Concluderemo infine auspicando una maggiore attenzione da parte dei formatori,
affinché il tutto non rimanga affidato alla responsabilità e coscienza di pochi opera-
tori, sensibili a questi nuovi strumenti, che la società globalizzata, multimediale e
soprattutto multietnica, ci mette a disposizione.
L’obiettivo è dimostrare come la formazione in continuo dei soggetti, ormai ampiamen-
te riconosciuta, possa passare anche attraverso l’applicazione di queste metodologie.
Altra finalità, che riconosciamo essere meno scientifica e molto più personale, è quel-
la di parlare in modo semplice e corretto di un fenomeno (il GDR) ai più sconosciu-
to, che però si sta guadagnando credibilità e sostenitori sempre più numerosi, e che
molto spesso è oggetto, nella migliore delle ipotesi, di scherno e sarcasmo, se non di
pregiudizio.
Il desiderio è quello di dare dignità ad uno strumento che possiede delle potenzialità
che potrebbe risultare interessante sviluppare.
Se solo accenniamo all’argomento oggetto di questa tesi, ci accorgiamo che fra le ami-
cizie o conoscenze, o anche fra giocatori stessi, ma d’altre discipline, i GDR sono pra-
ticamente sconosciuti o chi dice di conoscerli, non praticandoli, ne ha una percezio-
ne superficiale, talvolta negativa (associata dalla stampa ad eventi delittuosi, sette sata-
niche o suicidi).
In un paese come l’Italia dove il gioco è purtroppo conosciuto, e per la maggioranza,
praticato solo come azzardo istituzionalizzato (vedi lotterie, lotto, casinò, quiz a
premi, ecc.) e dove lo Stato lo promuove per quanto d’economico riesce a ricavarne
2
,
è difficile, non solo parlare, ma anche praticare il gioco al di fuori di questi stereoti-
pi. La sensazione più banale è che si pensi che giocare sia una perdita di tempo, un
modo bizzarro di passare le giornate o i fine settimana, come se non esistessero pos-
sibili alternative alla tv dei reality. Purtroppo però il messaggio che si trasmette,
soprattutto ai giovani, è che partecipare ai reality procura fama, fortuna e denaro,
aiuta a sposare un calciatore o una velina. Sappiamo che il nostro scritto sarà una goc-
cia nel mare, ma vorremmo che arrivasse a sensibilizzare chi fa formazione sulla neces-
sità di dare dignità a tutto il gioco, non solo come strumento operativo in senso stret-
to, ma anche come palestra di vita ed apertura mentale, verso un mondo che cambia
continuamente e troppo velocemente. L’elasticità ludica è una grande abilità, se svi-
luppata e promossa, necessaria a tutte le età. I GDR poi, rispetto ad altri giochi,
hanno delle caratteristiche, come vedremo, che li pongono più in là, riuscendo que-
sti ad essere duttili ed applicabili a svariate situazioni con intenti differenti. Non a
caso la difficoltà di descriverli, di parlarne e di classificarli, deriva proprio da questa
multidimensionalità.
Man mano che proseguivamo in quest’esposizione, ci siamo però felicemente resi
conto che ci sono tante persone che si occupano di questa valorizzazione e che, in
maniera quasi pionieristica, hanno il coraggio di proporli e gestirli.
Le difficoltà di un uso corretto dei GDR sono peraltro enormi, come abbiamo cerca-
to di segnalare. Vanno dalla poca sensibilità degli interlocutori pubblici, alla mancan-
za di risorse, ai pregiudizi, alla poca e cattiva informazione, all’indifferenza di chi non
| 4
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5|
vuole avvicinarsi a qualcosa che ritiene complicato e che mette in discussione stereo-
tipi formativi ormai consolidati.
In Italia, la conoscenza di questi strumenti in ambito lavorativo (ho detto conoscen-
za e non corretta applicazione) è forse più praticata rispetto all’ambito formativo spe-
cifico. I modelli giapponese e statunitense, almeno sulla carta, hanno fatto scuola, si
applicano alla gestione delle risorse ed alla valorizzazione delle capacità individuali.
Abbiamo detto a livello teorico, perché in modo pratico, l’applicabilità dei GDR sui
posti di lavoro rimane discussione che fa tendenza fra i responsabili del personale,
senza una benché minima valida esecuzione. È di moda parlarne, ma l’applicazione
seria è un’altra cosa, anche se, ad onor del vero, alcuni casi eccellenti sono presenti nel
panorama produttivo nazionale.
Infatti, una minoranza d’aziende, perlopiù con casamadre straniera, applica queste
metodiche sia nella ricerca di personale sia nella valorizzazione delle risorse, con con-
fortanti risultati. Poche li usano con intento formativo, la maggior parte se ne serve
per selezionare il personale. Non a caso le società esterne specializzate che offrono
professionalità alle aziende nell’utilizzo di queste metodiche sono in espansione. Il fai
da te interno è talvolta pericoloso e sortisce effetti contrari a quelli sperati.
