2
appropriandosi, in diversa misura, dei nuovi contesti urbani e culturali configuratisi a seguito della ricostruzione.
Si è trattato dunque di individuare alcuni dei termini e delle modalità di questo fenomeno di rinascita culturale,
entro il quale ancora oggi si riproduce l’identità degli abitanti di Gibellina, tenuto conto dell’ampio contesto di
osmosi, ma anche di contrapposizione, tra arte e vita, cultura impegnata e popolazione, che segna la specificità di
questo caso.
Nella fattispecie non si è trattato di indagare contesti di dialogo transnazionali o rapporti tra componenti
maggioritarie e minoritarie di uno stesso Stato nazionale, ma di rintracciare il complesso intersecarsi dei motivi
locali con le volontà politiche nazionali, i saperi accademici, e i messaggi veicolati da singole personalità
intellettuali ed artistiche. La ricostruzione dei paesi a seguito del terremoto del 1968 si configurò infatti come
terreno di scontro e contrattazione, cui parteciparono oltre alle popolazioni colpite, sia lo Stato e i suoi organi
delegati, che il mondo architettonico ed artistico, chiamato a vario titolo a confrontarsi con le esigenze della
riedificazione e, insieme, a contribuire alla sua realizzazione e riuscita.
In questo contesto Gibellina visse un’esperienza particolare: cacciato il commissario Cola Pace, nel 1969, i
cittadini elessero a grande maggioranza il loro nuovo sindaco, il senatore Ludovico Corrao, il quale, in un clima
di intensa partecipazione emotiva e fattiva alle esigenze collettive, si fece promotore di un singolare progetto di
rinascita: di fronte all’esigenza quanto mai pragmatica di individuare un fondamento solido su cui erigere il
nuovo paese, la sventura sismica fu interpretata come un’occasione irripetibile per gettare le basi di una
comunità rinnovata, libera dalla miseria e dalla mafia, che rintracciasse nel passato e nella speranza di un futuro
migliore l’energia per la ricostruzione di un paese nuovo, in cui la valorizzazione delle arti e mestieri locali si
accompagnasse al divenire della città un cantiere dell’arte contemporanea, in cui fosse possibile agli abitanti
esperire un nuovo modus vivendi incentrato sul diritto alla bellezza.
Tale progetto, che individuava nella cultura e nell’arte la spinta necessaria alla fondazione della nuova Gibellina,
nasceva con intenti provocatori e riparatori nei confronti di altri modelli culturali, quello di uno Stato promotore
di una politica della ricostruzione contraria ad ogni “superfluità”, e quello modernista, delocalizzato e falsamente
funzionale, dei progetti urbani dell’ISES, ente incaricato della ricostruzione dei centri distrutti.
Le strategie del cambiamento furono maturate nel contesto cittadino come frutto della volontà politica degli
elettori e, insieme, con l’apporto continuo e determinante di intelligenze esterne; pertanto, sebbene i cittadini
giocassero un ruolo attivo all’interno, nonché contro, tale progetto culturale, divenuto modello istituzionale,
partecipando alle iniziative culturali e contrattando il proprio consenso, il contributo di intellettuali ed artisti
rimase centrale ed insostituibile: le iniziative dell’amministrazione comunale guidata da Ludovico Corrao, al pari
dell’erezione del centro urbano curata dell’ISES, introdussero sul neonato suolo gibellinese una forte
componente di estraneità al locale, attivando così dispositivi di creolizzazione culturale.
Entrambe furono elaborate in contesti strategici
8
, l’una nell’alveo nazionale della scienza architettonica e
urbanistica, le altre nel dialogo politico tra i rappresentanti, i cittadini e alcuni illustri esponenti del mondo
culturale italiano ed internazionale. Ed entrambe rimasero solo un fattore, per quanto forte, all’interno dei
processi d’identificazione dei gibellinesi, poiché mai si trasformarono nell’unico orizzonte di riconoscimento e
appartenenza per gli abitanti, costituendosi invece come un termine distribuito col quale tutte le generazioni sono
chiamate a confrontarsi.
