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meccanici si dannano con viti e bulloni, i manager speranzosi e 
ansiosi, la pit-lane… 
Poi ci sono loro, i veri attori protagonisti di questo spettacolo: i 
piloti. Giovani. Alcuni giovanissimi. Quasi mi sembra impossibile 
che siano proprio loro a salire su quei bolidi per affrontare rettilinei 
alla velocità di 400 Km/h!!! 
La gara prende il via. Le tribune sono impressionanti, così grandi 
e stracolme di spettatori. Il mio cuore sembra voler entrare nella 
competizione perché pulsa e corre veloce. Ma so che lui si 
emoziona sempre per gli eventi nuovi, particolari e sensazionali. 
Così accade anche per questo. Tutto come previsto. 
E’ però l’inatteso, l’inaspettato a turbarmi, a sconvolgermi e a 
inquietarmi come non mai. Una chiazza di colore blu, che so essere 
una macchina, sbatte, si gira e si rigira su se stessa, fino a 
spezzettarsi in più tronconi. La rapidità con cui l’incidente avviene 
è così elevata da non comprendere la dinamica. E’ Terribile. 
Orrendo. 
Si viene a sapere che si tratta di Greg Moore. Ha 24 anni. 
Subito soccorso, viene portato all’ospedale più vicino. Le sue 
condizioni vengono dichiarate molto gravi. Non riesco però a 
credere che possa accadere l’irreparabile. Non nella prima “mia” 
gara americana! Colta da una improvvisa onnipotenza tipicamente 
infantile penso che l’oscurità non possa ora calare: c’è il sole e ci 
sono io. Può capitare ad altri e altrove. Non a Greg, del quale avevo 
letto e del quale tanto avevo sentito raccontare. 
La notte è però scesa, buia e così fredda in mezzo al deserto. 
Moore è stato fagocitato dalle tenebre che troppo presto sono 
arrivate in quella domenica di fine ottobre. 
I colori, la luce, i volti si sono incupiti. Quel luogo non era più 
quello, il suo aspetto era talmente mutato che mi è parso di essere 
stata trasportata in pochi secondi altrove, lontano…l’aria pesante, 
greve e plumbea soffocava il respiro. 
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Frastornata, sconcertata, percepivo ogni azione, ogni attività 
come particolarmente lenta e i suoni uditi erano indistinti. 
Quando i pensieri hanno cominciato a ricomporsi in maniera 
leggibile e più organica, ho potuto meglio riflettere riguardo alla 
bufera che aveva travolto e sconquassato molti dei presenti. Nel 
mio cervello hanno riecheggiato le immagini e i dialoghi del 
pomeriggio. “Greg era un impulsivo, troppo spesso viaggiava oltre 
il proprio limite!”; “Ha osato troppo. Bisogna avere testa…”. 
Discorsi di questo tipo mi hanno colpita. 
Personalmente, ritengo che il pilota Greg Moore non fosse poi 
tanto differente da tutti gli altri. Appartenevano solo a lui il suo 
aspetto, il suo modo di fare, il suo accento di canadese, la sua 
simpatia. Caratteristiche di questo tipo insomma, che facevano di 
Greg un essere umano speciale e unico. Non credo invece che il suo 
modo di pensare da pilota fosse poi tanto diverso da coloro che 
hanno intrapreso la medesima carriera. 
Moore correva in macchina. Così si sentiva realizzato. Il suo 
istinto più profondo e più vero, lo aveva portato in pista. 
Gareggiava per amore e dedizione all’esistenza, per la ricerca della 
propria felicità. Nessuno lo aveva costretto. Lui aveva scelto fra 
decine di alternative possibili. Proveniva da una famiglia 
benestante, come la quasi totalità dei piloti, e le strade da poter 
intraprendere saranno state le più svariate. Nessuna di queste lo 
entusiasmava, però, come quella che ha poi percorso.  
