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Introduzione
Questa tesi prende avvio da due riflessioni riguardanti la condizione del
giornalismo nell’era di internet, delle fake news, della viralità e delle comunità
virtuali, senza dimenticare che si tratta anche del tempo dei progetti collaborativi,
dell’intelligenza della collettività, del picco di diffusione raggiunto da sapere e
conoscenza. Da qui si è partiti per arrivare alla presentazione di un nuovo modello,
quello del giornalismo integrato, che volutamente ricorda la nota distinzione fra
apocalittici e integrati introdotta da Umberto Eco negli anni Sessanta
(U. Eco,
Apocalittici e integrati, 1964). Con una nuova sfumatura interpretativa: in questo
lavoro, il termine integrato non designa un entusiasmo un po’ ingenuo e fazioso
verso i nuovi media, ma uno stato di armonia con la propria epoca e con l’attuale
struttura della società che il giornalismo dovrebbe quantomeno ambire a raggiungere.
Integrazione in questo caso significa essere vicini alle comunità per cui si produce
informazione, coscienti rispetto ai nuovi mezzi e alla realtà digitale, inseriti a pieno
nel proprio tempo.
In Occidente, la transizione al digitale ormai è completa. Questa nuova realtà ‒
così immateriale e leggera da essere scambiata a volte per una non realtà ‒ fa parte
della quotidianità delle persone e ne rappresenta il presente e il futuro, anche se non
si sa ancora in che misura e in che forma. Capirla, analizzarla e adattarvisi,
imparando a valorizzare le sicure opportunità e a minimizzare gli aspetti negativi del
sistema, diventa una questione di sopravvivenza. E questo vale soprattutto per il
mondo dell’informazione.
La prima riflessione muove da questa consapevolezza: nella profonda convinzione
che il giornalismo sia leale prima di tutto nei confronti dei cittadini e sia rivolto al
benessere della società in cui opera, come si concretizza la sua funzione di servizio
pubblico nell’epoca digitale? In che maniera può giovare ai lettori, come li può
guidare a comprendere la matassa della realtà, riguardo a quali temi deve prendere
posizione? Che cosa deve sostenere e che cosa deve combattere? Per cercare di dare
una risposta a tali quesiti è essenziale partire dall’analisi del contesto contemporaneo
in cui i professionisti dell’informazione si trovano a svolgere il proprio lavoro:
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perché il giornalismo non può permettersi di essere asincrono e fuori dal proprio
tempo.
Nella società contemporanea si vive connessi ‒ e circondati, immersi, quasi ‒ nei
media. Azioni come informarsi, acquistare prodotti, pagare le tasse, comunicare con i
propri simili si svolgono in gran parte online. Internet ha ormai sostituito
l’enciclopedia nell’immaginario comune ed è diventato un mezzo familiare, a cui ci
si rivolge nel momento della curiosità, del dubbio e dell’apprendimento. Le persone
vivono la propria esistenza spostandosi costantemente dalla realtà offline a quella
virtuale, varcando in continuazione il confine che delimita i due regni e che a ogni
passaggio diventa sempre più sottile e impercettibile.
Anche il giornalismo si trova a esistere in questo contesto mutato e nuovo, che
nasconde i terribili rischi e le meravigliose opportunità delle cose non ancora del
tutto conosciute. Che ruolo dovrebbe avere in tutto questo? Come dovrebbe
cambiare? C’è solo un modo in cui può adeguarsi ai cambiamenti sociali, lavorativi,
culturali e tecnologici degli ultimi anni? Guardandosi attorno, frequentando le
bacheche dei social network e i principali portali d’informazione sembra che il
destino di questa professione sia improntato alla velocità, all’aggiornamento non-
stop, alla rincorsa dei numeri, a guadagni sempre più miseri. Il sistema che si è
imposto, caratterizzato da un modello di business condizionato dalla pubblicità e dal
flusso continuo di comunicazioni, non si sta rivelando robusto, né tantomeno
soddisfacente per chi ne fa parte e per il pubblico. L’insoddisfazione dei lettori ha
portato alla disaffezione e alla diffidenza nei confronti degli organi di informazione,
a una crisi di credibilità che paradossalmente alimenta la disinformazione: dal
momento che parte del pubblico non si fida più dei media tradizionali, si informa
altrove, rivolgendosi a fonti alternative, che sembrano più vicine alle persone e alle
loro esigenze, ma che spesso non offrono lo stesso grado di professionalità e
attendibilità.