Ora che i fervori della rinascita sono spenti e il percorso culturale che ha condotto all’oggi, assieme ai suoi
protagonisti, ha lasciato la sua impronta ed è sottoposto a storicizzazione, è possibile rintracciare i segni di
quest’incontro, divenuto ormai parte integrante del riprodursi dell’identità locale.
Ho dunque esercitato la mia attenzione sul rapporto che intercorre tra gli abitanti e il luogo in cui vivono, e su
come la popolazione si sia appropriata delle estraneità di quest’ultimo, con particolare riferimento agli ambienti
esterni della città, ove sono collocati le installazioni d’arte, si aprono le piazze, e si affacciano gli edifici
8
Utilizzo il termine strategia secondo la definizione datane da Michel De Certeau: «per “strategia” intendo il calcolo dei rapporti
di forza che diviene possibile a partire dal momento in cui un soggetto di volontà e di potere è isolabile in un ambiente. Essa presuppone
un luogo che può essere circoscritto come proprio e fungere dunque da base a una gestione dei suoi rapporti con un’esteriorità distinta. La
razionalità politica, economica o scientifica è stata costruita su questo modello strategico”. M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano,
Roma, Edizioni Lavoro, 2001, p.15.
3
d’autore, nella verifica della misura in cui i gibellinesi hanno costruito, accolto e interferito, usato e modificato
ciò che è stato prodotto: ho scoperto così le tracce di un dialogo minuto, fatto anche solo del sovrapporsi di
nomi, di significati e di affetti. Inevitabilmente ciò è coinciso anche con l’individuazione delle strategie
enunciative, delle rappresentazioni dell’identità che si sono sovrapposte e confrontate nel dibattito politico e
sociale, con particolare riferimento al ruolo che i discorsi delle istituzioni o degli esterni (in particolare gli
intellettuali e gli esperti che si sono occupati del caso Gibellina) hanno giocato all’interno delle dinamiche
d’identificazione. Ma, fuori dalle contrattazioni esplicite e verbalizzate, è emerso che molti momenti di questo
singolare e controverso processo di rinnovamento e trasformazione culturale si siano invece annidati nel
silenzioso e opaco brulichio della vita quotidiana. A Gibellina non ho trovato consumatori di prodotti culturali
che vivano una condizione di assoluta passività, poiché anche nel rifiuto o nella scelta di diversi sistemi di valori,
ritenuti rappresentativi della propria identità, essi hanno mostrato di essere a loro volta, ed in maniera diversa,
produttori, in grado di contrattare con l’altro all’interno di una rete di rapporti di potere, per quanto diseguali, e
di vampirizzare ciò che per loro è stato prodotto: il loro raggio d’azione è quello del dettaglio e delle modalità
d’uso, quello delle pratiche quotidiane e delle tattiche:
« […] definisco tattica l’azione calcolata che determina l’assenza di un luogo proprio. Nessuna delimitazione di
esteriorità le conferisce un’autonomia. La tattica ha come luogo solo quello dell’altro. […] approfitta delle
“occasioni” dalle quali dipende, senza alcuna base da cui accumulare vantaggi, espandere il proprio spazio e
prevedere sortite»
9
.
2. La costruzione dell’identità corrisponde ad un momento creativo che può realizzarsi sia come contrattazione
delle strategie che come fruizione e interpretazione tattica di ciò che è prodotto: il mio lavoro si è concentrato
più sul secondo aspetto, così rispondendo anche alla reale situazione negoziale oggi attiva sul suolo gibellinese.
Al primo aspetto ho dedicato l’ultimo capitolo della tesi, lasciando peraltro che fosse il dialogo tra me ed alcuni
abitanti di Gibellina, tradotto in forma scritta, a tracciare dei momenti esemplari di tale partecipazione.
Le persone con le quali ho parlato sono state coinvolte in prima persona nel progetto di rinascita, e ciò ha
comportato non solo che esse contribuissero attivamente al suo realizzarsi, ma anche che quest’esperienza fosse
pienamente acquisita nel loro vissuto. L’incontro culturale che le ha viste protagoniste è coinciso all’intrecciarsi
del loro saper fare e del loro agire la propria identità, con l’identità agita invece dagli altri, intellettuali, artisti,
uomini di teatro, portatori di possibilità ancora poco o per nulla conosciute.