Questo giovane aveva scelto la vita. Greg l’aveva abbracciata. Il 
dio della Morte avrebbe baciato solo gli stolti. E lui non lo era. Era 
consapevole che nelle corse non si scherza e che negli ovali le gare 
sono ancora più pericolose per l’assenza di ampie vie di fuga. Ma 
lui non scherzava. 
Greg, come la maggior parte dei piloti, diceva di conoscere il 
proprio limite. Il rischio era sempre in agguato, ma non lo avrebbe 
di certo colto alla sprovvista. Se solo avesse pensato e creduto nel 
profondo del suo cuore, di poter cessare di respirare contro un muro 
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ogni volta che saliva in macchina, avrebbe sicuramente gettato 
guanti e casco molto tempo prima. Ad altri poteva succedere di 
terminare la corsa prima del previsto, non a lui.  
Perché allora la notte è scesa in quella pista californiana per 
nascondere e rapire Greg? 
Un articolo sulla Gazzetta dello Sport di Pino Allievi può offrire 
forse una risposta: “Phil Hill, oggi, è un signore benestante che vive 
a Santa Monica, una delle località più belle e in della California. Ad 
ogni estate, fa un viaggio di piacere in Europa. Dove assiste, se 
capita, a qualche Gran Premio. Quest’anno era a Spa. Ed a Monza. 
Hill è una persona gradevole, che parla discretamente l’italiano e 
che ha il gusto del racconto di quei tempi eroici e un po’ folli. In cui 
poteva capitare che i piloti della Ferrari si sfidassero tra Bologna e 
Modena a marcia indietro, al buio, istigati dall’indimenticabile 
Cesare Perdisa, animatore di notti esagerate e scherzi senza freni. 
Di Wolfgang von Trips, che invece era in testa alla classifica del 
mondiale sino alla vigilia della fatale Monza, resta solo il ricordo 
degli amici di un tempo, di raffinati cocktail nel giardino del suo 
castello e delle buonissime torte di sua madre. 
Su ordine di Ferrari, von Trips pochi anni prima non aveva dato 
battaglia a Taruffi, agevolando la vittoria della volpe argentata alla 
Mille Miglia. L’ultimo tedesco Ferrari prima di Schumacher era 
laureato in agronomia e quello sarebbe stato il suo domani. Infatti, 
dopo il GP d’Italia [dove perse la vita], Wolfgang si sarebbe dovuto 
recare negli USA per un viaggio di studi con un gruppo di agronomi 
tedeschi. Il volo partì senza di lui, ma pochi minuti dopo il decollo 
l’aereo si schiantò al suolo. Non ci furono superstiti. Il destino di 
von Trips era proprio segnato nelle stelle”. 
La sorte, il fato decidono e scrivono. E questo in Europa come 
negli Stati Uniti d’America. 
Dopo l’esperienza forte e drammatica vissuta sul circuito di 
Fontana, hanno preso corpo e si sono in me rafforzati interesse e 
curiosità verso il mondo dell’automobilismo. Domande e 
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interrogativi hanno cominciato a percorrere e insidiare i miei 
pensieri. E così il fervido desiderio di comprendere il modo in cui la 
passione per vetture e competizioni si insinua e cresce nei giovani 
piloti e nei giovani tifosi mi ha condotto ad abbracciare questo 
lavoro. Ho tentato allora di vagliare e indagare percezioni ed 
emozioni, atteggiamenti e comportamenti di questi ragazzi, 
ipotizzando che molti dei loro modi di fare e il loro sentire 
appartenessero comunque al più vasto universo giovanile. Ma nello 
specifico, quali possono essere le divergenze e le similitudini fra 
piloti e tifosi da una parte e la realtà dei ragazzi in generale 
dall’altra? E cosa accomuna o divide piloti e tifosi? 
Questa tesi si pone come obiettivo anche la risoluzione di questi 
quesiti, tenendo comunque presente come Verità assolute e 
indiscutibili difficilmente possano essere raggiunte e conseguite. 