In un recente articolo apparso su “Il Fatto Quotidiano”, Domenico De Masi, ex
Preside della Facoltà di Scienze della Comunicazione all’Università La Sapienza di
Roma, identifica i quattro principali fattori della crisi dei giornali: «la decrescente
credibilità dei giornalisti; l’eccessiva somiglianza e sovrapponibilità dei giornali; il
proliferare delle fonti informative non cartacee; il progressivo prosciugarsi delle fonti
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di finanziamento» (De Masi, Perché i giornali stanno soffrendo, 2019). Ma
l’intervento di De Masi non è isolato: la sua è una delle tante voci, italiane e
internazionali, che si sono interrogate riguardo al futuro del giornalismo e alle sfide
che lo attendono nell’attuale sistema mediatico. Il dibattito pubblico, a livello sia
divulgativo (attraverso le testate generaliste) sia più specialistico (attraverso media
nativi digitali come il “NiemanLab”, “Poynter”, “First Draft”, “Valigia Blu”), si è
soffermato a lungo su temi con la disinformazione e la sua declinazione online, il
ruolo delle nuove piattaforme digitali come Google e Facebook nella distribuzione
dei contenuti giornalistici, la funzione che il giornalismo di qualità dovrebbe avere
nel panorama contemporaneo. Ciò che emerge è una insoddisfazione verso i modelli
che si sono imposti. Da questa consapevolezza si è partiti per delineare un possibile
percorso di evoluzione del giornalismo e immaginare quali caratteristiche potrebbe ‒
o dovrebbe ‒ avere in futuro.
La seconda riflessione ruota invece intorno a un altro tema, che a prima vista
potrebbe sembrare slegato dal primo ma che in realtà è intimamente connesso: le
nuove alfabetizzazioni.
È finito il tempo in cui le competenze di base di un individuo si esaurivano nella
classica triade del leggere, scrivere e far di conto. Queste capacità, sicuramente
fondamentali e indispensabili, non possono che essere un punto di partenza, ma da
sole non sono sufficienti per decifrare la realtà attuale e potervi prender parte
attivamente. Come la scrittura, che da hard skill posseduta solo da scribi e “tecnici”
dell’alfabeto si è trasformata in soft skill diffusa e indispensabile per ogni persona, le
competenze digitali e mediali stanno assumendo un ruolo sempre più determinante
nell’alfabetizzazione del XXI secolo. Studiare e conoscere i media, padroneggiare le
tecnologie digitali è diventato necessario in una società in cui il fenomeno della
disintermediazione, accelerato da internet, porta gli individui a essere sempre più
autonomi e meno dipendenti da figure professionali una volta indispensabili. Online,
ogni tipo di informazione è disponibile: politica, medica, culturale, giuridica. Per non
farsi trarre in inganno da dati errati o manipolati e prendere decisioni consapevoli e
significative per sé e la società in cui si vive, il pensiero critico è una dote
irrinunciabile, che deve essere costantemente allenata e affinata.
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Preoccupante è il dato dell’analfabetismo funzionale, soprattutto in Italia.
Secondo un’indagine Piaac (Programme for the International Assessment of Adult
Competencies, OCSE) pubblicata nel 2016, in Europa la diffusione del fenomeno
varia, passando dall’11% della Finlandia al 47% della Turchia (l’Italia si posiziona
appena prima dell’ultima della classifica, con un 28% condiviso con la Spagna).
Anche in uno dei continenti più alfabetizzati esistono stati in cui quasi un terzo, o
più, della popolazione non comprende appieno le informazioni di cui dispone per
prendere decisioni per la vita privata e pubblica. Un analfabeta funzionale è un
individuo che sa leggere, scrivere e far di conto ma che ha serie difficoltà nel
comprendere testi breve e semplici, come le istruzioni per configurare un cellulare.
Di conseguenza, difetta di molte competenze utili per affrontare la quotidianità,
perché i suoi problemi di comprensione facilmente lo portano ad avere una
percezione distorta della realtà. Il pensiero critico si perde se non viene
costantemente stimolato: dopo la scuola dell’obbligo molte persone non hanno, o non
cercano, occasioni per esercitarlo.