Come tutte le metodiche che hanno matrice ludica, la formazione non può essere
indotta forzatamente, la costrizione porta solo al disamore verso il metodo e alla per-
dita di tempo per formatori e formandi. La professionalità in questo campo è deter-
minante per il raggiungimento degli obiettivi prefissati.
Riteniamo doveroso ribadire che la valorizzazione delle risorse dovrebbe interessare il futu-
ro del mondo del lavoro e questi strumenti potrebbero rappresentare un valido supporto.
I GDR sono una realtà relativamente recente, anche se con radici illustri. Trent’anni
di vita sono pochi per esprimere qualcosa di significativo nel panorama formativo e
lavorativo, ma le premesse per una carriera brillante ci sono tutte.
Per quanto riguarda l’ambito prettamente filosofico, durante questo cammino ideale,
ci siamo accorti che l’argomento gioco non è fra i più considerati e teorizzati dal pen-
siero speculativo. Questo ci ha meravigliato, in quanto riteniamo che esista una
matrice comune che unisca gioco e filosofia. Entrambe queste discipline sono ricer-
cate dall’uomo adulto, dato che il gioco infantile è una necessità vitale, quando le pul-
sioni primarie della vita sono state soddisfatte. Entrambe sono apertura mentale e
ricerca di risposte nuove alle problematiche esistenziali. Entrambe sono moto del-
l’anima e necessità spirituale irrinunciabile, per un uomo che voglia definirsi tale.
Entrambe nascono con l’uomo e da sempre, sia la filosofia sia il gioco, lo accompa-
gnano nel cammino altalenante della civiltà. Entrambe s’interrogano sui misteri della
vita e sul modo d’affrontarli.
3
Non vorremmo che anche chi si occupa di filosofia considerasse questa parte dell’ani-
mo umano meno degna d’approfondimento, d’affidare solo ad un punto di vista
sociologico, pedagogico o terapeutico.
Dare valenza filosofica al gioco significherebbe renderlo degno di considerazione agli
occhi delle generazioni future. In ogni caso, è importante parlarne, e qualsiasi gioca-
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tore, all’interno del proprio sociale, deve essere un esempio per chi non conosce e
vuole conoscere, per chi chiede e deve avere delle risposte accattivanti e divertenti, per
chi vuole mettersi in gioco e scopre che è una gran bella esperienza. Al di là di tutte
le applicazioni possibili, il gioco resta sempre desiderio dell’animo e, come tutti i desi-
deri, non ammette costrizioni e limitazioni. Questa peculiarità assimila il gioco all’ar-
te, non solo nella creatività ma anche nel semplice piacere che deriva dal goderne in
tutte le sue forme.
E non è etico privare le prossime generazioni di una possibilità, fra le tante, riservata
al nostro intelletto, solo che la si cerchi. Purtroppo quest’opportunità non è un auto-
matismo e neppure un diritto acquisito, è piuttosto un dovere che abbiamo verso noi
stessi e verso quelli che credono in questo valore. Ed è nostro dovere, di tutti, persone
singole e istituzioni, sollecitare e valorizzare ciò che di certo rende l’uomo più uomo.
Per chiarire parte dei concetti chiave del nostro percorso, e per non appesantire l’espo-
sizione, inseriamo in APPENDICE alcuni lemmi tratti da enciclopedie o dizionari,
consultati in fase di ricerca, in modo da consentire una rapida informazione a chi ne
fosse interessato.
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CAPITOLO 1
IL GIOCO
BREVI CONSIDERAZIONI GENERALI
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1.1 SUE CARATTERISTICHE FONDAMENTALI ED
UNIVERSALI
Parlando di gioco è impossibile non ispirarsi alle considerazioni che Johan Huizinga
ha esposto nel suo libro pubblicato nel 1939 intitolato “Homo Ludens”
4
. La tesi prin-
cipale contenuta in questo saggio sostiene che la civiltà umana sorge e si sviluppa nel
gioco e come gioco. Non prende in considerazione come il gioco stesso si pone rispet-
to agli altri fenomeni culturali, ma in quale misura la cultura ha le caratteristiche del
gioco. Il concetto di gioco è dunque necessariamente integrato con quello di cultura.
Questa tesi è assolutamente innovativa rispetto al periodo d’elaborazione del testo e
rispetto agli altri autori che finora si erano interessati delle stesse tematiche: con
Huizinga, infatti, il gioco si considera fenomeno culturale e non funzione biologica.
La cultura, vale a dire, non è più antica del gioco e, dunque, non lo precede in un’ipo-
tetica gerarchia temporale. Infatti, si evidenzia che gli animali non hanno necessità
della cultura per giocare, dunque Huizinga deduce, e sostiene, che il gioco precede la
cultura. Il gioco in sé è più di mera attività biologica, contiene un senso. Il piacere
che si prova nel gioco va oltre ogni tentativo di darne logiche giustificazioni.
È una categoria primaria e totale; non si lega a nessun particolare grado di civiltà o a
nessun concetto di vita.
Si può affermare che “l’individuo trova nel gioco le condizioni della “società ideale” e in
certe situazioni tende a rifugiarsi in esso nel suo ritrarsi da una realtà troppo opprimente
o a trovare in esso un’espressione per rivendicare la propria libertà”.