L’intento metodologico qui portato avanti è piuttosto quello 
descritto da Cipolla relativo all’adduzione, “un modo di affrontare 
la ricerca empirica che non privilegia né la deduzione … né 
l’induzione … Adduzione, allora, è conoscere e possedere qualche 
ipotesi teorica, ma non pre-imporla alle cose, chiudendole così in 
questa sorta di gabbia delle verità. E’ essere aperti e disponibili alla 
scoperta, al debolmente nuovo, all’inatteso, al non previsto o 
preventivabile” (Cipolla, 1997: 37). 
L’impresa non si preannuncia certo fra le più semplici, ma 
impegno, determinazione e perseveranza saranno comunque 
costanti in questo tragitto che mi affascina e mi intriga. 
La prima parte della tesi, più prettamente teorica, cercherà di 
analizzare, anche grazie al fondamentale contributo delle ricerche di 
studiosi e sociologi, il mondo giovanile nei suoi poliedrici e 
molteplici aspetti, facendo attenzione a tutto ciò che lo circonda e lo 
avviluppa. 
Volendo poi indagare la passione per l’automobilismo, sarà 
necessario valutare comportamenti e atteggiamenti connessi alla 
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guida, vagliando così anche le possibili cause degli incidenti 
stradali, di costante e triste attualità. 
La velocità e i ritmi sostenuti, che forse caratterizzano non solo 
autodromi e strade, hanno condotto allo studio del rapporto 
personale vissuto con i fattori tempo e rischio. 
La seconda parte della tesi, più strettamente empirica, raccoglierà 
le interviste ai piloti e ai tifosi, ricercando costantemente 
connessioni e congruenze con quanto riportato e sostenuto in 
precedenza. 
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Capitolo  Primo 
 
                                                                 
TELESCOPIO PUNTATO SUL MONDO 
GIOVANILE 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1.1.  L’età delle incertezze 
 
 
Il pianeta giovani attira su di sé l’attenzione e l’interesse del 
mondo degli adulti e soprattutto degli studiosi che in esso vedono 
sempre qualcosa da osservare e scoprire, da capire e comprendere, 
pienamente consapevoli che i giovani, se rappresentano la linfa 
vitale del presente, impersonano anche, e a pieno titolo, il futuro in 
cui vanno a proiettarsi speranze, attese, aspirazioni. 
Definire i confini temporali della giovinezza è oggi cosa sempre 
più ardua. Tutte le indagini condotte negli ultimi decenni in Europa 
hanno messo in luce un fenomeno ormai inequivocabile: tra la fine 
dell’adolescenza e l’ingresso nella vita adulta è emersa e si è 
generalizzata una nuova fase del ciclo di vita, variamente 
denominata post-adolescenza o gioventù, che tende a estendersi 
come durata e a diffondersi presso quote crescenti di popolazione. I 
giovani non sono più degli adolescenti, se l’adolescenza finisce con 
l’acquisizione della piena capacità sessuale di procreare, ma non 
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sono ancora adulti, se la vita matura significa piena assunzione di 
responsabilità sociali. 
In particolare, sembra notevole il disaccordo sul limite d’età che 
dovrebbe immettere nella fase adulta. “L’oscillazione è quanto mai 
ampia, ed abbraccia quasi un decennio, dai 20 ai 29 anni, riflettendo 
una sostanziale situazione di incertezza sociale […] con un 
progressivo spostamento in avanti ed una progressiva dilatazione 
dell’area definita come giovinezza ed uno slittamento in avanti di 
tutte le età della vita. Ormai la giovinezza può arrivare anche sino ai 
trenta anni e non desta maraviglia vedere, nella stampa quotidiana 
frasi come «un ragazzo di quaranta anni»” (Cipolla, 1989: 263). 
La cultura adulta mostra un atteggiamento ambivalente nei 
confronti dei giovani: da un lato celebra la gioventù come una sorta 
di età dell’oro, di pienezza di energie e di giuliva irresponsabilità (a 
volte cercando persino di imitarne gli stili di vita), dall’altro lato 
però ne lamenta l’indolenza e l’immaturità. Tutto ciò non è certo 
una novità ed è vero oggi come lo era in passato. Quello che rende 
tipica la gioventù moderna rispetto alle società tradizionali è che nel 
quotidiano essere giovani significa, per i più, vivere in una 
dimensione di incertezza. Le esitazioni, i dubbi e le ansie 
riguardano, prima di tutto, il proprio futuro: i giovani si trovano, e 
ne sono ben consapevoli, al centro di un percorso, di un cammino, 
ma il più delle volte non sanno quale meta dovranno raggiungere. 