Fra le competenze oggi ritenute essenziali figurano anche quelle digitali: non è
sufficiente usare e fare esperienza delle nuove tecnologie per conoscerle e capirle.
Anche gli individui nativi digitali, che sin dalla prima infanzia sono stati abituati a
confrontarsi con il mondo digitale, con internet, i social network e gli smartphones,
possono trovare difficoltà a comprenderne gli aspetti meno evidenti e più nascosti,
come le questioni legali, etiche, economiche e culturali. Perché un contenuto è stato
creato? Da chi? Il produttore ha degli interessi? Conoscere le risposte diventa
fondamentale per giudicare la qualità e il valore delle informazioni in proprio
possesso.
Da queste due riflessioni e dalla convinzione che si tratti di problematiche più che
mai attuali, si è partiti per dare vita a un lavoro che dimostrasse in che misura
giornalismo e nuove alfabetizzazioni siano legati e come una maggiore sinergia fra
tali ambiti possa giovare a entrambi. Le fonti che si sono prese in considerazione
sono di varia natura: si va dagli articoli di giornale, di testate generaliste e
specialistiche ‒ spesso presi a esempio di un buono o cattivo modo di fare
giornalismo ‒ agli articoli accademici editi su riviste scientifiche; dalle pubblicazioni
di organi sovranazionali come l’Unesco e il Parlamento Europeo a grandi classici
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come i volumi di Eco, McLuhan, Postman, Jenkins, Hallin e Mancini, Lippmann,
Pettegree, che hanno dato fondamenta solide al lavoro. Particolare attenzione è stata
riservata ai contenuti reperibili online, nella ferma convinzione che, se usato con
cognizione e competenza, internet possa essere una miniera straordinariamente ricca
di contenuti significativi. Si sono consultati con frequenza media nativi digitali come
“Valigia Blu”, “ProPublica”, “First Draft”, “NiemanLab”, “BuzzFeed News”, “il
Post”, perché, per deformazione professionale, si dedicano più attivamente all’analisi
dei media digitali. Per natura sono più alfabetizzati digitalmente.
Per quanto riguarda la struttura del lavoro, ogni capitolo è seguito dalla relativa
Appendice, in cui sono raccolti grafici, tabelle, immagini e documenti che
approfondiscono i temi trattati nel testo.
Nel primo capitolo ci si è dedicati all’analisi del campo di studi delle new
literacies, partendo dalla definizione di ciò che è l’alfabetizzazione e dalle teorie che
nel corso degli anni ne hanno dato interpretazione. Si tratta di un ambito esteso e
complesso, in cui ogni studioso ha elaborato una propria terminologia e concezione
del fenomeno. Per non perdersi in tale labirintica vastità, ci si è concentrati in
particolare su information, media e digital literacy, ritenendo che queste tre
discipline siano incentrate su conoscenze imprescindibili per la società
contemporanea: sapere come informarsi, conoscere a fondo i media, riuscire a vivere
e agire nella moderna realtà digitale.
Il secondo capitolo è suddiviso in due parti. Nella prima, il protagonista è il
giornalismo digitale: se ne delineano la storia, le differenze rispetto al modello
analogico, le caratteristiche che lo distinguono, le pratiche professionali, gli
strumenti più all’avanguardia. Tutta la seconda parte è volta a dimostrare come il
giornalismo non possa fare a meno delle nuove alfabetizzazioni: da una parte perché
un buon giornalismo non può che essere alfabetizzato, dall’altra perché la diffusione
delle new literacies potrebbe porre un argine al dilagare della sfiducia nei confronti
dei media.
Nel terzo capitolo si analizzano i vizi dell’ecosistema mediatico digitale ‒ quali le
fake news, le bolle filtro, il sovraccarico da informazioni, i meccanismi imperfetti
degli algoritmi ‒ mettendoli in diretta relazione alla carenza di educazione ai media e
di competenze utili per padroneggiare le più recenti tecnologie.
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Infine, nell’ultima sezione si avanza una proposta: la nascita di un giornalismo
integrato, una nuova forma che, attraverso un più attivo coinvolgimento nella
diffusione delle nuove alfabetizzazioni, rappresenti il meglio dell’informazione,
quella presente e quella ancora da immaginare.
