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Le testate giornalistiche aumentano a dismisura. Ci sono quelle che si
pongono come obiettive, quelli riferibili a uno schieramento politico,
economico o ecclesiastico, quelle che fanno capo a un partito.
Possiamo fruire di un’informazione vasta e differenziata, eppure si continua
a parlare di obiettività giornalistica. Esiste? È un principio attuabile? È
un’utopia? Queste e tante altre le domande che imperversano il mondo
dell’informazione e della comunicazione.
Questa tesi tenterà di dare una risposta ad alcune di queste domande.
Risposte certamente discutibili, risposte che nella storia del dibattito
sull’obiettività trovano tante conferme quante smentite. Tuttavia, risposte
alle quali si giunge con metodi prima teorici e poi empirici.
L’analisi condotta verrà limitata all’informazione che ci proviene dalla
stampa. Per ragioni legate alle difficoltà di reperire nella città di Palermo
testate straniere, l’analisi è stata ulteriormente ridotta ai soli quotidiani
nazionali.
Il primo capitolo, partendo da brevi cenni storici sul giornalismo, si
addentra nella trattazione dell’obiettività quale principio, ma anche quale
metodo e approccio giornalistico alla notizia. Vengono riportate le teorie
che alcuni tra i maggiori sociologi, semiologi e massmediologi hanno
sostenuto nel corso del novecento. Teorie a favore o contro l’esistenza del
principio dell’obiettività giornalistica. Viene poi, a livello teorico, esposta
la tesi che nel corso dei capitoli si cercherà di dimostrare, ovvero l’esistenza
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dell’obiettività, pur valutando i limiti propri del lavoro giornalistico e le
distinzioni che il tema trattato impone.
Se considerata un metodo all’approccio giornalistico e se distinta da un
altro tema, spesso confuso, quale la neutralità, l’obiettività giornalistica
diviene un fine attuabile concretamente.
Per evitare di incorrere in facili illusioni, il secondo capitolo si sofferma sui
limiti oggettivi che la molteplicità della realtà che il giornalismo si propone
di raccontare impone all’obiettività. I limiti individuati, lo spazio e il tempo,
vengono trattati in un primo momento attraverso disquisizioni teoriche e
successivamente attraverso l’analisi empirica di alcune testate giornalistiche
italiane. Si mostrerà come l’esistenza di limiti oggettivi non impedisca di
offrire un’informazione onesta, limpida e priva di espedienti manipolatori.
Il terzo capitolo è mirato a un’analisi dettagliata dei diversi modi in cui una
stessa notizia può essere proposta dalla varie testate giornalistiche. Anche
qui le conclusioni a cui si giungerà porranno in essere l’obiettività quale
fine giornalistico onestamente ed efficacemente perseguito dai giornali di
informazione.
L’ultimo capitolo pone invece l’attenzione sull’informazione che a priori
sceglie di non essere obiettiva, perseguendo fini e scopi diversi dalla mera
informazione. Fini che sono riconducibili ai patti di fiducia che ciascun
giornale, e in particolar modo quelli politici e di partito, instaura con il
proprio pubblico di lettori.
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L’obiettività intesa come principio supremo del giornalismo, scevra da
qualsiasi limite che la soggettività del lavoro giornalistico mette in campo,
si pone davvero come un’utopia impossibile da raggiungere. Ma se ci si
sofferma sulla sua definizione e se ne ridimensionano le attese,
l’obiettività diviene un fine che il giornalismo si ripromette di raggiungere e
che generalmente, come l’analisi del terzo capitolo dimostra, viene
raggiunto.
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Capitolo I
L’OBIETTIVITÀ ESISTE?
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1.1. PREMESSA
L’obiettività è da sempre un tema al centro del dibattito sull’informazione.