In tale frangente fu più la cooperazione alla realizzazione di prodotti d’arte, che non la ricezione degli stessi, a
determinare un terreno di confronto, all’interno del quale la concreta prossimità tra individui, e la differenza di
cui gli altri si fecero portatori, generò momenti di riflessione e intersezione culturale.
Per il resto gli abitanti di Gibellina furono e sono perlopiù chiamati a «consumare»
10
dei prodotti, siano essi
l’articolazione dell’abitato progettato dall’ISES, o le vie e piazze ideate dai grandi architetti, o ancora, le
innumerevoli istallazioni d’arte disseminate per tutta la città. Rispetto a tali realtà i gibellinesi hanno agito e
agiscono diverse forme di appropriazione e interpretazione operativa, che vanno dall’alterazione fisica degli
spazi alle modalità di utilizzo, con qualche complicazione in più per le opere artistiche, le quali, prive di una
funzionalità immediata, sono state assunte all’interno del processo di costruzione dell’identità in maniera
irrisolta e problematica.
Analizzare questo difficile rapporto ha voluto dire indagare il dialogo che l’opera ha instaurato con l’ambiente
che l’accoglie, e, insieme, la natura della comunicazione che essa è in grado di attivare. Pertanto, ai fini di questo
lavoro, ho ritenuto significativo rilevare, prima del loro valore intrinseco, l’inserirsi delle opere nel contesto
urbano, ossia in uno spazio espositivo vivo e distratto, in quel «presente-che-va-facendosi-futuro» di cui ha
parlato James Clifford a proposito della possibilità, per gli oggetti collezionati nei musei, di tornare a far parte
delle storie tribali in atto
11
.
In tale contesto il ruolo delle installazioni, nel configurarsi dell’identità gibellinese, pertiene primariamente al
loro essere in situ, dunque al loro essere un’inconfondibile ed evidente marca territoriale ed un patrimonio
9
Michel De Certeau, op. cit., p.73
10
Cfr. Michel De Certeau, op. cit., p. 65-69.
11
Cfr. James Clifford, op. cit., p. 284.
4
collettivo.
Pur tuttavia, sebbene per i cittadini le opere siano riuscite solo parzialmente a guadagnare una godibilità
maggiore all’ambiente urbano, e gli stessi non facciano mistero della difficoltà e del disagio provato nella loro
fruizione, risulta innegabile che esse costituiscano un complesso contesto comunicativo, al cui interno
l’immaginazione dei gibellinesi è chiamata, e spesso si scopre, ad esercitarsi, pur con esiti difficilmente
rintracciabili.
Proprio la difficoltà di questa comunicazione ha reso l’interpretazione della realtà culturale gibellinese, ad opera
degli esterni o dei leader locali, un così efficace strumento di mediazione e costruzione: l’appropriazione del
patrimonio artistico avviene difatti anche sotto forma di identificazione, da parte dei cittadini, nelle
rappresentazioni dell’identità locale avanzate da soggetti competenti.
Ma l’identità, come è stato già detto, non può prescindere dai percorsi storici e dalla memoria, e a Gibellina la
selezione dei lasciti del passato e la scelta della poetica commemorativa è coincisa ancora una volta con una
negoziazione svoltasi, sì all’interno della comunità, ma anche nel coinvolgimento delle sensibilità e
interpretazioni esterne: così accanto al più tradizionale museo antropologico, che rintraccia nei manufatti del
mondo contadino le “radici” del presente, sul suolo gibellinese sono comparsi altri oggetti della memoria e altri
dispositivi di identificazione, su tutti il Cretto di Alberto Burri, gigantesco intervento di land-art posto a custodia
dei ruderi del paese distrutto e a sigillo di una catastrofe avvenuta. Le contestazioni e gli scontri avvenuti nel
passato riguardo la realizzazione di quest’opera altro non sono che il segno della difficile contrattazione
all’interno della quale i gibellinesi hanno maturato e realizzato il loro progetto di rinascita; ma, nello stesso
tempo, il rapporto e l’appropriazione che le nuove generazioni agiscono nei suoi confronti sono la traccia
evidente del suo essere ormai parte integrante del riconoscersi gibellinese oggi.