La manifestazione diretta di questo tipo di giornalismo, la sua anima, sono i
giornalisti e i lettori integrati, ossia consapevoli, competenti, critici e indipendenti nel
giudizio.
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1. Digital literacy, media literacy e tutte le altre: le
nuove alfabetizzazioni
1.1 Da Gutenberg alle alfabetizzazioni digitali
In un mondo sempre più caratterizzato dalla sovrabbondanza e pervasività delle
informazioni, segnato dall’emergere di tecnologie contraddistinte da convergenza e
interattività, potrebbe sembrare anacronistico ritornare a parlare di Gutenberg e della
tecnologia della stampa ma non lo è.
Pur essendo questa una tesi focalizzata sulle nuove alfabetizzazioni digitali e le
sfide del giornalismo di oggi, è inevitabile non pagare il giusto tributo iniziale al
tipografo tedesco e alla sua prodigiosa invenzione, principalmente per tre motivi.
Primo, il medium della stampa, e la classica alfabetizzazione a esso associata (il
tradizionale saper leggere, scrivere e far di conto), non è scomparso, sconfitto dalla
marea dei nuovi media. Giornali, libri, riviste sono stampati ogni giorno e convivono
con le più immateriali, ma non per questo meno reali, versioni digitali. Nella vita di
tutte le persone, la realtà cartacea si affianca a quella fatta di bit e megabyte, in un
gioco di continui rimandi e riferimenti, in cui vecchie abitudini, come il quotidiano
acquisto del giornale prediletto, si mescolano a nuove, quali la ricerca di contenuti e
approfondimenti multimediali sul web, come video, questionari e grafici interattivi. Il
mondo non è a compartimenti stagni. I nuovi strumenti digitali, portandosi dietro
nuove alfabetizzazioni, hanno arricchito il panorama dei media, senza sopraffare
nessuno di questi. La stampa rimane una tecnologia attuale, non sostituita ma
trasformata dalle innovazioni recenti. La crisi della carta, soprattutto nel campo
giornalistico, è un dato ormai appurato da anni, questo non si può negare: per
rimanere nell’ambito italiano, il numero delle copie cartacee vendute cala ogni anno.
Per fare un esempio, le copie diffuse in Italia del “Corriere della Sera” erano circa
634.300 nel 2006: nel 2016, dieci anni dopo, la cifra è scesa a 259.500
1
(vd. fig. 1).
Ma le profezie che vaticinano la totale scomparsa della stampa tradizionale devono
ancora avverarsi e per ora questo medium resiste e non può essere ignorato.
1
Fonte: ADS (Accertamenti Diffusione Stampa), consultabili su http://www.adsnotizie.it/index.asp
(pagina visitata in data 9/09/2018).
13
Secondo, la realtà odierna, in cui si affacciano i nuovi media dei quali si parlerà, è
stata modellata profondamente dall’avvento della stampa. Dalla prima Bibbia uscita
dal torchio e messa in vendita a Magonza, la società occidentale è andata via via
modificandosi sotto l’influsso della neonata tecnologia. Nuovi modelli ‒ cognitivi,
culturali, economici, lavorativi ‒ si sono imposti, mentre l’alfabetizzazione si
espandeva, lentamente, partendo dalle classi più agiate per arrivare gradualmente a
strati sempre più ampi della popolazione (vd. tabella 1 e fig. 2)
2
.
L’invenzione occidentale
3
della stampa a caratteri mobili ha cambiato per sempre
l’approccio alla lettura e alla scrittura in Europa, scardinando il sistema lavorativo
amanuense e laicizzando la cultura, permettendo una produzione e diffusione di
materiale informativo (libri, gazzette, documenti) mai pensate prima e portando a
termine la lenta transizione dell’Europa, da società orale a società della scrittura.
Molti studiosi hanno ragionato sugli sviluppi e le conseguenze della diffusione della
stampa, con esiti e intenzioni diverse ma considerando questo fenomeno
fondamentale per lo sviluppo occidentale; personalità come Marshall McLuhan, alla
ricerca della vera natura dei media e del loro costante rapporto di scambio con i
nostri sensi
4
, o come Elizabeth Eisenstein, che scorge in questo evento storico i semi
che hanno dato vita e consistenza al Rinascimento, alla Riforma Protestante e alla
Rivoluzione Scientifica seicentesca
5
.
