosiddetta
teatralità di Cechov, e si sentivano persone sentenziare :”roba da
leggere, rappresentata non regge”. Fin d’allora, noi ci
permettevamo di rispondere con opposta sentenza che pochi
drammaturghi al mondo erano e sono così poco leggibili come
Cechov, essendo i suoi drammi concepiti costituzionalmente per
la scena; essendo, anzi, talmente fondati sopra una tecnica
scenica, da non poter arrivare alla loro compiuta espressione se
non grazie al disegno, al contrasto e al clima, messi in valore da
una adeguata interpretazione teatrale. E’ questa che i nostri
vecchi attori, usi a tutt’altra tecnica, non riuscivano a dare; e tutti
ricordiamo i loro primi non felici saggi, tentati con altri lavori dal
nostro poeta...>>. Raul Radice
12
, illustrando quante resistenze
avesse incontrato Cechov in occasione delle prime
rappresentazioni italiane, spiegò che, nonostante Pirandello,
nonostante i Sei personaggi in cerca d’autore fossero già venuti
alla ribalta, continuava a pesare sul teatro italiano il clima del
teatro verista, non solo, ma quel clima si era via via più degradato
e da esso sortivano norme ed indirizzi cui sottostavano la quasi
12
R. Radice, Come i registi nostrani hanno rappresentato in Italia l’opera di
Cechov, cit., p.151
Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
16
totalità degli attori italiani, nonché la maggior parte degli
spettatori.
Fra tali norme, al “movimento”, alla cosiddetta “azione” spettava
il posto d’onore. Diventa chiaro, quindi, come a Sabatino Lopez
13
dovesse risultare << monotona, grigia, stagnante>> la
rappresentazione dei Pitoeff di Tre sorelle, nel marzo 1929,
proprio perché priva di movimento.
E’ stato importante soffermarsi così lungamente sulle critiche e
reazioni del pubblico a queste prime rappresentazioni cechoviane,
perchè altrimenti non sarebbe possibile mettere in evidenza come i
registi italiani che si affacciarono nell’immediato dopoguerra, e
che vollero mettere in scena Cechov, si distanziarono dalla
tradizione precedente, e diedero ognuno una propria lettura ed
interpretazione.
Strehler al Piccolo Teatro di Milano, Luchino Visconti a Roma,
Orazio Costa (fondatore del Piccolo Teatro di Roma, di sei anni di
durata), Luigi Squarzina, Gianfranco De Bosio: nomi che
resteranno, chi più chi meno famoso, ma che negli anni
dell’immediato dopoguerra realizzavano un teatro capace di
commuovere attraverso l’intelligenza e la precisione critica; grazie
alla “generazione dei registi” degli anni Cinquanta, l’Italia, che
non era mai stata all’avanguardia nel campo della messinscena e
della regia, diventava un punto di riferimento.
Per indicare la crescente attrazione dei registi italiani nei confronti
dell’opera cechoviana da questo momento in poi, sarà eloquente
dare, come inconfutabile testimonianza, un’elencazione
riassuntiva delle rappresentazioni.
13
Sabatino Lopez in “Illustrazione Italiana”, marzo 1929
Gli allestimenti cechoviani di Luchino Visconti
17
Per quanto riguarda Zio Vanya, alle rappresentazioni di Uberto
Palmarini del 1922 e di Pietro Sharoff del 1932, seguono quella di
Luchino Visconti con la compagnia Morelli-Stoppa nel 1955 e di
Giulio Bosetti con la compagnia dello Stabile di Trieste nel 1970.
A Il gabbiano, rappresentato per la prima volta nel 1924 sotto la
direzione di Virgilio Talli, seguì l’allestimento di Giorgio Strehler
nel 1948 al Piccolo Teatro di Milano, i cui interpreti principali
furono Anna Proclemer, Lilla Brignone e Giorgio De Lullo.
Successivamente Il gabbiano apparve alla Cometa di Roma, nel
1960, diretto da Mario Ferrero e interpretato da Andreina Pagnani,
Gianni Santuccio, Giuliana Lojodice e Giulio Bosetti; degne di
nota anche le rappresentazioni rispettivamente di Franco Enriquez
nel 1967 al Teatro Stabile di Torino e di Fantasio Piccoli nel 1973
a San Babila di Milano.
La prima rappresentazione di Tre sorelle risale al 1941 e resta
legata al nome della giovane regista Vanda Fabro,
prematuramente scomparsa, ed agli attori della seconda
compagnia dell’Accademia d’arte drammatica: Ave Ninchi,
Miranda Campa, Adriana Siveri, Tino Carraro e Marcello Moretti.
Ad essa hanno fatto seguito le seguenti edizioni: nel 1952 al
Teatro Eliseo di Roma, per la regia di Luchino Visconti con Sarah
Ferrati, Rina Morelli, Paolo Stoppa, Elena Da Venezia, Rossella
Falk, Memo Benassi, Giorgio De Lullo e Sandro Ruffini; nel
1965, la Compagnia dei Giovani diretta da Giorgio De Lullo ed,
infine, nel 1974, alle Arti di Roma, la rappresentazione di Tre
sorelle di Orazio Costa.