5
Le attività umane più rilevanti e vitali sono intrecciate di gioco, quali il linguaggio, il
mito, il culto.
I giochi sono “manifestazioni d’arte popolare, reazioni sociali, collettive, all’impulso o
all’azione principale di una cultura. A somiglianza delle istituzioni, sono estensioni del-
l’uomo sociale e della politica del corpo, come le tecnologie sono estensioni dell’organismo
animale (…) In quanto estensioni della reazione popolare allo stress del lavoro quotidia-
no, i giochi diventano modelli fedeli di una cultura. (…) modelli drammatici delle nostre
vite psicologiche e ci aiutano a liberarci da tensioni particolari. Sono forme d’arte collet-
tiva e popolare con rigide convenzioni.”
6
Pur coinvolgendo lo spirito, il gioco non ha nessuna funzione morale, non è né virtù
né peccato, non è né vero né buono. Il gioco è atto libero, non si comanda né s’impo-
ne; l’uomo e l’animale giocano per piacere. È superfluo, si fa nell’ozio, non è urgente
né necessario. Non è vita ordinaria, la sua sfera di riferimento è temporanea ed ha pro-
prie finalità al contempo, in ogni caso, molto serie e impegnative. È disinteressato, fine
a sé stesso e provvisorio, si gioca per e con soddisfazione. Ha funzione collettiva
7
, supe-
ra gli aspetti primari di nutrimento-accoppiamento-difesa. Ha limitazioni di luogo e
di tempo, è ripetibile, si fissa nel ricordo e diventa forma di cultura. All’interno del suo
spazio si crea un ordine assoluto, pena la distruzione dell’incanto creato. È ritmo ed
armonia, infatti, la tendenza che ha un gioco ad essere anche bello, oltre che diverten-
te, soddisfa il piacere estetico di circondarsi di forme ordinate.
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“(…) Questi piccoli ordinati sistemi autonomi, apparentemente autosufficienti, in cui
possiamo entrare o no a nostro piacere, che non hanno il minimo fine utile, ma hanno
tuttavia il potere, di quando in quando, di staccarci e di assorbirci forse più di ogni altra
cosa nella nostra vita.
Ma possiamo dire perlomeno questo, penso: sono tutti sistemi di confronto per fingere con-
flitti. (…) soddisfare due nostri profondi e contradditori stimoli sociali:l’uno di stare insie-
me, l’altro di confrontarci. (…) Perché c’è sempre nei giochi da tavolo questa curiosa dua-
lità tra noi stessi e i nostri pezzi: siamo sia dentro che fuori del gioco; c’è un livello Lilliput
quando sentiamo e quasi crediamo di essere dentro ed un livello Gulliver, quando dal-
l’esterno e dall’alto maneggiamo i pezzi e li muoviamo qua e là.”
8
Il giocatore deve rispettarne le regole (forza morale implicita)
9
, la lealtà è requisito
fondamentale affinché tutto funzioni. La rottura dell’incanto è il pericolo più facil-
mente provocabile e riscontrabile all’interno di situazioni dove sono presenti giocato-
ri disonesti, o poco convinti di sottoporsi ai vincoli ritenuti necessari per poter gio-
care. Prova ne è che spesso il gruppo che gioca sta insieme anche nella vita, confer-
mando così un piacere alla reciproca compagnia ed un comune intento di vita; la
spontanea creazione di club o “compagnie” è un fenomeno sempre più in espansio-
ne, soprattutto fra adolescenti e giovani adulti.
10
Nel gioco si possono rilevare due aspetti: può rappresentare una lotta per qualcosa
(competizione), oppure è gara fra chi rappresenta meglio qualcosa (rappresentazione).
La rappresentazione ha sempre le caratteristiche formali del gioco, la separazione
moderna fra attore e pubblico non esisteva nel “teatro delle origini”, tutto iniziava
dalla comunità e nella comunità si esprimeva. Importante, qualsiasi fosse l’occasione
(culto, giustizia, gioco, festa, iniziazione) era la rappresentazione (atto esecutivo di
risposta alla circostanza specifica). Questa esecuzione ed i relativi significati (produ-
zione di senso) che ne scaturiscono possiamo definirli performance.
11
L’azione sacra è dramenon (qualcosa che si fa), drama è ciò che si rappresenta, anche
in forma di gara, è rito ma anche sempre performance; la separazione dalla vita quo-
tidiana si ottiene per mezzo di un comportamento formalizzato e prescrittivo, chi vi
partecipa è trasportato oltre e si isola da ciò che sta oltre lo spazio dedicato.
L’avvenimento può essere ripetuto, non è semplice imitazione ma partecipazione nel
comunicare e nel co-agire. È sostenibile ritenere che il culto arcaico sia spettacolo,
rappresentazione, raffigurazione. Il tutto contribuisce a mantenere l’ordine del
mondo, contribuendo così alla formazione delle primitive forme di governo.