Oggi, attraverso tablet, cellulari e pc ma soprattutto attraverso la Rete, la parola
scritta raggiunge tassi di diffusione inimmaginabili prima. Secondo Walter Ong, i
nuovi media, che in Oralità e scrittura
6
egli chiama “elettronici” ma che oggi si
definirebbero digitali, rafforzano tendenze iniziate con la scrittura e consolidatesi con
la stampa, come l’affidamento della parola a una realtà prettamente spaziale e visiva
(una volta il foglio, oggi lo schermo del pc) e una elaborazione del discorso
2
Dalla fine del XV secolo il tasso di adulti alfabeti in Europa ha continuato a crescere, passando da
una media del 7% circa nel periodo 1401-1500, a una media del 28% nel periodo 1601-1700,
quadruplicando. Dati elaborati personalmente, presi da E. Buringh, J. L. Van Zanden, Charting the
“Rise of the West”: Manuscripts and Printed Books in Europe, A Long-Term Perspective from the
Sixth through Eighteenth Century, in “The Journal of Economic History”, vol. 69, giugno 2009, 2, pp.
409-445.
3
Si ricorda che in Cina la stampa a caratteri mobili esisteva dall’XI secolo.
4
Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, il Saggiatore, 1967 [1964] e M. McLuhan,
La galassia Gutenberg: nascita dell’uomo tipografico, Roma, Armando, 1998 [1976].
5
Cfr. E. Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, Bologna, il
Mulino, 1986 [1979].
6
W. Ong, Oralità e scrittura, Bologna, il Mulino, 1986 [1982].
14
sequenziale e lineare (anche se non sempre: la logica di internet è anche ipertestuale).
Fenomeni come l’efficace e semplice conservazione del sapere, o la
standardizzazione del materiale scritto sono tuttora in atto: se prima erano le pagine
calde di stampa di un libro a renderli possibili, oggi sono i documenti che salviamo
sul nostro pc o le banche dati online, consultabili ovunque.
Infine, terzo ma non meno significativo, l’invenzione della stampa a caratteri
mobili ha dato propulsione al giornalismo come lo si conosce oggi e alla società
dell’informazione
7
. Non solo gazzette e giornali hanno trovato un prezioso alleato
nel torchio, ma la spinta all’alfabetizzazione data da una maggiore circolazione di
materiale stampato a prezzi più modesti ha permesso la nascita di un pubblico di
lettori in grado di informarsi in autonomia. Inoltre, ci sono state influenze –
reciproche – fra la diffusione dell’alfabetismo nelle varie zone europee e la
formazione di differenti modelli di giornalismo
8
.
È perciò inevitabile citare Gutenberg, perché la stampa mantiene un ruolo
fondamentale fra i nuovi media, pur essendo una tecnologia di meno recente
invenzione. D’altro canto, è doveroso riconoscere le profonde differenze che
caratterizzano l’attuale società post-tipografica dalla precedente, a partire dalle nuove
alfabetizzazioni.
1.2 Una literacy, tante literacy
Come nell’Europa del 1450, oggi è in atto una rivoluzione dei mezzi di
comunicazione, ma il mondo in cui questo avviene è molto più grande, interconnesso
e complicato di quello del XV secolo. Lo spettro dei media è più vasto e complesso:
alla stampa, la radio e la tv si sono aggiunti internet e tutto l’universo digitale,
nonché le forme ibride nate dall’incontro con la Rete, come blog, podcast, web-radio
e progetti wiki. Se si vuole comprendere come i nuovi media possano agire sulle
persone, sulla loro forma mentis, sulla società e ‒ nello specifico di questa tesi ‒ sul
giornalismo, non si può che analizzarli, imparare a decifrarne i messaggi e farne un
7
Si veda A. Pettegree, L’invenzione delle notizie. Come il mondo conobbe se stesso, Torino, Einaudi,
2015.
8
Per i diversi modelli di giornalismo si veda D. C. Hallin, P. Mancini, Modelli di giornalismo. Mass
media e politiche nelle democrazie occidentali, Bari, Laterza, 2004.