Se ne parla troppo, non sempre a proposito. Si distinguono gli apocalittici
dagli integrati, coloro che esaltano il mito del giornalismo interprete del
principio di verità e coloro che riducono tale principio alla mera
mistificazione della fatale prospetticità della notizia.
Funzione indiscussa del giornalismo è quella di portare a conoscenza dei
lettori (verrà trattato in questa sede soltanto del giornalismo della carta
stampata) fatti di cronaca, tutti i colori della cronaca, che per le loro
caratteristiche si impongono all’attenzione di molti. Si tratta di riportare su
carta il reale, il mondo che circonda ogni singolo individuo.
Ma è davvero possibile trasformare la realtà in caratteri di piombo?
Questa è la grande sfida che il mondo sembra voler lanciare ai giornalisti e
in questo capitolo si cercherà di rispondere alla domanda mettendo in luce
le necessarie distinzioni che il tema impone.
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1.2. CENNI STORICI SUL GIORNALISMO E L’OBIETTIVITÀ
Il giornalismo poggia le sue basi su una storia che sfiora ormai il mezzo
millennio. Non una storia lunghissima, epocale, eppure una storia che ha
fatto susseguire tra loro fasi molto diverse, ognuna delle quali ha
caratterizzato in modo peculiare gli approcci, gli orientamenti e i metodi
che di secolo in secolo hanno raccontato la cronaca e descritto le società del
tempo.
Il giornalismo nasce con le gazzette del XVII secolo e si trasforma via via
col mutare non soltanto degli strumenti tecnologici bensì delle condizioni
politiche, economiche e sociali e delle tradizioni spirituali e culturali di ogni
parte del mondo. [Paolo Murialdi; 2000; p. 7]
I primi giornali sono gazzette a stampa, quindicinali o settimanali. Il primo
quotidiano è stampato a Lipsia nel 1660. Si tratta di una stampa rigidamente
controllata dove l’attività giornalistica è sottoposta al regime di esclusiva e
alla censura preventiva. In questa prima fase i detentori del potere
assegnano alle gazzette il ruolo di dispensare informazioni manipolate e
organizzare il consenso tra i gruppi che partecipano all’amministrazione del
potere.
Dunque, possiamo indubbiamente affermare che l’obiettività non nasce
parallelamente alla nascita del giornalismo, perchè le condizioni strutturali
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e culturali di questo primordiale esercizio dell’attività giornalistica non lo
consentono.
Compiendo un lungo salto storico, si approda alla rivoluzione francese che
dà un impulso non indifferente allo sviluppo del giornalismo. Gli ideali di
libertà e uguaglianza favoriscono la diffusione della carta stampata e la
riduzione della censura. Sia l’attività editoriale e giornalistica, sia la tecnica
di stampa compiono sensibili progressi nei venticinque anni che vanno dalla
rivoluzione francese alla fine del dominio napoleonico. [Paolo Murialdi,
2000; p. 32]. Nascono le gerarchizzazioni delle figure professionali
all’interno delle redazioni, crescono i formati dei giornali e aumentano le
tirature. Con la restaurazione sarà soprattutto il giornalismo letterario a
conoscere un’ampia fioritura.
Nella stampa italiana la grande svolta parte con l’Editto di Pio IX (15 marzo
1847) e si conclude con quello albertino (26 marzo 1848). Vengono
semplificate le norme censorie, abolita la censura ecclesiastica e soprattutto
viene sancito con l’articolo 28 dello Statuto Albertino che «la stampa sarà
libera, ma una legge ne reprime gli abusi». Non si può ancora parlare di
obiettività, ma viene fondato il principio propedeutico all’obiettività: la
libertà. Certamente la libertà di stampa prevista dallo Statuto non è priva di
limitazioni e restrizioni, ma è comunque un primo importante passo verso
quella concezione di libera espressione del pensiero che nascerà un secolo
più tardi.
