Prefazione
La scelta tematica della presente tesi nasce da tre ordini di motivi:
1. l'indiscutibile attualità dell'argomento che, al di là della sua ben precisa e
cronologicamente delimitata (ma non limitata!) storicizzazione, investe problematiche
fondamentali della convivenza civile contemporanea nel suo rapporto primario e
primigenio tra fede e laicità, tra Stato e Chiesa e, prima ancora, tra “foro” pubblico e
“foro” privato, problematiche che – per quanto riguarda la nostra nazione Italia –
appaiono ancora in gran parte drammaticamente irrisolte o non ancora adeguatamente
rielaborate, talvolta nemmeno a livello di coscienza pubblica. La suddetta attualità è inoltre
sottolineata dal ricorrere nel presente Anno Accademico 2009-10 del 150º anniversario
dell'Unità d'Italia;
2. l'opportunità, in quanto membro dell'A.M.I. Associazione Mazziniana Italiana (figg. 1 a.b. e
2), di potermi direttamente confrontare sull'argomento con singole illustri personalità e
anche in convegni pubblici di grande interesse (fig. 3) e perfino con interventi personali di
natura sia oratoria (fig. 4) che pubblicistica (fig. 5), nonché di accedere a una
documentazione ricchissima e altrimenti introvabile, gran parte della quale conservata
presso la Sede Nazionale della Segreteria Organizzativa e Amministrativa dell'A.M.I.
situata a Modigliana, in provincia di Forlì (e Cesena), nel cuore di quella straordinaria
Romagna che dell'associazionismo repubblicano e mazziniano è stata culla, patria e rifugio
(figg. 6 e 7, con note);
3. la disponibilità accordatami immediatamente dal Relatore prof. Vincenzo Pacillo che, unita
sia alla sua vasta competenza accademica (vedasi, in particolare, l'articolo in fig. 8) con la
quale ho potuto confrontarmi con la massima libertà intellettuale sia ai puntuali e precisi
indirizzi e suggerimenti didattici e al suo stesso interesse personale per i contenuti in
oggetto, mi ha consentito di procedere agevolmente e speditamente e, soprattutto, con la
consapevolezza estremamente gratificante di avere “dall'altra parte” un interlocutore non
solo istituzionale ma anche autenticamente partecipe del mio lavoro.
Lo spunto concreto, in particolare, mi è stato offerto dal reperimento di un libriccino contenente
due opuscoli mazziniani scritti il primo per la gran parte nel 1832 (e per il rimanente nel 1849) e il
secondo nel 1870 e intitolati rispettivamente “Dal Papa al Concilio” e “Dal Concilio al Papa”
(fig. 9), che sono pressoché ignoti e ignorati anche proprio per la loro difficilissima rintracciabilità
(conseguente pure a motivi di opportunità storica che indicherò nel prosieguo) benché in un certo
11
senso possano essere visti come l'alfa e l'omega del pensiero mazziniano, con particolare
riferimento al rapporto con la Chiesa (in primis quella cattolica), con il Papato (rappresentato ai
tempi dal Pontefice Pio IX) e con Dio.
Ma, appunto, questo riferimento sarebbe risultato troppo monotono e monocorde se non l'avessi
affiancato e, in un certo senso, controbilanciato con il punto di vista del diretto antagonista di
Giuseppe Mazzini, il Papa Pio IX (nato come Giovanni Maria Mastai-Ferretti) che con i suoi quasi
32 anni di pontificato (finora il più lungo in assoluto, a parte forse quello di San Pietro) ha dato
un'impronta altrettanto potente e duratura al secolo suo e anche a quello successivo.
Ho così abbinato alla frequentazione della Sede A.M.I. quella dell'altrettanto interessante Museo-
Casa natale di Pio IX a Senigallia, in provincia di Ancona (fig. 10, con nota) dove, anche lì, ho
avuto l'opportunità di acquisire testi e materiali poco conosciuti e molto stimolanti. (figg. 11a.b.)
In questo modo ho potuto mettere in parallelo e a confronto le “due anime” del Risorgimento
nazionale, utilizzando come pietra angolare quel Concilio Ecumenico Vaticano I che Pio IX ebbe
l'ardire di convocare a oltre 300 anni di distanza dall'ultimo, il memorabile Concilio di Trento, e
che a sua volta Giuseppe Mazzini ebbe l'ardire di criticare e condannare, cercando di sostituire
alla visione dell'altro la propria personale visione del mondo e anche la sua personale concezione
della fede oltre che della laicità.
Ma era necessario uno sforzo in più: quello di tratteggiare almeno sullo sfondo questo variegato e
contraddittorio Risorgimento italiano, di inserire cioè il confronto tra Mazzini e Pio X all'interno
del momento storico (e quale momento!) e delle relative problematiche.
Esse consistevano:
da un lato, nel sorgere ed affermarsi dei movimenti anarchici, socialisti e comunisti “di
massa”, soprattutto ao opera di Mikhail Bakunin e di Karl Marx (che furono coloro con i
quali Mazzini ebbe contatti più diretti e polemici sia in patria che all'estero, specificamente
durante le sue lunghissime e ripetute permanenze in Svizzera e in Inghilterra), ma anche
nell'insistenza di quella “terza via” di indipendentismo patriottico propugnata dal suo
alleato-concorrente Giuseppe Garibaldi;
dall'altro, dal dibattito – per non dire scontro – fra la Chiesa e i propri alleati storici (fra
tutti la Francia, che poi l'abbandonerà al suo destino) e pure all'interno della Chiesa stessa
come stanno a dimostrare, per esempio, le difficoltà nel radunare perfino numericamente –
per le tante proteste e opposizioni – i prelati per il Concilio Ecumenico Vaticano I o anche
le tormentate vicende di don Antonio Rosmini, dei suoi libri messi all'indice da Papa Pio IX
e del suo processo sempre da quest'ultimo istruito davanti alla Congregazione dell'Indice;
12
dallo stagliarsi in lontananza, quasi come un regista fuori campo, della figura del
lungimirante statista Camillo Benso conte di Cavour, con il suo ambizioso e ampio
programma politico nazionalista ed eurocentrista (potenzialmente in antitesi con quello
della provinciale monarchia sabauda di Vittorio Emanuele II di cui tuttavia egli era al
momento sostenitore e portavoce) sintetizzato nel motto “Libera Chiesa in Libero Stato”
che la nostra Nazione è poi arrivata a realizzare, seppur in modo parziale e controverso,
anche attraverso gli articoli 7, 8, 19 e 20 della vigente Costituzione del 1948 (articoli a loro
volta mutuati dagli Accordi Lateranensi del 1929). Per cui, alla fin fine, si può anche
concludere dicendo che tutti e tre i principali protagonisti hanno avuto ragione – Cavour,
Mazzini e Pio IX – ma anche che tutti e tre... hanno avuto torto!