Il culto, espressione di massima serietà, può essere gioco? Ogni gioco implica la mas-
sima serietà, l’antitesi gioco-serietà non sussiste. Presupposto del luogo sacro è il
mistero e la sacralità, queste caratteristiche sono comuni a tutte le civiltà in quanto
aspirazioni dello spirito umano.
L’isolare il sito prescelto dalla vita ordinaria, caratteristica formale applicata anche nel
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11 |
gioco, è consuetudine pure delle pratiche religiose, dell’esercizio della giustizia, delle
feste tradizionali. Sono facilmente identificabili un paio di similitudini tra gioco e
festa: la sospensione dalla vita ordinaria e la limitazione di tempo e di spazio. Anche
nelle feste, creatrici anch’esse di cultura, queste costanti sono evidenti. Le feste impor-
tanti delle civiltà primitive sono circondate dalla consapevolezza del “non essere vero”
(le maschere rituali sono manufatte durante tutto l’anno, portate nel rito e poi nasco-
ste fino al prossimo evento, ci si comporta come se nessuno sapesse che sono frutto
dell’abilità umana e non opera della divinità)
12
. La simulazione sostituisce il vero, per
attuarsi deve avere la collaborazione convinta di chi partecipa e presta fede all’esibi-
zione. La mancata partecipazione rende tutto ridicolo o grottesco. Ciò che si replica
simulando (divinità, demone o altro) si definisce simulacro, in pratica qualcosa che è
socialmente condiviso e accettato da tutti come “realtà”.
13
Il gioco, meglio di altro, esprime la complementarietà di credere e non-credere, lo
stretto legame fra serietà sacrosanta e scherzo.
Continuando nell’analisi del concetto di gioco in generale, non possiamo ignorare
l’importantissimo contributo lasciatoci da Roger Caillois.
14
Egli, in maniera origina-
le, ha classificato i giochi in 4 categorie principali, definite pulsioni primarie, a secon-
da che predominino la competizione (AGON), il caso (ALEA), il simulacro (MIMI-
CRY), la vertigine (ILINX stato organico di smarrimento e perdita della coscienza).
15
La nomenclatura utilizzata si serve di vocaboli presi a prestito da lingue diverse, pro-
prio per non caratterizzare troppo il gioco solo con le parole di una specifica cultura.
I giochi, secondo la sua teoria, s’inseriscono fra due poli opposti ed estremi: la paidia
(turbolenza, divertimento, libera improvvisazione, fantasia incontrollata) ed il ludus
(regola, desiderio di convenzioni arbitrarie ed imperative, esigenza di sforzo, tenacia,
abilità, sagacia)
16
.
“Queste quattro categorie, tese ciascuna dalle due forze estreme, della regola e della srego-
latezza, coprono sia i giochi adulti, sia quelli infantili; sono categorie che contengono
anche i giochi d’azzardo (normalmente non considerati) e danno alla dimensione del
ludico un carattere universale e nello stesso tempo riconducono alla sfera del gioco mani-
festazioni sociali adulte come il teatro, le arti dello spettacolo, lo sport (...) ricollegando in
maniera forte il modo di giocare dei bambini con quello dei grandi”
17
Le quattro categorie fondamentali sono:
- Agon:
riguarda i giochi con caratteristica di competizione. L’uguaglianza delle probabilità di
successo fra antagonisti è creata artificialmente, sulla vittoria non ci possono essere
dubbi o contestazioni. L’uguaglianza di possibilità fra i giocatori è il principio cardi-
ne, sia nella prova fisica (incontri sportivi) sia in quella intellettuale (tornei di gioco).
Stimolo alla partecipazione è la possibilità del riconoscimento della propria superio-
rità, rispetto agli altri concorrenti, in uno specifico campo. Queste competizioni
implicano disciplina e perseveranza, l’agon è forma pura del merito personale. Le
regole di gioco sono consolidate, si ripetono uguali, rappresentano i limiti di spazio e
tempo, fuori dello specifico contesto non esistono. L’impegno ad osservarle è una
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libera scelta, non s’impone, è consapevolmente assunto, se fosse altrimenti non ci
sarebbe più gioco. Assumiamo infatti che quando giochiamo con qualcuno, che non
sa di giocare, ci stiamo servendo di lui. Non esiste gioco in cui tutto è permesso
18
.
Le regole sono inscindibili dal contesto ed arbitrariamente accettate. Il grado di con-
sapevolezza del rispetto delle regole nei bambini, per esempio, ci permette di com-
prendere il loro livello d’apprendimento delle strutture formali. Indirettamente e non
esplicitamente quest’aspetto ha un’importante valenza formativa, soprattutto nella
prima infanzia, ma non solo. Maestro in quest’analisi è Jean Piaget
19
. La sua descri-
zione delle regole nel “gioco delle palline” è considerata la più bella trattazione d’an-
tropologia evolutiva. Una regola diventa legge morale quando, da costrittiva, diventa
cooperativa. La funzione specifica della cooperazione è di insegnare al bambino reci-
procità e generosità verso i compagni di gioco. La regola è dunque condizione indi-
spensabile all’accordo. Il gioco competitivo abitua il bambino a non stupirsi della
competitività che incontrerà nella vita adulta.
