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INTRODUZIONE
Il presente elaborato è frutto della ricerca in merito ai profondi cambiamenti che
hanno interessato il tessuto produttivo italiano, e in particolare il sistema delle
piccole e medie imprese. Il fenomeno della globalizzazione ha determinato la
caduta delle frontiere e delle barriere economiche, ridefinendo l’idea stessa di
competizione e di presenza sui mercati. La distinzione tra mercati locali e
internazionali è diventata labile e appartenente a una visione superata del mondo.
Le PMI hanno dovuto reinventarsi, aumentando la capacità innovativa e la stessa
dimensione geografica. La recente crisi economica ha comportato la chiusura di
molte piccole realtà imprenditoriali del nostro Paese, ma per molte altre essa ha
rappresentato la straordinaria opportunità di proseguire ed espandere la propria
attività. Storicamente, una parte rilevante delle PMI italiane ha considerato la
scelta internazionale come un’opportunità unica di crescita e sviluppo, sebbene
altre non avessero le competenze necessarie a intraprendere questo percorso.
Oggi, l’internazionalizzazione non è più un’opzione, bensì la condizione primaria
per la sopravvivenza e lo sviluppo delle PMI. Il successo delle imprese, in un
mondo che richiede un continuo avanzamento dei processi innovativi, è
determinato non solo dallo spirito e dalla qualità del progetto imprenditoriale, ma
anche dalla collaborazione degli attori istituzionali, finanziari e del mondo
accademico: la capacità di “fare squadra” è divenuta un requisito essenziale nella
ricerca della competitività su scala globale.
L’elaborato si propone di analizzare lo strumento del contratto di rete, e le sue
implicazioni nei processi di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese
italiane. L’innovazione apportata dal contratto nella materia delle forme di
aggregazione tra imprese ha comportato un interesse crescente da parte del mondo
accademico e imprenditoriale attorno a questo strumento. L’argomento trattato è
di stretta attualità, e ridefinisce la cornice e le modalità con cui le PMI italiane
possono intraprendere un percorso di espansione estera. L’obiettivo dell’elaborato
è dimostrare le potenzialità del contratto di rete, strumento flessibile e strategico,
all’interno dei processi di internazionalizzazione. Questo lavoro di ricerca si
compone di tre parti: la prima illustra gli effetti della crisi economica e
9
approfondisce le cause e le caratteristiche del fenomeno
dell’internazionalizzazione; la seconda analizza le misure adottate dal legislatore
europeo e nazionale per favorire il recupero di competitività da parte delle PMI
italiane; la terza è un case-study, condotto tramite un’indagine empirica a
supporto della tesi sostenuta nell’elaborato, su RetisMed, gruppo di imprese del
settore biomedicale che ha stipulato il contratto di rete con l’obiettivo di innovare
e internazionalizzarsi. La scelta di adottare un approccio empirico è stata dettata
dalla volontà di indagare e approfondire “sul campo” le conseguenze e gli effetti
del contratto di rete sulla struttura e le finalità perseguite dalle imprese coinvolte.
Nella parte finale dell’elaborato sono presenti i risultati delle interviste al manager
di rete e al Responsabile della stessa, con i quali ho preso contatti grazie alla
preziosa intermediazione di “CNA Innovazione – Emilia Romagna”, impegnata
nel supporto ai processi di sviluppo e internazionalizzazione delle PMI della
regione. Tramite l’indagine empirica è stato possibile cogliere gli elementi
qualitativi, le motivazioni e gli obiettivi legati alla scelta del contratto di rete
come strumento aggregativo e funzionale ai processi d’internazionalizzazione.