Il rischio era, ovviamente, quello di una tesi troppo vasta, generica e difficile da gestire, anche per
l'ulteriore rischio della superficialità. Ho cercato di conseguenza di evitare la tentazione di provare
a dire tutto e di tutto, impresa da far tremare i polsi anche perché sull'argomento si sono già
misurati in tanti, e sicuramente molto più e meglio “equipaggiati” di me.
Ho preferito piuttosto seguire delle interrelazioni, dei confronti, perfino delle suggestioni
(naturalmente basate sulla più rigorosa documentazione storica, almeno nei limiti delle mie
possibilità, suffragata dagli esiti dei più accreditati storici e studiosi), lasciando dipanare quel filo
della storia che l'Ottocento ha reso così vivace e coinvolgente anche sul nostro piccolo e tutto
sommato indifferente territorio, dove ancora oggi Stato e Chiesa – nel loro rapporto fondamentale
basato su fede e laicità (o forse sarebbe meglio dire “ragione”) – stanno ad affrontarsi in
equilibrio perfetto, seppur oscillante a seconda delle contingenze e delle convenienze.
In ogni caso ne è scaturito un lavoro che non poteva non essere, e che in fondo è proprio quello che
voleva essere, un grande affresco storico: quello del Risorgimento italiano, che ho percorso in
lungo e in largo (sempre nell'ambito delle mie capacità e possibilità) cercando fra tutte le sue fasi e
fra tutti i suoi più significativi episodi (con l'unica avvertenza contenitiva di non indugiare
eccessivamente sulla dipendenza di essi dalle scelte politiche internazionali) il collegamento dato
dal rapporto “fede e laicità”, che non è e non è mai stato soltanto un rapporto di poteri ma anche
di “Weltanschauung” e all'interno del quale Mazzini e Pio IX hanno rappresentato qualcosa di
significato e di valore assoluti, tutt'oggi a mio parere ancora paradigmatico, che si è agitato pure
in relazione a ulteriori contesti altrettanto determinanti; mi riferisco in particolare all'avvento della
“nuova” Massoneria, con l'esempio illuminante dell'Anticoncilio di Giuseppe Ricciardi (che era
anche mazziniano) nei confronti del Concilio Ecumenico Vaticano I indetto da Pio IX, e il rapporto
con il mondo ebraico, come rappresentato anche simbolicamente dal “caso Edgardo Mortara” che
ebbe come protagonista ancora una volta Pio IX.
13
Non ho cercato, quindi, delle risposte a delle domande; non ho voluto dimostrare niente, bensì
cercare con la massima onestà intellettuale (a tal punto che risulta evidente perfino un oggettivo
“apprezzamento” anche del titanico sforzo di resistenza operato dal Pontefice nel proprio
interesse) nella nostra storia passata non solo l'appagamento di una curiosità erudita (che si
estende anche, per esempio, alla ricostruzione della nascita de “La Civiltà Cattolica”,
l'importantissima rivista dei Gesuiti fondata al tempo di Pio IX e da lui stesso voluta durante
l'esilio a Gaeta, o al tratteggio della figura del “boia di Roma”, il tristemente famoso “Mastro
Titta” che operò sempre al tempo di Pio IX) ma anche e soprattutto i presupposti di uno “sguardo”
sul presente.
E anche e soprattutto, in ultima analisi, con codesta tesi ho inteso evidenziare che nelle dinamiche
storiche (storiche in senso lato) l'elemento “individuo” è e rimane fondamentale. Certo l'individuo
può essere facilmente sostituibile, ma lo sarà sempre... con un altro individuo!
Mazzini, Pio IX, Cavour, ma anche Garibaldi e Rosmini e quant'altri ad essi accostabili (e nel
presente lavoro ce ne sono parecchi, molti dei quali “confinati” nelle Note ai singoli capitoli per
non debordare dall'argomento principale, e intendo personaggi a loro modo altrettanto importanti
per la definizione del quadro storico complessivo, quali ad esempio Vincenzo Gioberti, Carlo
Cattaneo, Aurelio Saffi, Don Giovanni Verità, i Fratelli Cairoli, Don Enrico Tazzoli e i Martiri di
Belfiore, Ciceruacchio, Gabriele Rosa, Giovanni Bovio, Francesco De Sanctis, Paolo Gorini,
Silvestro Lega, Giuseppe Ricciardi, il cardinale John Henry Newman, il cardinale Félix Dupanloup
– questo ultimi due, come Pio IX e come Rosmini – non a caso fatti oggetto di pressoché simultanee
cause di beatificazione...), tutti questi straordinari individui, dicevo, stanno a dimostrare che il
meccanicismo non è e forse (e per fortuna, mi permetto di aggiungere) non sarà mai l'unica
dimensione della Storia. Non, almeno, finché esisteranno degli Uomini...