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Si inizia a concepire il giornalismo come un’attività educativa, di
formazione delle conoscenze e delle opinioni. Scriveva Bettino Ricasoli sul
periodico “Lombardo” del 25 marzo 1848: «Il giornalismo è il sole che
dirada le nebbie dell’ignoranza, che svolge e matura i grandi sistemi della
civilizzazione; è la luce che scopre e addita i bisogni della società, la forza
che spinge i governi a provvedervi, la spada che uccide la tirannide, il faro
che guida pel vasto oceano della politica, dell’economia pubblica, della
scienza, dell’arte» [Paolo Murialdi, 2000; p. 55]. Il giornalismo un po’
mitologico, che sta sempre dalla parte dei giusti e opera per il bene di tutti.
Ma ancora non si scorge all’orizzonte nulla di quello che noi oggi
intendiamo per “obiettività”. Infatti, il giornalismo italiano del periodo
risorgimentale si sviluppa con una forte connotazione politica ed è praticato
soprattutto come un’attività politica.
Diversamente avviene oltrepassando i confini italiani. Per il giornalismo
americano e anglosassone l’‘800 è il secolo che rivoluziona il modo di fare
giornalismo e la stessa concezione della notizia. Nel 1833 nasce il “Sun”,
primo quotidiano di New York venduto al prezzo di un solo penny (contro
il prezzo tradizionale di 6 penny), sull’esempio inglese, che non veniva più
diffuso in abbonamento, ma era venduto dagli strilloni per le strade. Il
successo è immediato, in poco tempo il giornale moltiplica la tiratura e
l’esempio viene seguito a ruota da altri quotidiani. La penny press porta un
aumento della diffusione complessiva dei giornali da 78 000 a 300 000
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copie al giorno, ma soprattutto porta al cambiamento del modello del
quotidiano perché cambiano i suoi lettori. Non esistono più i piccoli editori
che stampano fogli di notizie venduti, quasi esclusivamente in
abbonamento, a ristrette élites sociali. Si costituisce un pubblico vasto,
ampio, che perde i suoi contorni definiti per iniziare ad assumere le
connotazioni che più tardi saranno tipiche della “società di massa”.
L’informazione non è più concentrata sugli interessi e le esigenze di una
ristretta cerchia di uomini di affari e di personaggi politici, ma proietta il
suo sguardo periscopico sull’esistenza e l’immaginario di tutti i cittadini. La
vecchia tradizione del giornalismo come istanza pedagogica viene
oltrepassata dalla cultura della notizia come merce, il cui unico banco di
prova è costituito dal mercato. [Papuzzi, 2003; pp. 6 – 7]
«La penny press – dichiara Schudon in “Discovering the News” – inventa il
moderno concetto di notizia. Per la prima volta i giornali americani diedero
un carattere regolare alla pubblicazione delle notizie politiche, non solo
dall’estero ma anche dall’interno, e non solo nazionali ma anche locali; per
la prima volta i giornali pubblicavano resoconti dai distretti di polizia, dalle
aule dei tribunali e dalle case private». [Papuzzi, 2003; pp. 13 – 14]
Con la penny press qualsiasi avvenimento può diventare notizia se si
riconosce in esso l’interesse per il pubblico dei lettori. Ciò che fa di un
avvenimento una notizia è la relazione con un pubblico e chi stabilisce
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questa relazione, nel senso di coglierne la necessità e l’importanza, sono i
giornalisti.
Anche prima della penny press esisteva questa relazione, ma conoscendo in
modo definito la ristretta cerchia di lettori si trattava di una relazione
stabilita a priori. La novità introdotta dalla penny press è che la notizia
presuppone una selezione e interpretazione. Essa non esiste come oggetto in
sé, ma nasce dalla ricostruzione che un giornalista fa di un avvenimento.
«News is what newspapermen make it». [Papuzzi, 2003; pp. 10 - 11]
Perchè un avvenimento possa dare origine a una notizia è necessario però
che si manifesti in forme evidenti e registrabili o certificabili.