Il primo capitolo descrive gli effetti della recente crisi finanziaria sul tessuto
economico italiano, composto principalmente da piccole e medie imprese aventi
le caratteristiche e le dimensioni dell’impresa familiare. La mancanza del
background culturale e delle risorse necessarie a gestire correttamente i processi
interni e gli stimoli ai processi di internazionalizzazione rappresentano l’ostacolo
maggiore alla crescita di queste realtà imprenditoriali. La seconda parte del
capitolo si sofferma sui fattori – interni e esterni – alla base dei processi di
espansione estera e sui vantaggi derivanti dalla presenza di un sistema
istituzionale forte e attento alle esigenze delle PMI.
Il secondo capitolo analizza il fenomeno dell’espansione estera delle PMI,
soffermandosi sulle tre modalità di concepire l’internazionalizzazione: congenita,
progettata o trainata. Nel capitolo si evidenziano inoltre modalità, vantaggi e costi
delle più importanti forme di internazionalizzazione, dalle esportazioni indirette, a
quelle indirette, agli investimenti diretti esteri.
Il terzo capitolo prende in considerazione il ruolo degli accordi strategici nei
processi di internazionalizzazione, le motivazioni e le finalità alla base delle varie
10
modalità di cooperazione tra imprese. In particolare, si analizzano le specificità di
tre tipi di accordi strategici: la joint venture, il licensing e il franchising. Il
secondo paragrafo analizza i vantaggi operativi e rischi connessi agli accordi
strategici. Infine nel capitolo si evidenziano le finalità strategiche i vantaggi
derivanti dal fenomeno aggregativo delle reti di imprese
Il quarto capitolo esamina e commenta in maniera più dettagliata la norma del
contratto di rete, facendo riferimento alle disposizione normative contenute nella
legge 122/2010. Nella prima parte, si descrivono gli strumenti normativi
approntati dal legislatore europeo e nazionale, definendo le caratteristiche del
contratto, e i soggetti e le attività che da esso hanno ricevuto un vantaggio
operativo. In particolare, è stata condotta un’analisi sui quattro aspetti costitutivi
del contratto: il programma di rete, l’organo comune, il fondo patrimoniale e i
vantaggi fiscali associati. Il capitolo si sofferma sui benefici derivanti
dell’emanazione di un rating di rete da parte degli istituti creditizi; inoltre,
vengono evidenziate le criticità e i possibili miglioramenti dello strumento del
Contratto da parte del legislatore.
Il quinto capitolo analizza, nella forma del case-study, la recente costituzione del
contratto di rete biomedicale RetisMed. Nel primo paragrafo si fornisce un
inquadramento sull’ambiente competitivo nel quale è nato questo progetto,
analizzando il settore biomedicale e il distretto di Mirandola. Nei paragrafi
seguenti si analizzano le motivazioni alla base della costituzione della Rete, le
competenze delle imprese partecipanti, la struttura della rete, il regolamento e le
figure chiave all’interno della stessa. Nel quarto paragrafo si illustrano infine i
driver di sviluppo della rete, ossia le sue basi e le finalità strategiche, oltre a
delineare i meccanismi commerciali futuri della Rete, l’obiettivo dell’innovazione
e le modalità di internazionalizzazione sui mercati esteri.
11
CAPITOLO I
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE COME
RISPOSTA ALLA CRISI
1.1 Crisi economica globale, effetti sul sistema
economico italiano
La crisi finanziaria mondiale ha colpito il sistema produttivo italiano in
una fase particolare; a fronte di una prima metà di decennio caratterizzata da
indicatori negativi e crescita stagnante, nel biennio 2006-2007
il comparto manifatturiero
aveva fornito segnali
incoraggianti di ripresa,
soprattutto in termini di
fatturato totale e di livello
degli ordini, ponendosi così
sullo stesso piano delle altri
grandi economie europee.
Il consolidamento della fase
congiunturale, determinato in
primo luogo dalla crescita
costante della domanda internazionale, era stata condizionata in ambito europeo
dall’espansione industriale della Germania.