La bibliografia sull'argomento è sterminata; per questo l'ho divisa settorialmente, ricordando che
molto altro materiale – anche se frammentario – è oggi reperibile in internet (e infatti sono stati
consultati e citati, nelle relative Note, anche molti siti che, per la stessa natura tecnologica del
mezzo informatico, permettono fortunatamente la divulgazione di preziosi materiali che altrimenti,
per svariati motivi, rimarrebbero inediti).
La bibliografia risulta così distribuita fra i diversi temi:
1. Laicità
2. Risorgimento
3. Pio IX
4. Giuseppe Mazzini
5. Gioacchinismo e Profetismo
14
A completamente, e anche a scopo di digressione, ho inserito poi 3 appendici iconografiche di 100
immagini l'una, volutamente senza didascalia per enfatizzarne il messaggio solo visivo e dedicate
rispettivamente a Pio IX, a Mazzini e alla Laicità (quest'ultima ha un carattere spiccatamente
dissacrante che deriva dai materiali stessi reperibili sull'argomento e che personalmente non
sempre condivido, tuttavia mi è sembrata comunque interessante e utile se non altro a introdurre
un tocco di attualità e leggerezza nella trattazione complessivamente piuttosto impegnativa anche
per il lettore più informato). Ho pure inserito, nel testo, alcune immagini documentarie e
iconografiche che, a mio parere, arricchiscono in modo autonomo la trattazione degli argomenti.
Per non disturbare la lettura ho preferito posizionare le Note in modo meno invasivo alla fine di
ogni relativo capitolo, anche se questo ne rende la rintracciabilità forse meno comoda. Si tratta
tuttavia quasi sempre solo di riferimenti bibliografici, avendo per lo più inserito l'essenziale della
nota già nel testo con relativa citazione dell'autore, per cui non è indispensabile ricorrere ad esse
ad ogni pie' sospinto. Per i Documenti ho invece predisposto un‟apposita Appendice finale.
Oltre ai testi di natura bibliografica ho anche utilizzato, come già ricordato, materiali tratti da siti
internet, che sempre più ormai comprendono contributi di altissimo valore, addirittura in
sostituzione della stessa pubblicazione cartacea.
Per quanto riguarda Giuseppe Mazzini, infine, che è in ogni caso il protagonista principale della
tesi e colui dal quale essa prende le mosse, ho avuto l'eccezionale opportunità di poter disporre dei
materiali iconografici già utilizzati per una Mostra itinerante realizzata dai Comitati Nazionali
appositamente costituiti per le Celebrazioni del Bicentenario della sua nascita (1805-2005) con il
patrocinio e il sostegno del Comitato Nazionale e del Comitato Padovano per le Celebrazioni del
Bicentenario (con testi e grafica di Benito Lorigiola), sotto l'Alto Patronato del Presidente della
Repubblica e con il patrocinio di A.M.I. Associazione Mazziniana Italiana (del Comitato Padovano,
coordinato da Gilberto Muraro, hanno fatto parte: Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed
Arti; Associazione Mazziniana Italiana sede di Padova; Comune di Padova; Comitato padovano
per la Storia del Risorgimento; Museo Civico del Risorgimento e dell‟Età contemporanea;
Provincia di Padova; Società Dante Alighieri; Università di Padova) che ho fatto confluire in un
apposito Capitolo VI che, pur presentando alcune analogie con il Cap. V, a mio avviso offre un
approfondimento imprescindibile per capire a fondo la storia e la personalità di Giuseppe Mazzini.
Ma è una comprensione di cui probabilmente nessuno verrà a mai a capo, perché tuttora Mazzini
resta un enigma: “Padre” che quasi nessuno conosce di una Patria che a sua volta forse pochi
conoscono.
15
Capitolo I
IL CONCILIO ECUMENICO VATICANO I:
PREMESSE STORICHE E POLITICHE (1861-1870)
1. Correva l'anno 1870...
L'8 dicembre 1869 Papa Pio IX apre a Roma il Concilio Ecumenico Vaticano I. Verrà interrotto il
20 settembre 1870 per l'irrompere in armi dei bersaglieri italiani attraverso la breccia di Porta Pia
nella città che fino a quel momento era stata sua, e non verrà mai più ripreso né da lui concluso.
In coincidenza con l'apertura del Concilio, a fine novembre 1869, doveva uscire un saggio di
Giuseppe Mazzini sul Concilio, dal titolo ―Dal Concilio a Dio‖. Mazzini però, che in quel periodo
era costretto a spostarsi fra Londra, Zurigo e Lugano (ma in quest'ultima località vi si recava
clandestinamente, per l'ordinanza di espulsione dal Canton Ticino), non riuscì a terminarlo in
tempo, cosicché il lavoro vide la luce soltanto nel 1870, a Concilio già sospeso.
Questo per dire come, sia nel caso del Concilio che nel caso dell'opuscolo ad esso contrario, i due
protagonisti dei due avvenimenti – Pio IX e Giuseppe Mazzini – abbiano in un certo senso subìto la
medesima sorte, benché l'uno da una parte e l'altro dall'altra di quella barricata che l'Ottocento era
venuto erigendo sulle fondamenta della Rivoluzione francese, come ben ha evidenziato Roger
Aubert nel suo basilare volume su Pio IX curato da Giacomo Martina (1) e come in seguito ha
ricordato anche Papa Giovanni Paolo II. (2)
Era una barricata in questo caso solo politica e ideologica, ―ultraterrena‖, ma che in un passato
ancora molto recente – l'anno 1849 della Repubblica Romana, che per la prima volta aveva visto
direttamente di fronte Pio IX e Giuseppe Mazzini – era stata anche militare e amministrativa,
―terrena‖ a tal punto da arrivare agli scontri armati che avevano fatto di essa una vera e propria
guerra: ridotta sì, dal punto di vista delle forze materialmente in campo e dei territori coinvolti, ma
importantissima per i valori, gli scopi e le potenze in essa investiti, in maniera sia aperta che
occulta, quasi a rappresentare paradigmaticamente la lotta tra la nuova èra all'attacco, in cerca di
affermazione, e la vecchia èra in difesa, in cerca di sopravvivenza. Fu uno scontro epocale,
immenso, quello che si giocò allora tra le piazze e i ponti romani, e su di esso (o, meglio, pure su di
esso) si sarebbero gettate le basi (non è esagerato dirlo) del futuro dell'umanità anche per il secolo
successivo. (3)
Ci appare giusto e opportuno, quindi, affrontare il tema del Risorgimento nel suo anno cruciale
1870 (l'anno della presa di Roma e della sua effettiva proclamazione a capitale del Regno d'Italia)
da quella sorta di spartiacque che è il Concilio Ecumenico Vaticano I indetto da Pio IX e, in
16
concomitanza, dalla critica ad esso promossa da Giuseppe Mazzini nel suo libello antagonista ―Dal
Concilio a Dio‖, in seguito indissolubilmente edito insieme con un altro suo libello scritto
anteriormente (1832), anche se ad esso propedeutico oltre che complementare, intitolato ―Dal Papa
al Concilio‖.
