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all’attualità, ricordo Frank McCourt e «Le ceneri di Angela» :
«Ripensando alla mia infanzia, mi chiedo come sono riuscito a
sopravvivere. Naturalmente è stata un'infanzia infelice, sennò non ci
sarebbe gusto. Ma un’infanzia infelice irlandese è peggio di un’infanzia
infelice qualunque, e un’infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio
ancora». Tuttavia, l’autobiografia di un’infanzia infelice irlandese, se
raccontata con brio, spirito d’osservazione e un sapiente mix di ilarità,
malinconia e tristezza può divenire un clamoroso successo editoriale, e
fruttare al suo autore-giornalista l’ambito premio Pulitzer. Penso a uno
scrittore di successo come Alessandro Baricco, ai Barnum pubblicati
dalle colonne della «Stampa», successivamente confluiti in due libri, e
all’influsso che l’esperienza giornalistica ha determinato sia nello stile
sia nella produzione di tale autore.
Andando indietro nel tempo non si può dimenticare il nome di Truman
Capote: «A Sangue freddo» nasce come inchiesta per il magazine «The
New Yorker», poi evolve e dà vita a un nuovo genere, il “non-fiction
novel”, o “journalistic novel”, per usare le parole di un altro scrittore-
giornalista avvezzo alla materia, Tom Wolfe.
Vi è inoltre il lungo elenco di nomi legati al «Corriere della Sera» – nomi
sui quali mi soffermerò in seguito –, a cui si potrebbero aggiungere altri
due giornalisti di via Solferino dotati di indubbio talento letterario:
Giovanni Titta Rosa e Gaetano Afeltra.
Inutile sarebbe procedere oltre, non è possibile menzionare tutti. Fatto
sta che giornalismo e letteratura si sono sempre scrutati, spesso citati
reciprocamente, in ogni caso hanno appreso qualcosa l’uno dall’altra.
Lo scrittore ha imparato a rimanere vicino al lettore, a dosare
egocentrismo, voli pindarici ed elitario snobismo per dedicarsi all’arte
dell’immediatezza. Un contatto a portata di mano che lascia intendere
meglio il messaggio, senza rinunciare a una dose di eleganza.
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Il giornalista ha imparato a non collassare su se stesso, risucchiato da
formule stereotipate e schiacciato dalla sola attenzione ai fatti. Si è
dedicato alla trattazione di argomenti letterari, di critica d’arte, alle note
di costume, alle dissertazioni filosofiche, alla “cultura” nelle sue
innumerevoli declinazioni; spesso ha ottenuto risultati di grande
rilievo.
Si sono incontrati a metà strada – due tipi di uomini, due professioni –
quasi fosse una Teano della carta stampata; ne è scaturita una magnifica
creazione, la terza pagina corredata dell’immancabile elzeviro. Quella la
sede e il momento del contatto, o se vogliamo l’inizio dello scambio,
perché ad un certo punto i migliori elzeviri sono stati accolti
dall’editoria libraria, dando vita a testi come «Pesci rossi» di Emilio
Cecchi, «Le notti difficili» di Dino Buzzati, «Palomar» di Italo Calvino e
molti altri.
Si è detto letteratura, in grande quantità, e non necessariamente in
prosa. Faccio riferimento ai celebri nomi “prestati” al Corriere: Carducci,
D’Annunzio, Ada Negri, Montale. Ma anche alle poesie settimanali del
grande critico teatrale Renato Simoni, o se si vuole fare accenno alla
contemporaneità e a un altro quotidiano, all’opera di Michele Serra.
Impostazione e contenuti della terza – come sarà rilevato
successivamente – sono mutati radicalmente nel corso degli anni. Tono
sempre meno accademico, apertura a nuovi interessi e contatto con le
realtà sociali. Nel complesso la pagina si è adattata alla nuova
concezione di cultura, intesa come espressione e manifestazione dei più
vari aspetti dell’attività umana. Non solo libri, “alta cultura” e
letteratura d’autore, ma in aggiunta rilevanza data a media, sociologia,
a varie e curiose sottoculture al plurale, insomma ad ogni aspetto di
vita che abbia implicazioni concrete, però feconde di riflessioni e
ragionamenti.
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Accade così che oggi la cultura entri in terza per vie traverse, che alla
letteratura si affianchi la paraletteratura (magari perché anche alle
spalle del giornalismo si è nutrito e ha prosperato una sorta di
paragiornalismo) e che l’attualità finisca per costituire la maggior parte
dell’argomento culturale. A volte la fusione tra letteratura e giornalismo
si esaurisce in un semplice dovere di cronaca, nella menzione di un
evento come potrebbero essere il Salone del libro di Torino, il Premio
Campiello, o il Festivaletteratura di Mantova.
Anche questo è terza pagina.
Non si può continuare a decantare virtù del passato e condannare i vizi
del presente. Rimpiangere il “meglio” racchiuso nella custodia del
tempo e disprezzare l’oggi. La pagina culturale è molto mutata, così
come tutto il giornalismo, e non in peggio.