- Alea:
è parola latina che indica il gioco dei dadi. Così si definiscono tutti i giochi dove ci
si affida al caso per avere un risultato (la decisione non mi appartiene e non ho alcu-
na possibilità d’intervento). Solo il destino dispensa la vittoria, il caso ed il suo arbi-
trio sono le uniche leggi del gioco. Il giocatore non si attiva, non impegna qualità o
disposizioni, ma aspetta passivamente il responso della sorte. Anche nei giochi di for-
tuna, allo scopo di renderli più interessanti, si applicano delle regole; l’intento è quel-
lo di poter prevedere il manifestarsi di un particolare evento, con una certezza entro
i limiti della probabilità
20
. È un mondo convenzionale all’interno del quale chi gioca
si affida alla sorte e cerca in tutti i modi consentiti (talvolta anche non) di prevedere
la probabilità di vincita. È definita probabilità la possibilità del ritorno dell’evento e
la sua calcolabilità. Il caso è insito nell’agire, nel movimento (se non faccio nulla dif-
ficilmente succederà qualcosa). Meno il giocatore è messo in grado di intervenire
sullo svolgersi dei fatti, più il gioco dipende dal caso (si costruisce un meccanismo
automatico, come nella roulette). Il meccanismo non fa parte del gioco, organizza
solo i giocatori.
Simili giochi perdono interesse e motivazione quando è individuata una prevedibile
certezza del risultato. Nei giochi organizzati (Casinò), il Banco inibisce il libero spa-
zio d’azione dei giocatori, in quanto riserva per sé un guadagno sicuro. Non è un gio-
catore, ma un imprenditore
21
(giochi a costo non-zero). Anche il baro non è un gio-
catore (ma si comporta in tal senso), sostituisce al caso la propria abilità. Il gioco d’az-
zardo è noioso senza posta, il caso in sé non offre molto interesse, lo scopo diventa il
guadagno. L’agon è responsabilità personale, l’alea è abdicazione della volontà. Alcuni
giochi combinano insieme queste due caratteristiche.“Dalle caratteristiche ricordate
discende un grande principio morale, globale e sintetico ad un tempo. Lo formulo con una
frase dal sapore evangelico: non è l’uomo per il gioco, ma è il gioco per l’uomo! La frase è
estremamente semplice, ma quanto mai densa e ricca di implicazioni quanto mai concre-
te per giudicare la moralità o meno del gioco d’azzardo. (…) Anzi tutto, dire che non è
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l’uomo per il gioco significa rifiutare decisamente un’indebita riduzione dell’uomo alla
quale viene spesso sottoposto: quella che lo riduce a un mezzo, a una cosa in ordine al
gioco, che pertanto finisce per porsi come fine, o valore assoluto, o idolo, al quale tutto o
quasi sacrificare. Abbiamo qui una contraddizione insanabile con quella dignità perso-
nale dell’uomo che esige da tutti assoluto rispetto, secondo la famosa espressione di
Immanuel Kant “l’uomo è sempre e solo fine, mai mezzo”. (…) C’è gioco e gioco. C’è il
divertimento legittimo e doveroso, ci sono le varie forme di agonismo e di sport; ma c’è
anche il gioco che ha fini di lucro ed è basato tutto e solo sulla aleatorietà della vincita o
perdita. Ed è questo il caso dei giochi d’azzardo, che secondo il nostro Codice penale sono
“quelli nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita è interamente o quasi inte-
ramente aleatoria” (articolo 721). Dire che il gioco è per l’uomo significa affermare che
l’uomo ha il diritto e il dovere di mantenere la sua libertà e dunque il dominio di sé di
fronte al gioco, perché questo non finisca per dominare l’uomo stesso, spogliandolo della
sua libertà e quindi incatenandolo in una schiavitù più o meno pesante. Ora proprio nei
giochi d’azzardo, come rileva Roger Caillois, l’individuo assume un ruolo di passività e la
sua stessa soggettività scompare quasi del tutto dinanzi alla “cecità della sorte”. L’alea rap-
presenta la negazione del lavoro, della pazienza, della qualificazione personale e appare
come una “insolente derisione del merito” proprio perché reca al giocatore fortunato infi-
nitamente più di quanto gli possono procurare il lavoro e la fatica.”
22
Secondo i greci proveniva da Hermes il potere sui giochi di fortuna. Rimanendo nella
mitologia, Ty c h e
23
e Ananke
24
, nel gioco, sono una cosa sola, una è orientata verso il
vincitore l’altra verso il perdente (vita e morte? Rosso e nero sono i colori delle carte).
Il Destino
25
e la Provvidenza
26
non hanno nulla a che vedere con il caso. Agon ed
Alea sono categorie opposte e simmetriche, entrambe però creano artificialmente
condizioni d’uguaglianza fra i giocatori, per mezzo sia del merito sia del caso.