La struttura complessiva del sistema economico italiano, caratterizzato da una
minor esposizione del sistema bancario agli asset tossici e da un basso grado di
indebitamento delle famiglie, ha inizialmente tratto in inganno gli analisti,
convinti che il nostro Paese sarebbe stato colpito marginalmente dagli effetti del
crollo del sistema finanziario globale. Al contrario, così come mostrato da tutti i
maggiori indicatori macroeconomici, la perdita di Pil italiano è risultata tra le più
Dati: Istat
Figura 1.1
12
consistenti, specie in rapporto ai principali competitors europei, quali Francia e
Germania. Come noto, la crisi finanziaria globale ha avuto origine dall’aumento
incontrollato di insolvenze su mutui a basso merito di credito (subprime). I fattori
che hanno maggiormente contribuito allo scoppio della bolla immobiliare sono
stati l’elevato indebitamento delle famiglie americane e l’ampia disponibilità di
credito, favorita dalla politica di bassi tassi d’interesse decisa dalla Federal
Reserve americana per sostenere l’economia statunitense in seguito all’11
settembre 2001. Il contagio di una crisi inizialmente considerata “locale” su scala
globale è avvenuto a causa della perdita repentina di valore dei titoli cartolarizzati
che avevano dietro quei mutui, condizione che ha generato la chiusura delle linee
di credito precedentemente attivate, e il tentativo disperato da parte dei fondi che
possedevano quei titoli ormai diventati “spazzatura” di restituire i soldi,
liberandosi il più rapidamente possibile dei titoli tossici in loro possesso. Sebbene
il sistema finanziario globale non avesse creato un numero di cartolarizzazioni
comparabile a quello degli Stati Uniti, tuttavia gli istituti finanziari e i gestori di
fondi europei avevano massicciamente investito in quei titoli, considerati come
un’inesauribile fonte di guadagno nel breve e medio periodo (lo stesso orizzonte
temporale adottato dalla speculazione).
L’impossibilità di rintracciare i titoli tossici generò un’ondata di panico che ebbe
come principale effetto la perdita di fiducia tra i vari soggetti di un sistema
finanziario globale guidato da principii lontani da quelli della trasparenza e della
chiarezza.
Le banche italiane hanno risentito in maniera minore degli effetti della crisi
finanziaria rispetto agli istituti di credito europei, in virtù di un’esposizione
contenuta ai titoli tossici americani sul totale della consistenza patrimoniale.
1
Nonostante un grado di leva finanziaria inferiore rispetto a quello di altri Paesi,
anche il sistema bancario italiano è stato colpito dall’ondata di sfiducia sulla reale
consistenza degli asset tossici detenuti nei portafogli bancari, e dunque sulla
solvibilità del sistema stesso. Sebbene il modello d’intermediazione sia rimasto
sostanzialmente orientato verso gli impieghi e la raccolta al dettaglio abbia
continuato a essere legata a una clientela con indebitamento contenuto, la crisi ha
1
Signorini L.F, (Banca d’Italia), Convegno ICAAP 2008 - ABI
13
determinato alcuni effetti rilevanti sulla struttura stessa delle banche italiane,
particolarmente sui bilanci e l’operatività bancaria
2
.
D’altro canto, l’impatto della crisi globale sul sistema economico italiano nel suo
complesso è stato mitigato dal basso livello d’indebitamento delle famiglie
italiane, pari al 34%, segno evidente della spiccata propensione dei privati al
risparmio rispetto alle altre grandi economie del mondo, che al contrario hanno
fatto segnare tassi d’indebitamento crescenti nel corso degli ultimi venti anni. A
fronte di un cauto ottimismo riguardo all’indebitamento contenuto delle famiglie
italiane, è bene riflettere sul fatto che alti livelli di risparmio privato potrebbero
essere la spia di un disagio sociale più profondo e di un maggiore bisogno di
sicurezza e protezione, a fronte però di rete di welfare inadeguata e di minore
qualità rispetto agli altri Paesi avanzati. A fronte di un sistema bancario
sostanzialmente solido e di un livello di indebitamento dei privati adeguato, risulta
evidente
3
la fragilità della condizione finanziaria delle imprese italiane nel
confronto internazionale, soprattutto a causa dell’alto indebitamento, che si
traduce in maggiori oneri finanziari, ma anche per la netta prevalenza di debiti a
breve termine e una ridotta disponibilità di liquidità. Indubbiamente queste
caratteristiche hanno influito negativamente sulla capacità delle piccole e medie
imprese italiane di reagire al momento difficile, a seguito del peggioramento delle
condizioni di accesso al credito.