Ciò che più conta è che il binomio non abbia raggiunto la saturazione;
l’importante è che letteratura e giornalismo continuino a guardarsi a
vicenda.
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CONTESTO E NASCITA DELLA TERZA
Incerta è la definizione di terza pagina; considerata da una parte il fiore
all’occhiello del giornalismo italiano, dall’altra un’etichetta entro cui far
rientrare un prodotto. Incerta è anche la data della sua nascita. Si vuole
rintracciare il “capostipite” del genere e, muovendosi fra la
“discendenza”, è facile fare un po’ di confusione. Per capire di che cosa
si tratta, bisogna ripercorrere brevemente la storia del suo sviluppo e,
prima ancora, riportare alla luce il contesto e la temperie culturale che
ne hanno consentito l’origine. Il nome lascia scarso margine di
divagazione alla fantasia e fissa nell’ordine numerico delle pagine di un
quotidiano la sicura collocazione del nostro oggetto d’indagine. La terza
è la pagina della letteratura espressa in tutte le sue forme, della critica,
dell’arte, del varietà: della cultura in genere.
Nel momento in cui assurge a istituzione della stampa italiana, scatta la
caccia all’originale, alla prima apparizione. Si è fatto il nome di
Bergamini, si è parlato degli “articoli di risvolto” di Torelli Viollier, e di
altre paternità.
In realtà la terza sorge al culmine di un processo, come derivato di una
serie di fattori e tendenze che ne hanno preparato l’avvento. Il
ventennio conclusivo dell’Ottocento è la culla di gestazione
dell’embrione: sviluppo dell’editoria, diffusione delle sperimentazioni
di un nuovo modello giornalistico e rinnovato ruolo degli intellettuali
italiani. Nel 1880 è il «Capitan Fracassa» – tramite l’adozione di formule
più agili e immediate – ad attrarre vari esponenti della cultura, quali
artisti e giovani letterati. Si guarda alla Francia e si comprende
l’importanza di un’operazione tutta commerciale come la
pubblicazione dei romanzi d‘appendice sui quotidiani, che permette la
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promozione della scrittura nazionale e straniera su una base di lettori
quanto mai vasta, e propone al grande pubblico una prima distinzione
tra la professione di letterato e quella di giornalista. Nello stesso
periodo si sviluppano anche i supplementi letterari domenicali, primo
fra tutti il «Fanfulla della Domenica».
Ben presto la manovra è seguita da diversi giornali e si potrebbe dire
dia inizio all’epoca degli inserti, protrattasi, sebbene con differenze
abissali, fino ai giorni nostri. Se da un lato il supplemento domenicale
ha il pregio di riservare uno spazio importante alla letteratura, dall’altro
impone una frattura troppo netta tra la politica e la materia letteraria
stessa. Sembra che le notizie di carattere politico siano degne di
occupare le prime pagine dei quotidiani per sei giorni la settimana, ma
non la domenica, tempo in cui slittano in secondo piano lasciando il
posto d’onore alla pagina letteraria. La soluzione, seppure diffusa,
risulta pertanto un ibrido, un compromesso che cerca la fusione di
elementi eterogenei, mentre attende la nascita di un giornalismo che
sappia coniugarli armonizzandoli. Nonostante i meriti e il diffuso
apprezzamento, il Fanfulla è anche oggetto di critiche da parte di
personaggi illustri come Scarfoglio e Martini; quest’ultimo, a distanza
di qualche anno, scrive: «Chi vorrebbe oggi un giornale da leggersi da
capo a fondo che non dava notizia…».
Un ruolo di assoluta rilevanza nel contributo dato alla nascita della terza
pagina è occupato da Angelo Sommaruga e dalla sua «Cronaca
Bizantina» dal 1881 al 1885. L’attività editoriale di Sommaruga spicca
per originalità e modernità, allorché decide di puntare sull’aspetto
commerciale del prodotto e cerca di attrarre a sé il consumatore
invogliandolo all’acquisto. La comunicazione visiva è alla base del
successo ottenuto, unita a una rivalutazione senza pari della letteratura.
Basti ricordare l’eccezionale attenzione mostrata dal pubblico italiano
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per la produzione letteraria del periodo, realizzata grazie ad una prima,
“poco affinata”, forma di pubblicità su carta stampata.
Altri passi significativi li compiono due testate quali l’«Opinione» e il
«Giorno». La prima introduce rubriche quotidiane di varietà per
mantenere desto l’interesse dei lettori, la seconda dedica invece pari
ampiezza alla trattazione degli argomenti politici e culturali, fino ad
assegnargli, nel supplemento domenicale, l’interezza delle sue otto
pagine.
Le premesse fin qui delineate sono imprescindibili, così come
indispensabile è avere sempre presente il momento storico considerato.
Tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo l’industria italiana si fa
promotrice di una rapida espansione, l’economia del paese è avviata
nella direzione dello sviluppo e in genere si assiste a un miglioramento
della qualità della vita. La crescita della popolazione è ingente e il
processo di urbanizzazione subisce una costante accelerazione. Si
amplia la rete ferroviaria per favorire l’incremento dei trasporti e il
miglioramento del servizio postale, indispensabili premesse all’attività
di diffusione e distribuzione dei quotidiani. Infine, l’impiego del
telegrafo rende più rapida la circolazione delle notizie, fino ad arrivare
agli albori del nuovo secolo all’istituzione di linee telefoniche a lunga
distanza. Senza simili fondamenta l’editoria non avrebbe potuto ergersi
e muovere verso la prosperità. Allontanate minacce e necessità più
incombenti, cresce il bisogno d’informazione, e con esso l’apertura
verso l’ambito culturale.
Siamo così giunti al nodo fondamentale della questione: la nascita della
cosiddetta terza pagina. Si diceva prima che la data della sua prima
apparizione costituisce un piccolo dilemma. Ma il quotidiano che la
ospita è comunemente considerato «Il giornale d’Italia» diretto da
Alberto Bergamini.
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Roberta Gisotti in «La nascita della terza pagina» cita a tale riguardo il
numero 25 di mercoledì 11 dicembre 1901 del Giornale d’Italia. Un
esperto come Enrico Falqui asserisce che fosse il 10 dicembre 1901, così
come Paolo Murialdi, mentre Alessandra Briganti nomina il 2 dicembre,
e lo stesso fa Carlo Sorrentino, a differenza di alcuni come Alberto
Abruzzese che parlano addirittura di 1902.
Perché tanta confusione al riguardo? Ciò dipende dal fatto che la terza
apparsa in quell’anno non è stata percepita subito dai suoi
contemporanei come incipit di una “nuova creatura giornalistica”, bensì
la sua data di istituzione è stata storicizzata solo in seguito.
Un movimento, un mito, un simbolo non hanno né una precisa data di
origine né un unico luogo.
La terza non rientra in nessuna delle tre categorie, eppure, allo stesso
tempo sfiora il triplice ventaglio d’opzioni. Si dice che sia nata in
occasione dell’ampio resoconto della rappresentazione della «Francesca
da Rimini» di Gabriele D’Annunzio interpretata da Eleonora Duse il 9
dicembre 1901 al Teatro Costanzi di Roma. Ma lo si dice a giochi fatti,
ex-post, a distanza di troppo tempo. E’ infatti lo stesso Bergamini a far
risalire il merito dell’innovazione a «Il Giornale d’Italia» in una
conferenza tenutasi il 2 maggio 1955, «L’ampia relazione della agitata
serata occupò una pagina che aveva un grosso titolo disteso su tutte le
colonne; un’intera pagina allora inconsueta che mi parve signorile e
armoniosa e mi ispirò l’idea di unire sempre da quel giorno la materia
letteraria e artistica e affine in una sola pagina distinta se non proprio
avulsa dalle altre, come un’oasi fra l’arida politica e la cronaca nera. E
fu la Terza Pagina …».
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1
Gisotti, Roberta ; La nascita della terza pagina ; pag. 108
Benvenuto, Giuseppe ; Elzeviro ; pag.29
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Esiste un solo modo per sapere da quale parte schierarsi; la risposta al
piccolo dilemma è affidata alle impolverate pagine de «Il Giornale
d’Italia» del dicembre 1901. La data in questione è l’11 dicembre, come
sostiene Roberta Gisotti, ma continuando a sfogliare le pagine del mese
ci si accorge che della terza non vi è più traccia. Insomma è stato un caso
isolato, un esperimento che ha richiesto del tempo prima di essere
ripetuto. Non possiamo pertanto credere a Bergamini quando asserisce:
«un’intera pagina allora inconsueta che mi parve signorile e armoniosa
e mi ispirò l’idea di unire sempre da quel giorno la materia letteraria e
artistica e affine in una sola pagina».
Fatto sta che nell’ambito del giornalismo si è stabilito di accettare tale
momento come primo giorno di vita – seppure inconsapevole – della
terza. Il giovane Bergamini, redattore del «Corriere della Sera» passato
alla direzione de «Il Giornale d’Italia» su richiesta dell’onorevole Sidney
Sonnino, riesce così nell’intento di differenziare e rendere più appetibile
il neonato quotidiano. Ricordando l’uscita del primo numero del 16
novembre 1901, Bergamini racconta: «avrei dovuto farlo a sei pagine e
mi trattenne l’ingenuo timore di lanciarmi troppo…» il giornale esce
infatti con le consuete quattro pagine, ed è un errore; «A che serve un
giornale nuovo se non ha qualcosa di più o di meno degli altri che già
esistono?»
2
Il problema si risolve quando giungono a palazzo Sciarra le macchine
rotative provenienti da Germania e America, capaci di stampare
sei/otto pagine, sicché il direttore può pensare alla soluzione della
pagina culturale, oltre a compiere altre mosse importanti per lo
sviluppo del Giornale d’Italia quali l’impaginazione grafica più agile,
l’aumento dei servizi di cronaca, il maggior spazio concesso a
illustrazioni e corrispondenze di lettori.
2
Benvenuto, Giuseppe; Elzeviro ; pag. 143