2. Le due allocuzioni di Pio IX del 1849
Il contrasto fra questi due grandissimi protagonisti dell'Ottocento era già scoppiato in tutta la sua
drammatica complessità nel 1849 quando il decreto della Repubblica Romana aveva proclamato la
fine del potere temporale dei Papi asserendo che, priva di terrene preoccupazioni, la Chiesa non
soltanto non avrebbe perduto nulla sul piano spirituale, ma avrebbe raggiunto una vera libertà. (4)
Di fronte a tali asserzioni Pio IX aveva ritenuto necessario riaffermare il dovere di difendere ―con
tutte le forze i diritti e i possedimenti della santa Romana Chiesa e la libertà della Sede stessa che
con la libertà ed utilità di tutta la Chiesa è intimamente congiunta‖ (5) scrivendo appositamente due
allocuzioni (―Allocuzione al Concistoro segreto in Gaeta il 20 aprile 1849‖, da cui è tratto il brano
testé citato in nota 5, e ―Iamdum cernimus‖ del 18 marzo 1861, anch'essa rivolta al Concistoro
segreto) basate sugli stessi due elementi fondamentali: la difesa del potere temporale e
l'impossibilità di una conciliazione della Chiesa con il progresso e con il liberalismo, elementi che a
loro volta diventeranno poi due proposizioni del ―Sillabo‖ del 1864. Con la prima di queste
allocuzioni Pio IX aveva difeso la ―sua‖ Roma dalla Repubblica; con la seconda aveva cercato di
salvarla dalla Monarchia.
3. La Convenzione di Settembre (1864)
Nonostante ciò, al termine di una lunga serie di avvenimenti di cui si parlerà a lungo nei capitoli
seguenti, si era arrivati alla Convenzione di Settembre, cioè all'accordo tra Francia e Italia firmato a
Parigi il 15 settembre 1864 dai rispettivi plenipotenziari Nigra, Pepoli e Drouyn De Lhuys (e alla
cui preparazione molto si era dedicato il presidente del consiglio Marco Minghetti) in base al quale
le truppe francesi avrebbero lasciato Roma entro due anni mentre l'Italia si impegnava a difendere la
città da qualsiasi attacco esterno.
Il riferimento era anche all'episodio di Aspromonte del 1862 dove si era avuto uno scontro cruento
fra garibaldini e truppe dell'esercito regolare, ma significava anche che era escluso ogni intervento
italiano per difendere il governo pontificio da un'eventuale insurrezione romana. Il che, in poche
parole, voleva dire che se ci fosse stata un'altra ―Repubblica Romana‖ questa volta né i Francesi né
lo Stato italiano sarebbero intervenuti per togliere il Papa dai guai. Ma voleva anche dire che il
monarchico Governo italiano, concedendo al Papa una propria forza armata personale, metteva al
17
sicuro non solo lui ma anche se stesso da eventuali attacchi di quanti altri avessero voluto entrare in
gioco per prendersi a proprio favore i territori del neo-costituito Stato pontificio. E il riferimento
stavolta non poteva che essere soprattutto all'antagonistico repubblicanesimo sostenuto da Mazzini
e dai suoi seguaci, visto il precedente, eclatante e simbolico episodio della Repubblica Romana del
1849.
Pur di garantirsi l'acquiescenza del Pontefice, il Governo italiano era disposto ad accollarsi anche
parte dei debiti pubblici di quest'ultimo. Su questo e su tutti i punti citati la Convenzione non dava
adito a dubbi:
―Art. 1. L'Italia s'impegna a non attaccare l'attuale territorio del Santo Padre e ad impedire, anche
con la forza, ogni attacco proveniente dall'esterno contro quel territorio.
Art. 2. La Francia ritirerà le sue truppe dagli Stati pontifici gradatamente e a misura che l'esercito
del Santo Padre sarà organizzato. Lo sgombero dovrà essere tuttavia compiuto entro il termine di
due anni.
Art. 3. Il governo italiano desiste da ogni reclamo contro l'organizzazione di un'armata papale,
anche composta di volontari cattolici stranieri, sufficiente a mantenere l'autorità del Santo Padre e la
tranquillità sia all'interno che alle frontiere dei suoi Stati, alla condizione che questa forza non possa
degenerare in un mezzo di attacco contro il Governo italiano.