3. Ricostruire queste dinamiche di negoziazione mi ha posto uno spinoso problema di ricerca ed interpretazione
delle fonti.
Sul caso Gibellina esiste un’estesa documentazione costituita di scritti di varia natura: opere di carattere storico,
sociologico e socio-politico, testi d’architettura e urbanistica, cataloghi d’arte e fotografia, articoli giornalistici e
tesi di laurea, per non parlare poi del corpus di verbali, documenti e manifesti prodotti a vario titolo nel corso
dell’attività amministrativa del dopo terremoto, e durante le iniziative di piazza per la ricostruzione. La
stragrande maggioranza di questi testi verifica esclusivamente il fine, i mezzi e l’efficacia delle strategie in atto,
ne svela la natura innovativa o i limiti, il consenso o il dissenso che le accompagna, ma non ne coglie la
componente dialogica e i compromessi
12
. I dibattiti che animano l’ampia letteratura sull’argomento, benché
prendano spesso spunto dalle concrete condizioni di vita degli abitanti, mai si soffermano sui risultati di tali
conflitti e convergenze, che invece costituiscono l’interesse primo di questa tesi.
L’assenza di analisi sull’argomento qui in esame, nonché la natura specifica del tema, hanno reso necessario un
periodo di lavoro sul campo e la consultazione di nuove fonti: quelle orali.
Il primo passo è stato cercare di raccogliere quante più informazioni possibili sulla storia recente di Gibellina,
con particolare riferimento agli aspetti socio-politici del periodo post sismico, attraverso testi, articoli
giornalistici, documentazione amministrativa e il racconto di alcuni gibellinesi. In questa fase, la possibilità di un
confronto con alcuni informatori locali
13
più che accrescere la quantità di informazioni a mia disposizione ha
avuto l’effetto di sgomberare il campo da una parte di indicazioni presenti nei libri: il ricorrere di certi temi, il
coagularsi delle opinioni, anche l’emergere di posizioni più isolate o alternative, mi hanno fornito un orizzonte,
dei riferimenti per iniziare ad orientarmi nella Gibellina degli anni duemiladue-duemilatre.
Ritengo tale riferimento cronologico tutt’altro che superfluo, poiché per studiare i momenti dell’incontro mi è
12
Solo le tesi di laurea di Caterina Albanese e di Anna Vassallo fanno chiaro riferimento all’incontro culturale: sono entrambe
costruite accostando una trattazione teorica alle voci raccolte sul campo, una raccolta di interviste nella prima, elaborati scritti da bambini
di Gibellina nella seconda; in tutti e due i casi comunque le dinamiche del contatto più che tematizzate sono lasciate intendere dalle vive
parole degli abitanti, delegando al lettore parte del lavoro interpretativo. Cfr. C. Albanese, Gibellina, comunità rurale in transizione?,
Università degli studi di Palermo, anno accademico 1986-87, e A. Vassallo, Gibellina, città d’eterotopia, Università degli studi di
Palermo, anno accademico 1996-97.
13
Uso indifferentemente il termine fonte orale e informatore poiché il rapporto instaurato con molti degli interlocutori non ha
trovato conclusione dopo l’intervista ma è continuato nel tempo, consentendomi sia di approfondire i temi che mi interessavano che di
abbozzare con loro delle analisi.
5
stato necessario interpretare e raccontare dinamiche reali, vissute all’interno di rapporti di potere articolati nel
tempo: l’analisi non poteva che essere un’elaborazione, compiuta in un tempo preciso, di una ricerca altrettanto
cronologicamente connotata
14
.