Questa poca chiarezza nei confronti del proprio punto di attracco e 
il disorientamento che ne deriva, generano l’angoscia e 
l’inquietudine del vivere giovanile 
Oggi le origini sociali di un individuo non sono più il solo fattore 
determinante l’avvenire e i giovani, nel loro tragitto, incontrano 
spesso bivi, rendendosi conto della necessità di compiere delle 
scelte. Emerge così la consapevolezza che il futuro dipende, almeno 
in qualche misura, proprio dalle selezioni che si è in grado di 
operare. L’attività del prescegliere non è però molto semplice 
perché implica l’avere ben chiare le alternative e le opportunità che 
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il mondo offre e perché necessita l’analisi delle proprie preferenze. 
Come si può ben immaginare, “entrambe le dimensioni, quella 
esterna delle opportunità e quella interna delle preferenze, non sono 
mai del tutto trasparenti” (Buzzi, Cavalli, de Lillo, 1997: 16). 
Il giovane è consapevole del fatto che l’accettare un certo tipo di 
opzione significa anche scartarne tantissime altre; emerge pertanto 
un presente contingente in cui gli accadimenti che si dispiegano 
seguendo un dato percorso potrebbero avanzare anche in altra 
maniera: tutto dipende dalla scelta iniziale operata, che appare così 
terribilmente e paurosamente “fatale”. 
Sembra che oggi ci si trovi di fronte ad una “«dilatazione dei 
possibili». In un contesto di forte differenziazione istituzionale, di 
marcato pluralismo culturale, di «molteplicità di mondi vitali», 
vengono meno per i soggetti i punti di riferimento unitari, mentre 
aumentano le possibilità di scelta, l’eccedenza delle opportunità” 
(Garelli, 1984: 26). 
Le cose non sono andate sempre così. 
“Negli anni cinquanta, e sin quasi alle soglie de ’68, filo 
conduttore della crescita era la prepotente tensione a inserirsi nella 
società adulta che offriva modelli di riferimento tradizionali e 
condivisi dalla maggior parte della società” o almeno così sembrava 
(Bisi, Brunello, 1995: 21). L’educazione ruotava all’insegna della 
continuità e l’insistere su valori quali l’onestà e l’integrità, 
l’impegno nello studio, la solerzia, l’acquisizione della competenza 
professionale, consentiva e ampiamente favoriva l’inserimento nella 
società e un sicuro ingresso nei ruoli adulti, sia sociali che 
professionali. Nel momento in cui la società risultava relativamente 
salda e ferma, le istanze di cambiamento venivano conculcate a 
favore della predominante stabilità economica e sociale; anche se 
alcune idee moderne circolavano e si innestavano sulla 
consuetudine, non si evidenziavano particolari scompensi o 
squilibri. Predominava la consapevolezza di potersi collocare al 
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posto giusto e le prospettive di vita venivano percepite come 
pienamente accettabili (Bisi, Brunello, 1995). 
Nel ’68 i giovani si sono resi maggiormente visibili, mostrandosi 
in molti modi vivamente coscienti del mutamento in atto e hanno 
lottato, con toni e modalità forse talora anche discutibili, contro 
tutto ciò che appariva ormai cristallizzato, arretrato, convenzionale 
e non più accettabile. Negli anni settanta si diffuse pertanto un 
clima di tensione, di contrasto e di conflittualità nei confronti delle 
istituzioni che si volevano “a tutti i costi, e nel più breve tempo 
possibile, vedere del tutto scardinate insieme con quei principi etici 
che pure erano stati delle pietre miliari, dei baluardi a lungo ritenuti 
ben saldi e incrollabili” (Bisi, Brunello, 1995: 22). I ragazzi 
comunicano un disagio e un disadattamento rispetto alle regole 
preparate per loro. 