Inoltre l’alto livello del debito pubblico, sommato al debito delle imprese e al
crescente indebitamento con l’estero ha rappresentato per il nostro Paese un
ostacolo concreto nell’implementazione di politiche fiscali attive, volte a
contrastare la recessione, a differenza di quanto avvenuto in altri Paesi della zona
Euro.
L’allocazione del debito è un elemento rilevante nell’ambito della valutazione
della solidità di un Paese; nel caso in cui esso sia detenuto da operatori esteri le
problematiche maggiori sono legate al merito di credito (o rating) del Paese, vale
a dire il rischio che gli investitori internazionali associano alla sua solvibilità. Le
2
Crescenzi, A., Storia di tre anni difficili, p.211, Luiss University Press, 2010
3
De Socio A., La situazione economico-finanziaria delle imprese italiane nel confronto
internazionale, Banca d’Italia, N.66, aprile 2010
14
recenti preoccupazioni sul debito sovrano italiano ne sono la perfetta
esemplificazione. Il debito italiano rappresenta dunque un onere rilevante, per
alcuni motivi: in primo luogo perché l’Italia, al netto di situazioni critiche
contingenti, paga uno spread positivo rispetto al Bund tedesco di durata
corrispondente, e in secondo luogo perché la necessità di ridurre il debito richiede
saldi primari attivi, oppure tassi di crescita del PIL superiori al tasso d’interesse
reale, condizione di difficile realizzazione alla luce delle performance fatte
registrare dal nostro Paese nell’ultimo decennio.
Durante terzo trimestre 2011 lo spread con i Bund, sul decennale, è arrivato a
superare il muro dei 400 punti base, rendendo così più oneroso il servizio del
debito, e limitando le possibilità di mettere in atto una politica fiscale in chiave
anticiclica.
Negli ultimi venti anni l’economia italiana è stata caratterizzata da tassi di crescita
del prodotto interno lordo estremamente contenuti, con un’accentuazione di
questo trend nell’ultimo decennio. Scrive Krugman in un recente articolo
pubblicato sul New York Times: “La grande bolla immobiliare dello scorso
decennio, fenomeno sia americano sia europeo, è stata accompagnata da un alta
crescita del debito privato. Quando la bolla è scoppiata, la costruzione di nuove
case è crollata, e altrettanto hanno fatto le spese, poiché le famiglie, oberate dai
debiti, hanno tagliato i consumi. Tutto sarebbe potuto andare meglio se altri
attori economici di caratura maggiore avessero sostenuto la spesa privata,
colmando il divario (tra il livello dei consumi pre e post crisi) ereditato dal crollo
immobiliare. Ma nessuno ha fatto niente. […] Nemmeno i governi hanno fatto
molto: alcuni - quelli delle più deboli nazioni europee, e governi locali e statali
negli Stati Uniti - sono stati forzati ad abbattere la spesa, per far fronte a minori
entrate fiscali. I modesti sforzi di governi più forti - includendo tra questi, sì, il
piano di stimoli di Obama - sono stati, nel migliore dei casi, appena sufficienti a
bilanciare l'austerità forzosa. Dunque le nostre economie sono depresse. Cosa
propongono di fare i policy maker? Meno di nulla”.