Anche le fonti che ho consultate sono distinguibili sulla base della loro natura temporale: i testi scritti sono
collocabili con esattezza, ed è perfino rintracciabile una certa rispondenza tra i temi in essi trattati e il succedersi
degli avvenimenti nel Belice e a Gibellina. Quelli che trattano le problematiche dell’intera zona terremotata
indagandone gli aspetti sociali, politici ed economici si concentrano tutti nel decennio successivo al 1968,
mentre quelli che affrontano più o meno criticamente il progetto guidato da Corrao sono tutti, necessariamente,
di pubblicazione successiva al 1980. È però ben più interessante osservare quali tipi di pubblicazioni siano state
finanziate dalle amministrazioni comunali di Gibellina succedutesi dal terremoto fino ad oggi, poiché in esse
sono i segni del modificarsi della rappresentazione istituzionale dell’identità locale
15
.
Il riferimento ai testi che già popolano il campo di studi su Gibellina ha qui lo scopo non solo di chiarire quali
siano stati i prodotti culturali su cui ho concentrato la mia attenzione ma anche, e soprattutto, di sottolineare che i
gibellinesi hanno da tempo occasione di apprendere le parole che su di essi vengono pronunciate, e leggere i libri
che li riguardano. Il che, come ho già detto, risulta certamente significativo in considerazione dell’inscindibilità
tra i processi di costruzione dell’identità e le strategie enunciative, le rappresentazioni, cui quelli si
accompagnano.
Un fenomeno che meriterebbe un intero lavoro dedicato è il ricorrere nelle interviste che ho raccolte di alcune
frasi, parole, o argomentazioni, che sono risultate poi essere citazioni dei discorsi pronunciati durante i comizi
elettorali, o in occasioni celebrative, dai rappresentanti politici. Su tutti, fu in particolare il sindaco Corrao, con la
propria indiscussa capacità retorica, ad imbastire il discorso che accompagnò le operazioni della rinascita che
14
«Se la “cultura” non è un oggetto da descrivere, non è neanche un corpus unificato di simboli e di significati suscettibile di
un’interpretazione definitiva. La cultura è conflitto, è temporanea, è in continua trasformazione. La rappresentazione e la spiegazione – da
parte dei nativi come degli stranieri – sono coinvolte in questo mutamento», James Clifford, Introduzione: verità parziali, in J. Clifford e
George E. Marcus, Scrivere le culture, Roma, Meltemi, 1997, p.47.
15
Basti qui osservare che quest’anno, in occasione del 35° anniversario del sisma, è stata curata la riedizione di un testo, La
Strada Maestra, documento sulla vita nel vecchio paese, nella cui presentazione, scritta dall’attuale sindaco Vito Antonio Bonanno, il
vecchio e il nuovo – la rinascita con l’arte – vengono ufficialmente riconosciuti parte del patrimonio culturale comunitario; l’importanza
del gesto è evidente se si confronta questa presentazione con quella scritta solo cinque anni prima dall’allora sindaco in carica Giovanni
Navarra, grande oppositore del sindaco Corrao. Queste le due presentazioni (le sottolineature sono mie):
Gibellina, gennaio 1998,
«Dal 15 Gennaio 1968 ad oggi molti abitanti della vecchia Gibellina non sono più con noi. Chi a quella data era giovane o
non era nato, si trova oggi a gestire l’enorme cambiamento che ha investito in questo trentennio la vita sociale e civile. Trent’anni
durante i quali la popolazione è stata prima costretta a trasferirsi in Paesi e continenti lontani, “sequestrati” poi per lunghe
stagioni in squallide baracche di lamiera e finalmente “approdata” nel nuovo centro urbano.
Se viene spontaneo chiedersi dove la nostra gente ha trovato la forza di questa rinascita, la risposta è semplice. Qualcuno
aveva tracciato per noi “ La Strada Maestra”. Una strada ricca di valori umani, di operosa pazienza, di lungimirante saggezza. La
strada tracciata dai nostri padri, interpreti di quella cultura contadina che ci ha dato la forza di “combattere” in ogni momento di
sconforto.