Molti atteggiamenti umani evidenziano come il caso sia invocato per cercare di sem-
plificare la complessità della vita quotidiana, infatti, ciò che spesso non si compren-
de si fa ricadere sotto la responsabilità del destino. Spesso per rispondere alla doman-
da “Perché proprio a me?”, che rappresenta la domanda senza risposta per eccellenza,
ci si affida a carte, dadi o altri strumenti generatori di casualità, per avere risposte da
un presunto Dio cieco e sordo ad ogni interpello.
27
- Mimicry:
è farsi altro, diventando un’altra persona ed interpretandola
28
. Il giocatore si finge un
altro ed, attorno a questo, costruisce situazioni ed azioni. Mimicry è parola inglese
che indica mimetismo.
In quanto gioco, lo scopo perseguito non è l’inganno; la spia o il fuggiasco si masche-
rano per ingannare, ma loro non giocano. La mimicry possiede tutte le caratteristiche
del gioco: libertà, convenzione, sospensione del reale, spazio e tempi limitati. Non
costringe però a regole troppo rigide; tutto è caratterizzato da una continua e fanta-
siosa invenzione. Questi giochi riproducono un comportamento che non è gioco, ma
azione, la quale non si può né fissare né riprodurre uguale nel tempo.
29
Non gioco
con la mimesi, ma la esercito, è un modo diverso, per il giocatore, di porsi rispetto al
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suo operare nel mondo.
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Nell’infanzia la mimesi è necessaria; si riproducono movi-
menti ed attività tipici del mondo degli adulti. Si rappresenta con la mimesi qualco-
sa che in quel momento non ci appartiene e che ci manca (riproduco quello che non
sono o che non ho).
- Ilinx:
questi giochi, ricercando la vertigine, distruggono temporaneamente la stabilità della
percezione e alterano la coscienza. È una sensazione voluta per se stessa. Il giocatore
desidera uscire dal mondo, si affida all’emozione abdicando la volontà.
Non è una violazione delle regole, ma è sottrarsi ad esse, soprattutto alle regole fisi-
che della percezione (il piacere del pericolo e la certezza di poterlo controllare). Ma ci
si può sottrarre anche alle regole morali (il piacere esercitato dal disordine e dal proi-
bito).
Ilinx è termine greco che significa gorgo, da cui deriva vertigine (ilingos). Questo tipo
di piacere non è privilegio dell’uomo, è ricercato anche dagli animali. Con l’avvento
dell’era industriale, la vertigine è diventata una categoria di gioco ed una possibilità
commerciale. (parchi di divertimento, luna park).
Due antropologi, i coniugi Geertz, nel 1958 intrapresero un viaggio di studio che li
portò a Bali. In quell’occasione, interessandosi di una pratica ludica quale il combat-
timento fra galli, che coinvolgeva tutti gli abitanti locali, coniarono la definizione di
gioco profondo. Anche nella nostra cultura esistono i giochi profondi, sono giochi che
rappresentano fatti sociali totali, sono più di semplice gioco, le implicazioni sono rela-
zionali ma anche economiche e politiche. L’esempio più calzante di gioco profondo
contemporaneo è il gioco del calcio.
“Si può essere concordi nell’affermare che certi giochi vanno al di là di ciò che mostrano
sul terreno di gioco; essi sono piuttosto un pretesto per rivivere temi presenti nella vita quo-
tidiana (la vittoria, la sconfitta, la rivalsa, la forza, la fedeltà, l’intelligenza, l’amicizia,
l’identità di gruppo, l’aggressività…) attraverso una serie ordinata di azioni che sottostan-
no a regole esplicite e condivise. Gli sport della nostra cultura sono senz’altro dei giochi
profondi, così come lo sono giochi adulti che non rientrano nella categoria degli
sport…Anche le più innocue partite a scopa o a scacchi hanno una loro profondità. Forse
non ne siamo consapevoli, ma non è un caso che giochiamo a dama o a scacchi che sono
ambedue giochi “simmetrici” che offrono le stesse probabilità di vittoria ai giocatori e non
si gioca a partite con tavolieri dissimmetrici (e ce ne sono tanti di questi giochi in altre
culture) dove le probabilità di conclusione per un giocatore o per l’altro sono già sconta-
te.
31
Il fatto è che noi giochiamo per terminare con una vittoria e non per esercitarsi nel
gioco e perciò non possiamo divertirci in giochi che, dal punto di vista della conclusione,
appaiono già decisi. Questo comportamento è anche un po’ contraddittorio perché se si
chiede ad ognuno di noi quale sia lo scopo più importante del gioco si risponde più spes-
so: il giocare. Ma l’affermazione decubertiana “l’importante e partecipare, non vincere” è
una massima che viene declamata ormai senza convinzione anche nelle assise sportive più
importanti.”
32
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In ogni caso però attribuire uno scopo al gioco è un errore. Il giocatore non si chie-
de “cosa significa il mio giocare”, se lo fa il gioco finisce. Tutti i benefici che il gioco
produce non sono lo scopo ma solo le conseguenze.
Il pregiudizio della mancanza di serietà, riferito alle pratiche ludiche, trae origine dal-
l’idea, molto moderna, che non avendo il gioco scopo o finalità di produzione e, di
conseguenza, di guadagno, non è utile. Infatti, per giocare è indispensabile l’ozio.