Negli anni ottanta, muta il contesto di riferimento che appare 
sicuramente più complicato, frastagliato e confuso rispetto a quello 
precedente perché caratterizzato da una forte differenziazione 
sociale che si può individuare a vari livelli: a livello organizzativo, 
dato che all’interno della società nessun gruppo o istituzione è 
capace di svolgere una funzione egemonica o totalizzante; a livello 
culturale, per l’estrema varietà di modelli di riferimento, per la 
pluralità degli stili di vita e di risposte alle varie problematiche; a 
livello sociale, per la molteplicità delle opportunità e delle 
condizioni di vita. E’ importante sottolineare come i tratti tipici del 
tempo siano il venir meno dell’omogeneità, della compattezza, con 
la conseguente perdita di valori unitari; significati e accezioni si 
moltiplicano delineando così un pluralismo culturale. Nel momento 
in cui vengono meno punti di riferimento unitari e condivisi dai più, 
i giovani avvertono il passaggio discontinuo dall’ambito di 
socializzazione ristretto - la famiglia - al contesto sociale  più 
allargato: spesso infatti le concezioni di vita predominanti nel 
nucleo familiare di appartenenza sono contrapposte e smentite da 
altre impostazioni presenti nel più vasto mondo esterno con cui si 
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entra in contatto. I giovani appaiono così orientati a operare delle 
scelte di fondo tra le tante proposte in cui si imbattono (Bisi, 
Brunello, 1995). 
Negli anni novanta, “emergono valori innovativi che convivono 
con quelli del passato e che ancora non sono in grado di formare un 
assetto coerente  e condiviso dalla maggioranza della popolazione” 
(Bisi, Brunello, 1995: 23). Ciò che emerge in primo piano è allora il 
singolo, l’individuo in una società che si mostra sempre più 
eticamente neutra, che “non fa scelte etiche, non le indica, ma dice 
a ciascuno: la scelta d’azione è personale, tu devi fare la tua, dato 
che non c’è regola sociale comune, e le opzioni non sono più 
confrontabili, anzi non fanno più differenza” (Donati, Colozzi, 
1997: 25). 
Vivere in questa società può essere entusiasmante, eccitante e 
può anche risultare comodo; si riduce ogni conflitto e si invia un 
messaggio alquanto particolare: segui le regole che ti sei dato. Si 
esorta ciascuno a seguire la propria regola privata, mentre la società 
decide di non decidere, esce da ogni dubbio stabilendo di non avere 
norme morali in comune. In questo modo non aiuta certo a prendere 
decisioni. Il giovane si trova esposto a molteplici sollecitazioni, 
portatrici di valori specularmente contrapposti e orientarsi risulta 
difficile. “La società si sfarina. Nessuno l’avverte più come una 
realtà «centrata», capace di regalare agli individui regole e mete 
vivibili. Tutto il peso si sposta, così, sul soggetto: l’uomo moderno 
è solo nella scelta dei fini e delle condotte di vita, perché nessuno è 
più in grado di dispensare certezze, se non provvisorie e revocabili” 
(Morcellini, 1994: 15). 
Vitale è comunque scegliere: pare che i giovani comprendano la 
necessità di imboccare una strada, di superare un incrocio per poter 
crescere, ma, forse con un senso ancora più acuto e pungente di 
quanto non avvenga negli adulti e negli anziani, i giovani sembrano 
percepire una pesante coltre di solitudine nel momento in cui 
ricoprono il ruolo di attori della scelta. La difficoltà risiede 
 12
probabilmente nella consapevolezza che dalla propria decisione 
dipende il proseguimento del cammino personale, mentre il clima 
circostante non facilita certo la cernita delle opportunità. Oggi 
infatti le occasioni per i giovani non sono solo plurime ma anche 
confuse e gli stimoli incerti non contribuiscono di sicuro ad una 
chiarificazione. Di fronte a molteplici sollecitazioni, portatrici di 
valori in conflitto fra loro, i ragazzi si trovano di fatto indifesi, non 
essendo in possesso di strumenti idonei per orientarsi tra modelli 
troppo distanti e per collocare in modo giusto le proprie esperienze 
(Bisi, Brunello, 1995). In questa situazione occorrerebbe forse 
scegliere una condizione provvisoria come definitiva, dando 
stabilità al precario. Eppure tutto ciò “presuppone da parte dei 
soggetti l’aver maturato una forte identità, una personalità già 
formata e matura, il poter far leva su un forte senso di sicurezza… 
tutti elementi che appaiono carenti o problematici nella presente 
condizione giovanile” (Garelli, 1984: 27). 