Questa mostra [di cui il libro è il catalogo] che porta alla luce un passato sconosciuto alle nuove generazioni è stata
fortemente voluta da tutti noi e vuole essere un messaggio e un esempio per i giovani di Gibellina, perché sappiamo che qualsiasi
avversità può essere superata quando si crede nelle proprie risorse e sono chiari e precisi gli obiettivi. A trent’anni dal terremoto,
l’unica celebrazione possibile è quella del ricordo, non retorico né romantico. In questa occasione, con la pacatezza e la maturità
che derivano dalla distanza temporale dall’evento, si vuole rinnovare la memoria del paese e di quanti sono rimasti sotto quelle
pietre, tante volte da noi, giovani allora, amate e odiate.[…]
Giovanni Navarra - Sindaco di Gibellina»
Gibellina, gennaio 2003,
«[…] Sono trascorsi trentacinque anni da quella notte in cui la furia devastante della natura cancellò di colpo la città dei nostri
padri. Insieme a loro, noi giovani abbiamo costruito una nuova città; nonostante le difficoltà, i problemi, l’abbandono delle Istituzioni
dello Stato abbiamo dato vita ad una straordinaria città d’arte. Per apprezzare meglio ed appieno quello che abbiamo costruito in
questo cammino lungo trentacinque anni è importante sapere da dove siamo partiti, come eravamo.
Non vi è futuro senza passato: non vi è domani senza la Storia: senza lo scrigno della memoria, dove sono custodite le
sofferenze, i sacrifici, ma anche i valori civili ed umani che debbono sempre guidare e segnare il cammino della comunità, di ciascuno
di noi.
Questo libro è, dunque, dedicato a tutti i giovani della mia generazione e a tutti quelli che non hanno visto e vissuto la vecchia
Gibellina, la città dei padri; con questa iniziativa vogliamo consegnare al ricordo e alla memoria della mia generazione e di quelle
che verranno le nostre origini, la Storia dei nostri avi».
Vito Antonio Bonanno - Sindaco di Gibellina
Tratte da Antonino Cusumano, La Strada Maestra, edizione a cura del Comune di Gibellina, 1993, nella ristampa del 2003.
6
hanno reso Gibellina unica. Le parole di Corrao e dei suoi oppositori costituiscono modelli interpretativi, talvolta
conflittuali, conosciuti e posseduti in maniera diversa dai gibellinesi.
Diversamente dagli scritti i quali, per quanto facciano parte del divenire storico di questo campo intertestuale,
costituiscono comunque una fonte fissa nel tempo, le informazioni orali sono necessariamente contingenti; e ciò
è vero non solo perché esse vengono raccolte nell’arco di tempo in cui è condotto il lavoro sul campo, risultando
dunque indissociabili dal contesto irripetibile dell’intervista, ma anche perché, quando l’intervistato sia stato
invitato a riportare informazioni sul passato, egli è stato comunque costretto ad appellarsi alla sua memoria
presente degli avvenimenti già trascorsi.
Data la natura delle fonti, ho dovuto perciò nello stesso tempo, ed inevitabilmente, confrontarmi con la struttura
e con il processo, trovando soprattutto nelle letture il divenire e le trasformazioni culturali, e nell’osservazione
diretta e nel dialogo con gli abitanti il loro attualizzarsi nell’attimo presente dell’intervista
16
.
4. Ogni studio di tipo etnografico dopo aver raccolto e selezionato le informazioni deve ad un certo punto essere
scritto
17
, e ciò comporta una difficile operazione di traduzione. Il problema riguarda in particolare l’attribuzione
dell’autorità etnografica e il trattamento riservato alle fonti orali. L’antropologia più recente sta sperimentando
delle forme di autorità condivisa, in cui l’antropologo ed il nativo costruiscono insieme il dialogo che è poi
riprodotto nel testo:
«secondo questa concezione dell’etnografia, l’effettivo referente di ogni resoconto non è un “mondo”
rappresentato, ma un insieme di specifici momenti discorsivi»
18
;
ne deriva un testo in cui figurano estese citazioni nelle quali si vorrebbe restasse viva la voce degli informatori.