Art. 4. L'Italia si dichiara pronta ad entrare in trattative per prendere a suo carico una parte
proporzionale del debito degli antichi Stati della Chiesa. (...) (6)
Provvisoriamente, con un protocollo annesso alla Convenzione, si stabiliva lo spostamento della
capitale da Torino in altra località entro 6 mesi. Anzi, questa era la condizione alla quale era
subordinata l'efficacia esecutiva dell'intera convenzione:
―La convenzione firmata in data odierna fra le LL. MM. il Re d'Italia e l'Imperatore dei Francesi
non avrà valore esecutivo se non quando Sua Maestà il Re d'Italia avrà decretato la traslazione della
capitale del Regno nella località che sarà ulteriormente determinata da Sua Maestà. Questa
traslazione dovrà essere effettuata entro il termine di sei mesi, a datare dalla data della
convenzione‖. (7)
Questo punto è la prova di quanto fosse importante e centrale il ―nodo‖ della scelta e del
posizionamento della città da eleggere come Capitale definitiva del Regno, che per svariati motivi
non si riteneva potesse continuare ad essere Torino. (8) Su quale, però, dovesse essere questa
località il governo non era concorde: la maggior parte dei ministri avrebbe voluto che fosse Napoli
per ragioni politiche, mentre il re e i ministri militari preferivano Firenze, e fu quest'ultima infatti a
prevalere. A Firenze, in attesa di arrivare poi a Roma come aveva anni prima dichiarato Cavour.
18
Anche sul modo in cui fu recepita la Convenzione non ci fu concordia, in quanto per alcuni essa
pareva significare la rinuncia a Roma ma per altri, al contrario, fu interpretata come il primo passo
verso l'annessione della Città Eterna, libera finalmente entro due anni dalle truppe imperiali.
La scelta dello spostamento della capitale suscitò a sua volta un atteggiamento di freddezza che
sfociò spesso in aspre polemiche, le quali a Torino diventarono addirittura sanguinose proteste nel
settembre del 1864. Anche la discussione in Parlamento vide scontrarsi antitetiche posizioni, tra cui
alla fine ebbero la meglio i sostenitori di Roma. E Roma fu.
4. L'enciclica “Quanta cura”
A Pio IX – privato delle armi dei suoi ormai ex-alleati – non rimaneva che difendersi con le parole e
con gli scritti. Circa tre mesi dopo la firma della Convenzione, e circa tre mesi prima che gli venisse
sottratta Roma, e non in una data casuale bensì l'8 dicembre (che vedremo in seguito quale
importanza avesse) del 1864 emanò l'enciclica ―Quanta cura‖, che condannava taluni principi
liberali: la libertà di coscienza, la libertà di culto, la separazione tra Chiesa e Stato. (9 e doc. 1)
Ad essa era unito un elenco di 80 proposizioni condannate (il ―Sillabo. Errori sopra la Chiesa e i
suoi diritti‖), che riassumeva gli ―errori dell'intera civiltà moderna‖. (10 e doc. 2)
Tutti questi scritti non bastarono però a fermare né gli Italiani né, tanto meno, il Generale Giuseppe
Garibaldi, che rispetto agli Italiani di Torino aveva una visione della realtà ancora diversa...
5. Il tentativo di Garibaldi di prendere Roma
Per fermare Garibaldi ci volle la forza delle armi; ci volle il primo ministro Urbano Rattazzi, che lo
fece arrestare il 23 settembre 1867 (11) mentre, su incarico del Partito d'Azione, cercava di
raggiungere Roma. Ci volle la successiva, pressoché immediata deportazione all'isola di Caprera
dove forse non avrebbe più potuto ―nuocere‖.
Non fu così: il giorno dopo, Garibaldi fuggì da Caprera. Ce lo racconta lui stesso: ―Il 14 ottobre
1867, alle 6 pomeridiane, io abbandonavo casa mia, dirigendomi verso il mare a settentrione.
Giunsi alla spiaggia e vi trovai il 'beccaccino', piccolo legno comprato nell'Arno e capace di
trasportare due sole persone. Il beccaccino, dono generoso dei miei amici inglesi, trovavasi
casualmente a pochi metri dalla spiaggia, e dalla parte d'un piccolo magazzino che serve a metter le
imbarcazioni al coperto. Nella stessa parte trovavasi una pianta di lentisco, che copriva quasi
intieramente il minuto scafo, dimodoché i miei regi guardiani non avevano potuto scoprirlo‖. (12)
Garibaldi, la cui fuga provocò le dimissioni di Rattazzi, si diresse subito alla volta di Roma in cerca
dell'agognata sollevazione popolare. Quell'interminabile ―Questione Romana‖ egli voleva risolverla
una volta per tutte, e a modo suo...
19
Invano il suo ―braccio destro‖ Francesco Crispi gli consigliò di desistere: ―Mio Generale, Cairoli e
Cucchi mi hanno confidato il pensiero che vi agita in questo momento intorno alla quistione
romana. I detti amici mi affermano che voi intendete affrettarne la soluzione. Generale! Le
condizioni del paese oggi non ci sono favorevoli; le condizioni dell'Europa ci sono contrarie. (...)
Noi potremmo subire un secondo Aspromonte ed i nostri avversari politici lo desiderano e lo
cercano. Generale! Ve ne scongiuro; desistete da ogni impresa, prevenite che accada, se lo potete.
Impeditela se altri la tenti senza di voi! (...)‖. (13)
Crispi, purtroppo, a suo modo aveva ragione. Il tentativo di Garibaldi fallì, e questo fallimento
comportò anche la morte dei fratelli Cairoli e di gran parte di altri 70 coraggiosi volontari in un
eroico episodio diventato leggendario.
6. Il sacrificio dei fratelli Cairoli
―Il 20 ottobre 1867 partirono da Terni e giunsero a Passo Corese, dove si imbarcarono sul Tevere,
cercando di sfuggire alla sorveglianza papalina. Sbarcarono nei pressi dell'Acqua Acetosa e
nascosero le armi in un canneto vicino. Passarono la notte del 22 all'interno della Vigna Glori.
La sorpresa, per non precisati motivi, fallì. Verso le cinque pomeridiane di quel 23 ottobre i
volontari vennero agganciati da circa 300 'carabinieri esteri' (gli svizzeri del Capitano Mayer) del
Papa. Per circa un'ora si difesero in mezzo alle vigne e per due volte contrattaccarono alla baionetta.