Per un ragazzo, l’imboccare una strada con convinzione, 
sicurezza, con decisione e disinvoltura potrebbe risultare intricato e 
difficile già in sé, vista la giovane età e la poca esperienza che ne 
consegue. Tutto sembra reso ancora più complicato dal pluralismo 
confuso che pare inseguire l’attore sociale nel momento in cui si 
appresta a compiere passi importanti. In particolare, Cipolla 
definisce così il pluralismo: “Monismo che esce di scena […] 
Visione multilaterale e multiforme delle cose […] Trovarsi in una 
condizione opposta rispetto a quella solipsistica […] Pluralismo 
come perdita di ogni centro sovra-ordinatore […] Pluralismo come 
interazione che non comporta sovranità pre-ordinate” (Cipolla, 
1997: 2136). 
Nella contemporaneità, l’identità dei giovani sembra pertanto 
caratterizzarsi per una sorta di indeterminatezza e di 
imprevedibilità, quasi di labilità, tipica di soggetti orientati ad una 
realizzazione differenziata. Risulta infatti assai arduo fotografare 
una volta per tutte l’atteggiamento, gli stili di vita e i modelli di 
 13
comportamento delle giovani generazioni. E questo perché i giovani 
appaiono come «pendolari» tra diverse appartenenze e riferimenti 
culturali (Garelli, 1984). Di fronte a stimoli multiformi e friabili, 
spesso anche contraddittori, è difficile costruire un io coerente, 
compatto, lineare e costante. In fondo, non è forse l’ambiente, 
complessivamente inteso, a condizionare i nostri pensieri e le nostre 
attività? 
La categoria interpretativa che più sembra rendere ragione 
dell’ambivalenza dei modelli di comportamento dei giovani pare 
oggi quella dell’adattamento. “La convivenza con la complessità e 
la differenziazione sociale non si limita ovviamente ai soli aspetti 
positivi: aumento di riflessività, molteplicità degli ambienti di 
riferimento, varietà della biografia, modello di realizzazione 
articolato e vario. Perdita di riferimenti unitari, aumento di 
incertezza, venir meno dei riferimenti collettivi, non praticabilità di 
risposte totalizzanti, aumento dell’irresolutezza, esposizione alla 
dissociazione: questi non sono che alcuni degli aspetti problematici 
legati al vivere nell’attuale società” (Garelli, 1984: 28). E così, per 
esempio, il desiderio di essere i protagonisti della scena o la voglia 
di stupire che si rintracciano in molti degli attuali comportamenti 
giovanili possono riflettere la mancanza di chiari orientamenti: si è 
alla ricerca di qualcosa di indefinito e di indefinibile capace di 
colmare in qualche modo il vuoto da cui spesso si è circondati e 
avviluppati. 
In questo clima caratterizzato dall’assenza di saldi e importanti 
punti di riferimento, le ricerche evidenziano la tendenza a 
dilazionare la maggior parte delle scelte, a posticipare quel 
passaggio che conduce all’ingresso nella vita adulta (Buzzi, Cavalli, 
de Lillo, 1997).  