Ma è difficile non notare, oltre agli indiscussi pregi, anche i limiti di un simile modello, il quale supera solo
parzialmente il problema del “dar voce”, rimanendo comunque vincolato all’irrisolto rapporto tra scritto ed orale
di cui da sempre l’etnografia si nutre:
«ogni lavoro etnografico mette in scena tale passaggio, e questo costituisce per l’etnografia una delle fonti
di quella particolare autorità che individua allo stesso tempo il salvataggio e la perdita irreparabile – una
specie di morte in vita – nella costruzione di testi a partire da eventi e dialoghi. […] Forza e pathos
dell’etnografia dipendono in gran parte dalla sua stessa pratica che si incentra su questo passaggio cruciale.
Il ricercatore sul campo gestisce e in parte controlla la costruzione del testo a partire dalla vita»
19
.
Per quel che riguarda questo lavoro le scelte compiute nel momento della scrittura sono state dettate da una
strategia e da una assunzione di responsabilità: non ho ritenuto utile, data la ridondanza di certe interviste, che
l’intero testo fosse costruito in forma dialogica, citando estesamente e contestualizzando una ad una le voci che
ero riuscita a raccogliere; ho preferito invece attingere alle fonti orali con lo stesso criterio con il quale ho attinto
a quelle scritte, pur nel rispetto delle loro differenze, per ciò le ho talvolta parafrasate e talaltra brevemente
citate, assumendo però sempre su di me la responsabilità narrativa: dico responsabilità e non autorità per
esplicitare l’ineliminabile incompletezza e parzialità dei risultati.
Certo questo modo di trattare l’oralità potrebbe far pensare a quella «scienza della favola» di cui parla De
Certeau:
«L’operazione eterologica [sono eterologie le “scienze dell’altro”] sembra poggiare su due condizioni: un
oggetto, definito come “favola”; uno strumento, la tradizione. Definire attraverso la “favola” la posizione
dell’altro (selvaggio, religioso, folle, infantile o popolare) non significa soltanto identificarlo con “chi parla”
(fari), bensì con una parola che “non sa” ciò che dice. […] La “favola” è dunque parola piena, ma che deve
16
Sullo stereotipo del ricercatore iniziatore privilegiato, che parte da zero, da un’esperienza di ricerca, e sulla condizione invece,
per i ricercatori e gli informatori, di essere lettori e ri-scrittori di un’invenzione culturale, cfr. James Clifford, Sull’allegoria etnografica,
in J. Clifford e G. E. Marcus, op. cit..
17
Sul rapporto inscindibile tra etnografia e scrittura e sui risultati della sua evoluzione cfr. James Clifford, I frutti puri
impazziscono, op. cit., pp. 35-72.
18
James Clifford, Introduzione…, op. cit., p. 42.
19
James Clifford, Sull’allegoria…, op. cit., p.166.
7
attendere la dotta esegesi affinché sia “esplicito” ciò che essa dice “implicitamente”. […] La distanza da cui
proviene la voce estranea è così trasformata, surrettiziamente, nello scarto che separa la verità nascosta
(inconscia) della voce dall’illusione della sua manifestazione.[…] Ed ecco allora che le operazioni
successive divengono legittime: la trascrizione, che tramuta l’orale in scritto; […]»
In realtà non ho mai ritenuto che i miei interlocutori non fossero più che padroni di quello che stavano
dicendomi, e molte mie analisi non sono frutto di un lavoro condotto a tavolino, quando già la ricerca sul campo
era conclusa, quanto invece di una intenzionale e partecipata contrattazione con chi mi stava di fronte. Il fattore
che più di ogni altro ha segnato la distanza tra me e gli informatori è stato invece l’interesse, sia per l’oggetto dei
nostri discorsi, sia per la loro analisi, alla ricerca delle impronte di ciò che è meno visibile. Molti hanno
continuato a non capire perché io stessi perdendo tanto tempo a studiare loro e il loro paese.