I Fratelli Cairoli furono ambedue colpiti, ma Enrico finito a colpi di baionetta. Fu ferito anche il
Capitano Mayer e allora i papalini si ritirarono. Nella Villa rimasero pochi garibaldini, fra cui
Giovanni. Tutti gli altri si ritirarono verso Monterotondo, per congiungersi con gli altri commilitoni.
Il giorno dopo ritornarono i pontifici e fecero prigionieri i feriti. Dopo due mesi Giovanni Cairoli fu
messo in libertà. Morirà due anni dopo per i postumi della ferita‖. (14)
Enrico e Giovanni Cairoli erano due dei cinque figli maschi di Carlo Cairoli e Adelaide Bono da
Pavia. Tutti e cinque parteciparono al Risorgimento italiano: Benedetto, Ernesto, Luigi, Enrico,
Giovanni. Solo il primo morì nel suo letto. Enrico, come abbiamo visto, morì a Villa Glori nel 1867
e Giovanni due anni dopo per le ferite riportate nello stesso scontro. Luigi morì di tifo a Cosenza
nel 1860 mentre con Garibaldi compiva l'opera dei Mille. Ernesto morì con i Cacciatori delle Alpi,
sempre accanto a Garibaldi, nel 1859. Benedetto, anch'egli, fu ferito tra le fila garibaldine a Palermo
(dove si trovava assieme al fratello Giovanni) dopo lo sbarco dei Mille. Fu lui il solo dei cinque
fratelli Cairoli a salvarsi. In seguito divenne Presidente del Consiglio in una coalizione di sinistra e
salvò il Re Umberto I da un attentato rimanendovi ferito. (15)
La morte dei fratelli Cairoli fu molto di più di un toccante squarcio di dedizione alla causa del
Risorgimento. Era stata infatti proprio la loro madre, la milanese Adelaide Bono Cairoli, fervente
20
repubblicana, a spingerli all'azione nutrendoli fin dall'infanzia degli ideali della Carboneria che ella
aveva fiancheggiato attivamente esponendosi anche a non pochi rischi personali. Fu a lei, amica sia
di Garibaldi che di Mazzini, che si rivolse quest'ultimo per chiederle di convincere il primo a
riprendere la lotta nel 1861, subito dopo la conquista dell'Unità d'Italia. Lo fece con una lettera che
ci è pervenuta e che rappresenta anche un documento storico importante, sebbene poco conosciuto:
7. La lettera di Mazzini ad Adelaide Cairoli
―Amica, ho perenne minaccia alla testa. Lo scrivere molto mi uccide e per quanto non m'importi il
vivere vorrei pur vedere Venezia e Roma libere prima di morire.
Oggi nondimeno vi scrivo per soddisfare a un bisogno del core e per dirvi come abbiamo bisogno di
tendere a Venezia praticamente. Voi rivedrete, penso, Garibaldi. Da lui ebbi recentemente le prove
di fiducia che mi furono assai care. In nome di Dio e del Paese, ditegli voi tutti, ch'egli stima ed
ama, come egli ha in mano le sorti della nostra Patria, e di come Dio gl'imponga grandi doveri.
Garibaldi promette ogni tanto al Paese di guidarlo: il Paese lo aspetta; ma non deluda, perdio,
l'aspettazione; non cacci lo sconforto e lo scetticismo nell'anime ridestate. Per conquistare Roma
bisogna essere tutti uniti e senza altro nemico in casa. Garibaldi dovrebbe andare a Napoli e in
Sicilia, spegnere con la sua presenza il brigantaggio, risollevar l'entusiasmo e mettere in libertà
sessantamila soldati che sono ora là. Sorella, amica, pensateci voi pure. Per amore del cielo, noi
esigiamo che Garibaldi faccia tutto: facciamo per lui‖. (16)
8. La lettera di Adelaide Cairoli a Mazzini
Qualche anno più tardi, nel 1869, sarebbe stata Adelaide a scrivere a Mazzini, esortandolo alla lotta
in un momento di buio sconforto dell'amico lontano. E l'avrebbe fatto ricordando l'ultimo sacrifico
di uno dei suoi figli (Giovanni, quello che era rimasto ferito a Villa Glori), lei che ne perdette
quattro (dopo aver perso già anche due figlie, sebbene per altri motivi):
―Voi, che avete ottenuto il risveglio di un popolo, confrontate il lutto di una famiglia con
quell'ideale che riassume nella vostra missiva il glorioso apostolato della vostra vita. La vostra
grand'anima, che colla pertinacia dell'esempio, del sacrificio e della parola tradusse quasi in trionfo
l'inutile conato di tante generazioni per l'unità della patria, ha ben diritto di ricordare che lo scopo
non è ancora raggiunto, e che la memoria dei martiri si onora completando l'opera loro‖. (17)
La morte di Enrico Cairoli e il ferimento di suo fratello Giovanni non fermarono tuttavia Garibaldi.
Il 25 ottobre 1867 l'―eroe dei due mondi‖ occupò ugualmente Monterotondo e marciò su Roma che
era a pochissima distanza, ma il 3 novembre a Mentana i Francesi, nonostante l'impegno di astenersi
che avevano assunto firmando la Convenzione, intervennero a difesa dello Stato Pontificio ed
21
ebbero la meglio (anche grazie ai fucili a retrocarica e a tiro rapido che utilizzarono per la prima
volta) sui pochi armati di Garibaldi, decimati e demoralizzati dalle diserzioni, costringendo il
condottiero a ritirarsi oltre il confine, dove venne di nuovo arrestato per ordine del governo italiano.