 
 
 
 
 14
1.2.  I giovani-adulti e il loro contesto familiare 
 
E’ vero che nelle società moderne, i confini tra le diverse età del 
ciclo di vita appaiono molto più sfumati e aleatori rispetto alle 
società tradizionali. Non esistono più dei veri e propri riti di 
passaggio capaci di marchiare simbolicamente e a volte 
drammaticamente l’ingresso nell’età adulta. Più precisamente, 
anche se alcuni di questi riti vivono ancora, come il conferimento di 
un diploma o il matrimonio, il loro valore simbolico si è di molto 
attenuato. 
“In generale, tuttavia, si può dire che un giovane uomo, o una 
giovane donna, sono diventati adulti quando hanno varcato una 
serie di soglie: 
a) hanno concluso la parte più rilevante del loro iter formativo; 
b) occupano una posizione relativamente stabile nella divisione 
sociale del lavoro; 
c) hanno abbandonato la casa dei genitori; 
d) si sono sposati; 
e) quando, con la paternità e maternità, si assumono delle 
responsabilità nei confronti di una generazione successiva” 
(Cavalli, de Lillo, 1993: 205). 
Oggi emerge così la tendenza a posticipare ognuno di questi 
passaggi verso un’età anagrafica sempre più avanzata. Si allunga 
poi la distanza temporale tra i momenti in cui vengono varcate la 
prima e l’ultima soglia. 
La realtà che viene a delinearsi è causata da una serie di fattori 
sia strutturali sia culturali. “Tra i primi, il prolungamento abnorme 
di certi percorsi di studio (ad esempio, il fenomeno degli studenti 
fuori corso nelle università e il conseguimento tardivo del titolo di 
studio), il tasso assai elevato di disoccupazione giovanile, la rigidità 
del mercato degli alloggi con la conseguente difficoltà per i giovani 
e giovani coppie di uscire dalla casa dei genitori e stabilire un 
ménage indipendente. Tra i secondi, la scarsa accettazione sociale 
 15
del fenomeno delle convivenze di giovani non sposati e la scarsa 
propensione ad avere figli fuori dal matrimonio, fenomeni, come è 
noto, assai più diffusi nei Paesi del Nord Europa” (Buzzi, Cavalli, 
de Lillo, 1997: 18). 
Il fenomeno della famiglia lunga risulta così essere caratteristica 
tipica italiana. Non sono infatti pochi neppure i giovani che, pure 
avendo terminato gli studi ed essendosi inseriti stabilmente in una 
attività lavorativa, continuano a convivere con i genitori. Molti 
hanno interpretato questo fenomeno anche come l’effetto di un 
persistente familismo, cioè di “un reciproco senso di impegno, 
condivisione, cooperazione e intimità considerato costitutivo dei 
legami tra i membri della famiglia” (Dizard, Gadlin, 1997: 24), 
peculiarità questa di una tradizione culturale di matrice cattolica. 
I giovani-adulti, più che emanciparsi dalla famiglia, negoziano 
così all’interno di essa consistenti ambiti di libertà. Godono spesso, 
all’interno dell’abitazione, di un proprio spazio che gestiscono in 
modo autonomo sia per quanto riguarda l’arredamento sia per 
quanto concerne le persone che possono, o non possono, accedervi. 
La sera escono, come e quando vogliono, senza particolari 
restrizioni sull’orario del rientro e non devono dar conto ai genitori 
delle persone che frequentano. Inoltre, i giovani che convivono e 
lavorano contribuiscono sempre meno coi loro guadagni al bilancio 
famigliare. Oltre una certa età, si fa strada un patto di reciproco 
rispetto e non interferenza tra genitori e figli e, in questa maniera, si 
limitano gli elementi costrittivi all’interno del nucleo famigliare. In 
particolare, sembrerebbe delinearsi questa situazione: “i genitori 
restringono i confini dei territori di loro competenza, nel senso che i 
comportamenti di controllo, di forte direttività, di invadenza da 
parte degli adulti non sono più ampi e totalizzanti, ma vengono 
delimitati ad alcuni ambiti particolari della vita dei figli. Altri 
ambiti vengono definiti da un rapporto che possiamo chiamare di 
tipo «negoziale», di contrattazione. Altri ambiti ancora vengono