4
4
Krugman P. – La depressione minore, NewYork Times, 22 luglio 2011
15
I dati
5
sulla crescita evidenziano una caduta nei tassi di sviluppo dei Paesi europei,
dai cui si sono distinti nettamente gli Stati Uniti. Nei tre maggiori Paesi europei il
tasso medio di crescita del Pil, decisamente superiore al 3 per cento negli anni
Settanta, ha registrato nel periodo 2000-2008 una media annua inferiore al 2 per
cento. Tra tutti questi Paesi, l’Italia è quello che ha segnato il minor tasso di
crescita nel periodo considerato, a causa del basso impiego di capitale e della
riduzione del contributo dell’input di lavoro nel corso degli anni Novanta. In
particolare, il gap negativo di crescita accusato dal nostro Paese nel corso degli
ultimi anni è imputabile tra gli altri alla decrescita della produttività, passata
dall’1,7% degli anni Settanta al -0,1% degli anni Duemila
6
. Alla luce delle cattive
performances fatte registrare nel ventennio a cavallo dell’introduzione dell’euro, è
bene porre l’attenzione sul tradizionale modello di specializzazione dell’economia
italiana, sbilanciato verso i settori tradizionali (tessile e abbigliamento, cuoio e
calzature, produzioni meccaniche), caratterizzati da un elevato grado di
polarizzazione, a tutto vantaggio di quei Paesi le cui economie hanno visto una
significativa riduzione delle differenze nei modelli di specializzazione. La
progressiva perdita di competitività del sistema economico italiano è imputabile in
primo luogo alla sempre maggiore concorrenza da parte di quei Paesi che
presentano mix produttivi più simili, e in secondo luogo al fatto che l’Italia non è
relativamente specializzata nella produzione di prodotti caratterizzati dalla
maggiore crescita a livello mondiale, e quindi – a parità di quote di mercato
settoriali – le potenzialità di crescita complessiva sono ancora minori.
Le problematiche della mancata crescita possono essere ascritte alle caratteristiche
stesse del tessuto produttivo italiano, in altre parole all’intrinseca difficoltà di
raggiungere una massa critica tale da affrontare con maggiore solidità le sfide
imposte dalla competizione globale e dalle turbolenze dei mercati internazionali
7
.
In primo luogo, la dimensione medio-piccola delle imprese italiane rispetto agli
standard internazionali – tanto da essere giunti alla definizione di micro-piccole-
medie imprese – è considerata una delle principali caratteristiche limitanti
5
Fonte: dati OCSE
6
Rapporto ISTAT 2010 – Misure di produttività
7
R. Faini, A. Sapir, Un modello obsoleto? Crescita e specializzazione dell’economia italiana, Il
Mulino 2005
16
l’evoluzione del sistema delle imprese: a metà degli anni 2000, nell’industria in
senso stretto, l’83% delle imprese aveva meno di 10 addetti, il 15% arrivava a 50,
solo il 2,3 per centro delle imprese superava 50 addetti
8
. Nel complesso, la
dimensione media delle imprese italiane è pari a 3,8 addetti, a fronte di una media
dei paesi Ue di 6,6
9
. Tale caratteristica, da sempre presente, in passato aveva
rappresentato un vantaggio in termini di maggiore flessibilità: negli anni Ottanta
molte analisi facevano proprio riferimento alla piccola dimensione delle imprese
come fattore chiave per spiegare la loro flessibilità e capacità di adattamento ai
mutamenti della domanda sui mercati esteri. Un vantaggio che in parte
successivamente si sarebbe trasformato in un limite, in un contesto profondamente
mutato sia dal punto di vista competitivo sia dal punto di vista tecnologico. Il
rapido mutamento del paradigma tecnologico ha colto parzialmente impreparati i
produttori italiani a sviluppare rapidamente conoscenze e know-how sui nuovi
strumenti, accelerando in questo modo le difficoltà competitive delle nostre
imprese
10
; in questa situazione, il basso livello di capitale umano influenza in
maniera negativa la capacità di adattamento della nostra economia.