In realtà nelle stesse fila dei ―democratici‖ molti erano stati e rimanevano contrari a questa sua
azione militare, anche lo stesso Mazzini che riteneva dannoso qualsiasi moto in provincia anziché
nella città. E comunque Mazzini aveva colto l'occasione dell'azione di Garibaldi e dell'intervento
dei Francesi per mandare, il 20 ottobre, un suo tempestivo ―Proclama agli Italiani‖.
9. Il “Proclama agli Italiani” di Giuseppe Mazzini
Con questo scritto Mazzini attaccava non tanto il Papa e i Francesi quanto il Governo italiano e il
proclama regio con il quale quest'ultimo aveva prontamente avallato e giustificato la richiesta
d'aiuto dell'uno e l'ingerenza degli altri, confermandosi così ancora una volta come il ―nemico
numero uno‖ dello Stato italiano e della Monarchia. Mazzini, del resto, non si tirò certo indietro,
arrivando in questo suo proclama a dichiarare ―decaduto‖ il re per codardia e tradimento verso la
Nazione italiana!:
―Il proclama regio del 27 ottobre, mentre i soldati d'un despota straniero invadono la terra Romana,
è un oltraggio al paese, una codardia intollerabile a chi ha scintilla d'orgoglio italiano, una minaccia
alla nostra libertà, un tradimento verso quei che muoiono per dar Roma all'Italia, una sfida gettata a
quanto di nobile, di degno, di grande freme nell'anima della Nazione. Il re che segnò quel proclama
è un re decaduto, o la Nazione è decaduta‖. (18)
10. “A Roma, a Roma, senza traditori nel campo!”
Anche Mazzini era del parere di Garibaldi: bisognava prendersi Roma, prenderla con la forza, come
esortava a fare nel prosieguo del suo proclama che era un aperto incitamento alla lotta armata non
solo contro lo straniero ma anche contro lo stesso stato italiano:
―Non mi chiedete istruzioni. Sommano tutte in una. Sorgete ovunque potete; le barricate cittadine
sono l'unica risposta degna d'un popolo che vuol vivere.
Il paese salvi il paese. Rompa, facendosi padrone del proprio terreno, i ciechi stromenti dello
straniero; poi, sostituite autorità provvisorie locali a una Autorità centrale che le congiunga e le
rappresenti, presenti all'insolente straniero tutto il popolo armato.
A Roma, a Roma, senza traditori nel campo!
A Roma, con una bandiera non contaminata di servitù, di menzogne, di disonore. Cominci l'Era
della Nazione e Roma ne detti il Patto‖. (19)
22
11. L'annessione di Roma
Il problema dell'annessione di Roma venne risolto tre anni dopo, nel 1870. Quando scoppiò la
guerra tra la Francia e la Prussia, Napoleone III ritirò rapidamente le sue truppe da Roma e poco
dopo, alla caduta dell'impero francese, il governo italiano si ritenne a sua volta libero da ogni
impegno verso la Francia.
Dopo aver tentato invano di giungere a un accordo con il pontefice, il governo ordinò a un reparto
dell'esercito, al comando del generale Raffaele Cadorna, di avanzare su Roma. Il 20 settembre
1870, dopo aver vinto una breve resistenza pontificia, le truppe italiane entrarono in Roma
attraverso una breccia presso Porta Pia, praticata nella cinta muraria a colpi di cannone. Aveva così
termine, dopo molti secoli, il potere temporale dei Papi. Qualche tempo dopo, un plebiscito
decideva l'annessione della città e delle province romane al Regno d'Italia.
Il governo del Regno aveva infatti, ―nei memorandum diramati all'estero, proclamato il diritto dei
romani di scegliersi il governo che desideravano‖. (20) Così come era stato fatto per le altre
province italiane, anche a Roma fu indetto un referendum per sancire l'avvenuta riunificazione della
città con il Regno d'Italia.
La formula dapprima vedeva all'inizio del quesito proposto le parole ―Colla certezza che il governo
italiano assicurerà l'indipendenza dell'autorità spirituale del Papa...‖. (21) Questa premessa fu poi
giudicata inutile e la domanda fu posta nei seguenti termini: ―Vogliamo la nostra unione al Regno
d'Italia, sotto il governo del re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori?‖. (22)
Inizialmente il governo a Firenze aveva escluso dalla votazione la ―Città Leonina‖ (con questo
termine si definiva quella parte centrale di Roma, coincidente con il Vaticano, che Leone IV aveva
fatto circondare di mura protettive dopo la terribile incursione saracena del 23 agosto 846. La cinta
muraria, inaugurata nell'anno 852, era impostata su Castel Sant'Angelo ed era munita di 44 torri e 3
porte. Sulla riva destra del Tevere esse avevano fatto nascere un insediamento fortificato, distinto da
Trastevere. Le Mura Leonine erano un'appendice minuscola delle Mura Aureliane, ma
rappresentavano il più importante intervento urbano dell'alto Medioevo in tutto l'Occidente
cristiano. La grande cinta aureliana difendeva un insediamento che aveva come referenti territoriali
le subregioni laziali (Patrimonio di S. Pietro o Tuscia, Campagna, Marittima ecc.), al contrario, la
piccola cinta leonina diventò il faro dell'intero Occidente cristiano. Per secoli la Città Leonina si
contrappose al centro abitato nell'ansa fluviale sulla sinistra del Tevere: così, fin dal IX-X secolo,
diventò evidente la bipolarità ecclesiastica tra Vaticano e Laterano. Poi, a partire dal Cinquecento,
con l'ingrandimento e il rafforzamento dell'insediamento voluto da Pio IV, diventò improprio l' uso
del termine Città Leonina e con Sisto V risorse l'antico termine di Borgo). (23)
23
Le rimostranze della popolazione spinsero però le autorità locali a permettere anche a Roma il
normale svolgimento della consultazione.
12. Il plebiscito del 2 ottobre 1870
Il plebiscito si svolse il 2 ottobre 1870. I risultati videro la schiacciante vittoria dei ―sì‖, con 40.785
voti, a fronte dei ―no‖ che furono solo 46.