Dall’introduzione del telegrafo, comparso per la prima volta nel 1844,
nasce un nuovo stile giornalistico, uno stile stringato e conciso. Gli spacci
telegrafici contenevano le informazioni essenziali di un evento, quelle che
servivano a certificarlo; le informazioni riconducibili alle risposte alle
cinque domande Chi (Who), Cosa (What), Quando (When), Dove (Where)
e Perchè (Why): la regola delle 5W. Questo stile diviene l’« abc » del
giornalismo di informazione, il giornalismo dei fatti che caratterizzerà
un’intera epoca chiamata “età del reporter” (1880 – 1890). Proprio a questa
data possiamo ricondurre la nascita del concetto di obiettività.
L’età del reporter era l’età dei fatti, l’età in cui scrivere un giornale,
riempire le sue pagine, significava realmente portare su carta la realtà,
separando nettamente i fatti dalle opinioni. Questo era stato il risultato
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messo a punto dal processo di modernizzazione avviato dalla penny press.
L’età del reporter riconfigura il giornalismo imponendo uno stile centrato
sull’obiettività, intesa come tecnica di esposizione della notizia.
L’obiettività non veniva ancora concepita come un ideale di natura etica,
come spesso avviene a tutt’oggi, ma doveva servire a restituire la realtà così
come la gente la viveva. Lo scopo essenziale della notizia non è più quello
di avvertire, istruire o divertire, ma di informare.
Già dalla sua nascita il concetto di obiettività ha subito diverse
interpretazioni e nel corso della storia è stato enfatizzato oppure rifiutato. In
particolare, due momenti della storia americana mettono in luce i limiti
dell’obiettività. Il primo, negli anni venti dello scorso secolo quando, dopo
l’inizio della grande depressione, si avvertì l’esigenza di un’informazione
che non si limitasse a raccontare i fatti, ma contribuisse a chiarirne il
significato interpretandoli. Spiegare ai lettori le notizie attraverso la tecnica
che prende il nome di interpretative reporting. Ciò non significò però la
rinuncia all’obiettività. La sfida fu quella di restare obiettivi, evitare
l’emotività, mantenere uno stile essenzialmente descrittivo, riuscendo
tuttavia a spiegare il significato di ciò che accadeva, in relazione al contesto
sociale ed economico e ai fenomeni politici.
Il secondo momento di crisi dell’obiettività è negli anni cinquanta quando i
giornalisti attraverso lo stile obiettivo contribuivano, volontariamente o no,
a far sì che il senatore Joseph Mc-Carthy creasse notizie dal nulla nella sua
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crociata contro il pericolo comunista. Il giornalismo dell’epoca, in nome
dell’obiettività - come emerge dall’analisi di Andrea Barbato nel suo saggio
“Come si manipola l’informazione” – accettava passivamente le
registrazioni ufficiali di vicende come le accuse di comunismo contro
funzionari pubblici e intellettuali. [Papuzzi, 2003; pp. 41 – 42]
Nella stampa italiana l’obiettività viene messa in discussione negli anni
settanta quando nasce il movimento dei giornalisti democratici che si
batteva per la conquista dell’autonomia professionale. In questo periodo al
concetto di obiettività si sostituisce quello di onestà: il giornalista rinuncia a
vendere al lettore una verità oggettiva, ma gli garantisce di riferire
onestamente ciò che vede e che sa. Significava riconoscere i limiti del
lavoro giornalistico, ma anche valorizzare la soggettività del giornalista.
Arrivati ai giorni nostri non si può più parlare di storia dell’obiettività, ma
della cronaca di eventi particolari che hanno riguardato questo difficile
concetto e delle opinioni che giornalisti, studiosi e sociologi ci hanno
fornito. Si rimanda al prossimo paragrafo l’analisi di queste opinioni che
generalmente hanno assunto i poli estremi del dibattito sull’obiettività.