Un pregio attribuibile a tutti i giochi è quella di essere stabili nel tempo, ma, nello
stesso tempo, difficilmente restano circoscritti in luoghi definiti. Infatti analizzando
le tipologie di giochi esistenti nelle varie civiltà passate e presenti, è possibile riscon-
trare una curiosa universalità di codici, principi, strumenti.
Può non essere azzardato definire una società a partire dai giochi che pratica. Ad
esempio, la civiltà cinese mette i giochi di pedine fra le pratiche a cui deve dedicarsi
un letterato. L’aggressività si placa, si stimola la riflessione, la serenità, l’armonia; que-
st’abitudine diventa segno distintivo della società cinese. I giochi paiono essere dun-
que legati allo stile di vita praticato nelle diverse culture.
Caillois si chiede se, dato che i giochi sono universali, ma non si giocano uguali gio-
chi ovunque indistintamente, i principi fondamentali non siano distribuiti in manie-
ra irregolare fra le varie società e non ne determinino la vita collettiva.
Il gioco è finzione della realtà, quindi psicologico, anche se non solo.
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L’esperienza
simulata ed indiretta è gioco. Se giocare è fingere, giocando si minimizza il rischio
della vita. Questa impostazione nella definizione di gioco (peraltro molto vasta) ci fa
includere anche l’arte, lo sport, la poesia
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ed il dramma
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.
In tutti i giochi sono ben presenti i rapporti tra l’individuo e la società. Il gioco tal-
volta si considera come allenamento alla vita, anche se Caillois sostiene che il gioco
non è apprendistato al lavoro, solo in apparenza anticipa le attività adulte. Non pre-
para ad attività specifiche, ma allena ad affrontare e superare le difficoltà della vita,
stimolando la padronanza di sé e unendo forze non facilmente componibili (intelli-
genza, resistenza nervosa, attenzione).
Un buon giocatore accetta l’insuccesso come un contrattempo e la vittoria senza trop-
pa ebbrezza; ci vuole distacco, anche come lezione di vita (elasticità ludica).
L’ analogia e la simulazione fanno parte del mondo del gioco (come se). Il termine ana-
logo/analogico esprime ciò che è simile, ma diverso, che può cambiare nelle parti
accessorie ma restare identico in quelle fondamentali. L’analogia è insita nel gioco e
nell’elasticità ludica. L’analogia, intesa separatamente, non esiste, c’è solo nel rappor-
to tra il “logico” e l’analogico. È rapporto tra dover essere ed essere, in pratica tra real-
tà esprimibile e caricatura della realtà.
“Nel rielaborare il reale, nel giocare, il bambino compie un atto interpretativo, ermeneu-
tico, elaborativo e nel far questo immette quei valori, quelle regole sociali (ovviamente non
chiaramente coscienti, ma certo viventi), quegli apprezzamenti o quelle negazioni che
avrà imparato a leggere dagli adulti. Il bambino interpreta il mondo e lo gioca; il gioco
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stesso diventa interprete del mondo perché mescola diversi piani di esigenze e di stimola-
zioni e va ad influenzare altri comportamenti, altre costruzioni cognitive.”
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Simulare è ispirare realtà e veridicità in una situazione costruita artificialmente. La
situazione realmente vissuta nella simulazione influenza il soggetto; le azioni intrapre-
se hanno delle conseguenze (sentimento di realtà: influenzo e sono influenzato). Il
sentimento di realtà si attenua in mancanza di esperienze dirette ed indirette (meta-
fore), soprattutto in tutte quelle situazioni dove l’individuo sia costretto, per vari
motivi, a non avere sufficienti interazioni interpersonali. La simulazione allora aiuta
a mantenere vivo questo sentimento di realtà. È importante il legame che unisce l’idea
d’attendibilità al sentimento di realtà. Il simulatore, persona o strumento, deve esse-
re molto credibile per poter trasferire al meglio il rapporto individuo-società in una
situazione limitata come quella simulata. La credibilità non dipende dalla situazione
ma dal rapporto tra la situazione (che deve essere accettata senza critiche) e l’indivi-
duo (che non deve essere troppo scettico o disincantato).
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L’uomo vive in due modi: con le attività che sono prassi, dramma, fare, e con le fan-
tasie, che sono teoria, logos, pensiero. Il primo è il dover essere, il secondo è l’essere.
È detta elasticità ludica la capacità di acquisire le opportune distanze da ciò che ci cir-
conda, focalizzandone una parte determinata rispetto al tutto.
In conformità a quanto analizzato fino a questo momento, cercheremo dunque di
guardare al gioco non solo come occasione di svago ma anche come oggetto-strumen-
to di lavoro e d’intervento formativo.
Qualsiasi gioco è riconducibile ad elementi specifici che possiamo definire elementi
strutturali di un gioco. Sono sempre presenti ed hanno caratteristiche specifiche. La
loro diversa combinazione determina la struttura complessiva del gioco, variare le com-
binazioni significa modificarlo, trasformandolo talvolta in un altro gioco, stravolgen-
done spirito e finalità.