Data l’impossibilità a reperire segni trasparenti dei compromessi avvenuti o in atto, non ho potuto far altro che
ricercarne le tracce nei discorsi e nelle pratiche quotidiane, e ricostruirne una «conoscenza indiziaria»:
«Ciò che caratterizza questo sapere è la capacità di risalire da dati sperimentali apparentemente trascurabili a
una realtà complessa, non sperimentabile direttamente. Si può aggiungere che questi dati vengono sempre
disposti dall’osservatore in modo tale da dar luogo a una sequenza narrativa, la cui formulazione più
semplice potrebbe essere “qualcuno è passato di là”. Forse l’idea stessa di narrazione nacque la prima volta
in una società di cacciatori, dall’esperienza della decifrazione delle tracce. […] Il cacciatore sarebbe stato il
primo a “raccontare un storia” perché era il solo in grado di leggere, nelle tracce mute (se non impercettibili)
lasciate dalla preda, una serie coerente di eventi»
20
.
Nella selezione del materiale ho cercato di valorizzare tanto la ripetizione quanto l’eccezione, ritenendo
quest’ultima significativa al pari della prima, e anzi capace di spezzare la ripetizione e introdurre nuove
prospettive.
Del resto non è mai stata mia intenzione compiere una ricerca quantitativa che valorizzasse ciò che fosse
statisticamente più frequente, si è trattato più che altro di un’indagine qualitativa e per questo attenta anche ai
casi limite, capaci di rivelare aspetti meno evidenti delle negoziazioni culturali in atto.
Per questo in una parte del testo ho lasciato che la memoria di alcuni individui, i quali hanno vissuto con
particolare coinvolgimento alcune iniziative promosse dall’amministrazione Corrao, si raccontasse estesamente,
benché le loro esperienze personali non siano rappresentative rispetto a quelle vissute dai loro concittadini. Non
si è trattato di un passaggio al paradigma dialogico fine a se stesso: per quanto si tratti di esperienze del tutto
soggettive esse rappresentano, nel ricordo attuale di episodi passati, il contatto, l’appropriazione delle culture
ufficiali in un orizzonte culturale personale.
4. Ammetto che quella che ho utilizzata non sia una metodologia particolarmente rigorosa, visto che si risolve in
un controllo strategico
21
(Clifford) e nell’utilizzo di un’intuizione bassa
22
(Ginzburg). Si tratta comunque di una
cosciente allegoria
23
, di cui penso non possa dirsi di essere inutilizzabile o solo, ammesso che lo sia,
esteticamente godibile, poiché, in quanto finzione culturale al pari delle altre, dialoga con esse: frutto della mia
personale attività di traduzione di una realtà viva in un contesto d’analisi antropologica ed estetica, essa
costituisce comunque una forma di conoscenza, benché solo di un sapere parziale, non della verità.
20
Carlo Ginzburg, Spie. Radici di un paradigma indiziario, in C. Ginzburg Miti emblemi spie, Torino, Einaudi, 1986, p.167.
21
Cfr. James Clifford, I frutti puri…, op. cit., p.72.
22
«Nessuno impara il mestiere del conoscitore o del diagnostico limitandosi a mettere in pratica regole preesistenti. In questo tipo
di conoscenza entrano in gioco (si dice di solito) elementi imponderabili: fiuto, colpo d’occhio, intuizione. [...] Questa “intuizione bassa”
è radicata nei sensi (pur scavalcandoli) – e in quanto tale non ha nulla a che vedere con l’intuizione soprasensibile dei vari irrazionalismi
otto e novecenteschi. Ė diffusa in tutto il mondo, senza limiti geografici, storici, etnici, sessuali o di classe – e quindi è lontanissima da
ogni forma di conoscenza superiore, privilegio di pochi eletti. È patrimonio dei bengalesi espropriati del loro sapere da Sir William
Herschel; dei cacciatori; dei marinai; delle donne. Lega strettamente l’animale uomo alle altre specie animali», Carlo Ginzburg, Spie.
Radici …, op. cit., p.193.
23
Mi riferisco all’accezione più generale del termine, cosi per come essa è stata usata da James Clifford: «Allegoria (dal greco
allos “altro” e agoreuein “parlare”) è generalmente una pratica in cui una finzione narrativa si riferisce in modo sistematico ad un’altra
struttura di idee o di eventi», James Clifford, Sull’allegoria…, op. cit., p.146.