Il risultato complessivo nella provincia di Roma fu di 77.520 "sì" contro 857 "no".
In tutto il territorio annesso i risultati furono 133.681 "sì" contro 1.507 "no". (24)
L'anno successivo (1871) si ebbe il trasferimento della capitale.
13. Pio IX si proclama “prigioniero” dello Stato italiano
Pio IX condannò aspramente l'atto che sottrasse alla Curia Romana il secolare dominio su Roma.
Per risolvere il nuovo problema dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa e quello della presenza in Roma
dell'autorità regia e di quella papale, nella primavera del 1871 il parlamento italiano approvò la
―Legge delle Guarentigie‖ (= garanzie), che assicurava al pontefice la più assoluta indipendenza
dallo stato italiano e la piena libertà di esercitare il suo ministero spirituale. La legge assegnava al
papa anche una forte somma annua e la proprietà dei palazzi del Vaticano e del Laterano, oltre alla
villa di Castelgandolfo, considerati fuori del territorio italiano.
Pio IX non accettò la legge che regolava la questione del potere temporale con un atto unilaterale
dello Stato italiano e il 15 maggio 1871 pubblicò l'enciclica ―Ubi nos‖ in cui riaffermò la necessità
per la chiesa del ―civile principato‖ per esercitare ―la suprema potestà ed autorità‖. (25) Dopo di
che, si rinchiuse in Vaticano dichiarando ufficialmente di considerarsi prigioniero dello stato
italiano e lì vi rimase fino alla morte avvenuta nel 1878. Inoltre scomunicò tutti gli artefici della
presa di Roma e intimò ai cattolici, con il celebre decreto ―Non expedit‖ (―Non conviene‖) del 10
settembre 1874, di non partecipare più da quel momento alle elezioni politiche nel Paese e, per
estensione, di non partecipare alla vita politica italiana. (26)
Questa disposizione, per altro, fu espressa in più di un'occasione – anche in epoca successiva – da
diversi organismi vaticani, come ha puntualmente ricostruito Giacomo Martina (27):
1. il 30 gennaio 1868, su richiesta dei Vescovi piemontesi che chiedevano se era lecito per i cattolici
partecipare alle elezioni politiche, la Sacra Congregazione per gli Affari Ecclesiastici Straordinari
rispose con il ―non expedit‖, ossia ―non è conveniente‖. Questa linea politica fu ripresa
successivamente più volte dalle Autorità ecclesiastiche;
2. il 9 novembre 1870, ossia dopo la presa di Roma e in concomitanza con le elezioni politiche del
giorno 5 dicembre, la Sacra Penitenzieria si espresse nello stesso modo;
24
3. ancora la Sacra Penitenzieria ribadì il ―non expedit‖ in una comunicazione ai Vescovi italiani il
10 settembre 1874;
4. papa Pio IX espresse lo stesso concetto diverse volte: il 18 giugno 1874 in un discorso alle Opere
Cattoliche; l‘11 ottobre 1874 in un discorso alle donne cattoliche del circolo romano di S. Melania;
il 21 dicembre 1874 in una allocuzione al Collegio dei Cardinali; il 25 novembre 1876 in un
―breve‖ inviato al Congresso Cattolico di Bologna; il 29 gennaio 1877 in un ―breve‖ inviato al
presidente della Gioventù Cattolica;
5. l‘intervento ecclesiastico più decisivo sarebbe stato però quello del Sant'Uffizio, nel luglio 1886,
durante il pontificato di Leone XIII, con la formula ―non expedit prohibitionem importat”. (28)
In questi documenti il divieto di partecipare alla vita politica del Paese era motivato dal fatto che,
partecipandovi, si riconosceva al nuovo Stato italiano una legittimità che i Pontefici, almeno fino a
Pio X, non riconoscevano, avendo perso a causa dell‘unità italiana quel potere temporale ritenuto di
diritto divino e assolutamente necessario per l‘indipendenza del Pontefice. Così Pio IX si esprimeva
nel suo intervento dell'11 ottobre riportato da Martina:
“La scelta [politica, ndr] non è libera, perché le passioni politiche oppongono troppi e potenti
ostacoli. E fosse anche libera, resterebbe un ostacolo anche maggiore da superarsi, quello del
giuramento che ciascuno è obbligato a prestare senza alcuna restrizione. Questo giuramento, notate
bene, dovrebbe prestarsi a Roma, qui nella capitale del cattolicesimo, qui sotto gli occhi del Vicario
di Gesù Cristo… si deve giurare di sancire lo spoglio della Chiesa, i sacrilegi commessi,
l‘insegnamento anticattolico…‖. (29)
Il divieto imposto dal ―Non expedit‖ sarebbe caduto soltanto nel 1919. (30)
14. La Legge delle Guarentigie
Nonostante la strenua opposizione di Pio IX, la Legge delle Guarentigie entrò in vigore. (31 e doc.
3) Finiva così, almeno per quel momento, la difficilissima vicenda dei rapporti fra Stato e Chiesa.
Aveva vinto Cavour, allora?
No, neppure lui aveva vinto. Perché Roma significava anche – e soprattutto – la fine del
piemontesimo, che era stato ricorrente motivo del dibattito politico nei primi anni di vita dello Stato
unitario, e l'inizio di un periodo di più intensa vita nazionale. E probabilmente, se Cavour fosse
stato ancora in vita, sarebbe stato travolto dai nuovi equilibri che lo spostamento della capitale a
Roma (lui che si vantava di non essere mai ―sceso sotto Firenze!‖) avrebbe finito inevitabilmente
per comportare.
Alla Legge delle Guarentigie lo Stato italiano nei rapporti con la Chiesa si attenne per quasi
sessant'anni, fino al Trattato e al Concordato sottoscritti a Roma fra la Santa Sede e l'Italia l'11
25