Questi elementi sono stati identificati e codificati attraverso gli studi promossi dalla
scienza dell’azione motoria.
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e sono: i ruoli, lo spazio, il tempo, i punteggi, gli ogget-
ti e le relazioni.
“Questi elementi, composti fra loro, determinano l’intelaiatura di un gioco (o se si prefe-
risce, la sua struttura) la quale va a costituirne, a sua volta, la logica interna. Entro que-
ste articolazioni si sviluppano le fondamentali direzioni delle condotte motorie ludiche: la
dimensione cognitiva (intelligenza psicomotoria e sociomotoria), la dimensione sociale e
relazionale (la comunicazione motoria), la dimensione affettiva, la dimensione espressiva
(la creatività motoria), la dimensione decisionale (la decisione motoria).”
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I ruoli: si può interpretare anche come un codice che abilita il giocatore a dei poteri
ma, contemporaneamente, lo sottopone a dei vincoli. Nei giochi basati sulle regole
normalmente il giocatore ha un ruolo ben determinato con due riferimenti specifici:
l’interazione con gli altri e il rapporto con lo spazio. In molti giochi, dove la loro
struttura lo permette, è possibile il passaggio o l’inversione di ruolo, possibilità pre-
ziosa per vivere situazioni affettivamente diverse. La dinamica dei ruoli diventa così
occasione ludica che porta con sé significati importanti (per il singolo e per i suoi rap-
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porti sociali) dove s’inseriscono esperienze personali sia affettive sia relazionali.
Lo spazio: è possibile giocare in spazi che sollecitano o inibiscono le relazioni, già a
priori si possono capire le potenzialità relazionali di un gioco. Stare in cerchio, di
fronte o sparsi non ha lo stesso significato nei rapporti interpersonali.
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Il tempo: in alcuni giochi il tempo di gioco finisce quando tutti hanno fatto la loro
mossa, è un tempo preciso ma anche elastico, dipende naturalmente dal numero dei
giocatori. In altri invece c’è un tempo stabilito e fisso entro il quale bisogna giocare.
A tempo scaduto il gioco finisce, qualsiasi sia la situazione. In questo caso il tempo
influenza il modo di giocare, si è costretti ad essere veloci, efficienti, organizzati. È
paragonabile al tempo in una competizione sportiva. Altre volte ancora è deciso da
un giocatore o a priori. Queste differenze non hanno la stessa influenza sul gioco. A
seconda dei casi i comportamenti e le attese saranno diversi, si stimolerà maggior-
mente l’aggressività, la competizione, la riflessione o la cooperazione.
I punteggi: L’articolazione diversa nel calcolo dei punti può determinare modalità
d’approccio differenti, cambiando, di fatto, la logica interna del gioco.
Il rapporto con oggetti: più i giocatori sono giovani, più questo rapporto è determinan-
te nel loro sviluppo generale. Molti studiosi hanno parlato dell’importanza del ruolo
degli oggetti nella crescita del bambino
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Non si parla solo di giocattoli, che sono rea-
lizzati appositamente per giocare, ma anche di quegli oggetti quotidiani che in un
particolare momento risultino stimolanti per il giocare. L’oggetto favorisce azioni che
non si possono fare solo con il corpo, oppure sviluppa abilità o crea alleanze ed oppo-
sizioni. Gli oggetti consentono la sperimentazione ed una vastissima articolazione
combinatoria.
Le relazioni: salvo che non si giochi da soli, è impossibile non avere relazioni con gli
altri. Queste comunicazioni motorie, come si definiscono, sono principalmente di
due tipi: di collaborazione o d’opposizione. “I bambini, anche molto piccoli, hanno già
imparato che uno degli scopi del giocare (o almeno quello che hanno ricavato dai messag-
gi e dai comportamenti degli adulti) è vincere e che per vincere occorre scontrarsi contro
qualcuno e quando quel qualcuno è un gruppo occorre allearsi con un altro gruppo. Gli
adulti stessi spesso accettano (quando addirittura non lo accolgono e lo valorizzano) que-
sto modello come l’unico possibile o come il più gradito dai bambini. Eppure ci sono altre
modalità di relazione che mescolano alleanza/opposizione, rendendo il gioco meno netto e
limpido, ma forse più sfumato e interessante (...) prevedono un doppio contratto ludico.”
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Per completezza, dopo gli elementi strutturali di un gioco, è opportuno considerarne
anche le sue potenzialità cognitive, affettive, simboliche. Il cambiamento della sua
struttura influenza anche le valenze affettive e le aspettative del giocatore. Si varia il
modo di affrontare la situazione ludica. La ricchezza interna del gioco in generale è
data dalla coesistenza d’elementi di natura diversa, questa multiformità, però è anche
un limite e una difficoltà per quanti vogliono analizzarlo e codificarlo. Considerandolo
banalmente solo un modo per passare il tempo, e non qualcosa di più profondo,
rischiamo di lanciare un messaggio distorto e dannoso: giocare è un passatempo tran-
sitorio, da sostituire al più presto con attività vere, più serie e più proficue.
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