Sebbene la situazione del tessuto economico e produttivo italiano presenti delle
criticità rilevanti, l’economia italiana nel corso degli anni Duemila ha comunque
reagito alle sfide poste dalla globalizzazione dei mercati e dalla rivoluzione
tecnologica. Nell’industria in modo particolare, si sono registrati fenomeni di
delocalizzazione difensiva (per risparmiare sui costi di produzione, appesantiti da
costi espliciti e occulti) e offensiva (per presidiare e penetrare i mercati esteri),
con il riposizionamento dei prodotti su segmenti di mercato a maggiore valore
aggiunto; tale riposizionamento sarebbe all’origine dell’aumento dei valori medi
unitari all’export che si osserva per l’economia italiana negli anni 2000, che non
ha eguali negli altri Paesi europei
11
. I dati Istat confermano l’accelerazione di
8
Tomasini S., La crisi e l’Italia, 2009 in Crescenzi, A., Storia di tre anni difficili, Luiss, 2010
9
Rapporto annuale ISTAT: “La situazione del Paese nel 2007”, Roma 2008
10
S. Rossi, La nuova economia, I fatti dietro il mito, Il Mulino, 2003
11
Bugamelli M., Prezzi delle esportazioni, qualità dei prodotti e caratteristiche d’impresa:,
Rubbettino, 2007
17
questo processo, manifestatosi nel triennio 2005-2007 con una ripresa dei tassi di
crescita del prodotto aggregato, e, con esso, della produttività; in questo periodo,
infatti, la crescita del valore aggiunto per addetto è stata dello 0,76 per cento
all’anno sul totale dei settori. In particolare, l’analisi disaggregata dei dati
consente di registrare miglioramenti rilevanti nell’agricoltura e nell’industria in
senso stretto, e perdite nette di produttività nel settore delle costruzioni (-0,97%).
È bene rilevare come, sebbene il rallentamento ciclico verificatosi già a partire nel
2007 avesse riguardato l’economia mondiale nel suo complesso, gli effetti
sull’economia italiana si erano manifestati in maniera maggiore rispetto ad altri
Paesi europei. Nel 2007 il settore industriale – poco prima dello scoppio della
bolla dei mutui subprime – aveva già visto scendere il livello della produzione
dello 0.6% rispetto al picco toccato nel dicembre precedente, a fronte di un
aumento del 3,1 per cento registrato nello stesso periodo in Germania e dell’1 per
cento in Francia. L’intensità della caduta era tuttavia ancora comparabile con
quella di una recessione “normale”, simile a quelle registrate nel passato. La
caduta del valore degli immobili (d’intensità limitata nel nostro Paese ma
comunque rilevabile), la restrizione delle condizioni creditizie, la compressione
del reddito delle famiglie dovuta agli shock sui prezzi dei prodotti energetici e di
alcuni beni agricoli, il ridimensionamento della ricchezza finanziaria per la caduta
dei valori azionari: tutto ciò ha contribuito in maniera decisa a contrarre il livello
della domanda interna e delle esportazioni in virtù delle interconnessioni
commerciali ed economiche esistenti tra i vari sistemi produttivi del mondo.
12
L’immobilismo iniziale di molti Paesi, che nella prima fase della crisi si
limitarono ad abbassare i tassi d’interesse nella speranza di evitare il temutissimo
credit crunch, depresse ancora di più le prospettive a breve e medio termine degli
operatori economici. Sulla scia del ciclo mondiale, anche l’economia italiana
precipitò nel vortice di una profonda crisi dalle conseguenze imprevedibili:
trascinata dalla caduta delle esportazioni e degli investimenti, la produzione
industriale, tra la primavera e la fine del 2008, subì un calo del 17,3 per cento che
non risparmiò alcun settore, tornando ai livelli del 1994.
12
Tomasini, 2009, op. cit., p. 221