10
Da un punto di vista più analitico, si è introdotto il tema degli investimenti
giapponesi in Europa, con l’analisi di alcuni aspetti giudicati fondamentali per la
presentazione dell’impegno economico nel “Vecchio Continente”.
Il primo capitolo presenta una rassegna delle principali teorie economiche
sulla multinazionalizzazione dell’attività produttiva e sugli investimenti diretti. Dopo
un preambolo dedicato alla spiegazione di termini quali “globalizzazione”,
“economia globale”, “multinazionale” e “investimenti diretti esteri”, abbiamo cercato
di classificarle secondo due approcci: il primo legato a un contesto di commercio
internazionale, (particolare rilievo è stato dato, per l’argomento da noi scelto,
all’approccio normativo della “scuola giapponese”, e all’analisi degli investimenti
esteri e del commercio in presenza di imperfezioni del mercato), il secondo inserito
nell’ambito dell’economia di impresa. Abbiamo infine considerato l’impatto, sia sui
paesi ospiti sia sui paesi investitori, degli investimenti esteri.
Nel secondo capitolo sono stati illustrati alcuni dei principali aspetti del
sistema economico del paese asiatico. Dopo un breve profilo storico-economico del
Giappone (a partire dall’epoca Edo-Tokugawa ai giorni nostri), ci si è soffermati
sulle caratteristiche del commercio giapponese (cresciuto esponenzialmente a partire
dagli anni Settanta del secolo XX), e sulla struttura e politica industriale del paese. È
proprio grazie alla presenza di forti gruppi di imprese (keiretsu) che il Giappone ha
potuto attuare una forte penetrazione nei mercati esteri, anche attraverso una
massiccia delocalizzazione produttiva. Altri elementi presi in considerazione, sono
l’elevato tasso di risparmio della popolazione, il settore pubblico, il sistema
finanziario e le modalità di finanziamento alle imprese. Si è infine cercato di
collegare la vita economica del paese alle sue specificità socio-culturali, dato che un
vasto spazio nella letteratura riguardante il Giappone è occupato da questa relazione.
1
Il terzo capitolo entra maggiormente nel merito degli avvenimenti che hanno
sconvolto l’economia del paese, quel “Japan Inc.” (Azienda Giappone), considerato,
fino a poco tempo fa, un modello da emulare o da cui prendere spunto. La crisi,
originata dallo scoppio della duplice “bolla” speculativa mobiliare e immobiliare
fatta esplodere da misure governative tese a depurare l’economia da elementi di
crescita artificiosa, e acuita dagli effetti causati dall’arresto della speculazione, ha
1
Nonostante alcuni economisti, tra i quali Itō Takatoshi, siano contrari all’ipotesi di relazioni tra
economia e cultura tradizionale.
11
comportato, nel corso degli anni Novanta, un tasso di crescita medio annuale del PIL
reale dell’1,4% (contro il 4,1% medio degli anni Ottanta). Sebbene all’inizio fosse
stata scambiata per una semplice crisi congiunturale, il perdurare della stessa, e il
fallimento di numerose aziende e istituzioni finanziarie, hanno purtroppo dimostrato
la base strutturale della difficile congiuntura economica. Si è cercato quindi di
individuarne le principali cause e componenti e di elencare le possibili soluzioni per
uscirne. Proprio nel momento in cui ho terminato la redazione della mia analisi,
sembrano provenire dal paese segnali di una ripresa effettiva, trainata soprattutto
dall’export verso la Cina e dagli investimenti delle imprese.
Gli ultimi due capitoli entrano nel merito dell’argomento trattato: gli
investimenti diretti giapponesi in Europa e in Italia. Il quarto è stato dedicato in
particolare alla definizione del Giappone quale attore mondiale nei flussi di
investimento: a una posizione di primissimo piano nel settore degli investimenti in
uscita, non corrisponde una posizione altrettanto preminente quale paese oggetto di
investimenti dall’estero (anzi è l’economia avanzata che riceve meno investimenti in
assoluto). Come già affermato, è a partire dalla metà degli anni Ottanta che il
Giappone ha incominciato a puntare massicciamente sul nostro continente, diventato
in breve tempo la principale destinazione dei flussi di investimento. Poiché
l’industria giapponese si è orientata soprattutto alla produzione di beni a forte valore
aggiunto e a crescita elevata, con la necessità di disporre di una vasta e capillare rete
di vendita e distribuzione, si è resa necessaria una delocalizzazione delle attività. Il
perdurare di conflitti commerciali tra il paese del “Sol Levante” e la CEE hanno poi
ulteriormente spinto alla creazione di stabilimenti produttivi in loco. Conducendo
un’analisi più specifica a livello geografico, si è notato che i flussi di investimenti
non sembrano però interessare in maniera uniforme tutte le aree del continente, anzi
si concentrano essenzialmente sull’Europa nord-occidentale, in modo particolare su
tre stati: Francia, Regno Unito e Paesi Bassi. Le motivazioni principali, oltre a quelle
già citate, sarebbero anche di carattere logistico (la posizione geografica dei suddetti
paesi, centrali rispetto a tutta l’Europa occidentale) storico-politico e culturale.
Inoltre, è proprio a partire da questa constatazione che ho cercato di chiarire
meglio la posizione giapponese nei confronti dell’Italia. Il nostro Paese sta infatti
godendo di grande interesse nell’arcipelago, soprattutto fra le leve più giovani della
12
popolazione. Tale interesse non sembra però tradursi in un impegno altrettanto
significativo dal lato degli investimenti, tema, questo, oggetto di analisi del quinto e
ultimo capitolo. Dopo un preambolo dedicato alla posizione dell’Italia a livello degli
investimenti mondiali (come nel caso del Giappone anche il nostro paese è un buon
investitore estero, ma un pessimo esempio di paese oggetto di investimenti
dall’estero), sono state analizzate le componenti e le caratteristiche degli investimenti
giapponesi in Italia: il problema principale che emerge è l’assenza di una politica di
promozione all’estero, che gioverebbe sicuramente sia all’economia e sia
all’immagine del nostro Paese a livello mondiale.
Ho infine concluso quest’analisi con un’inchiesta tesa ad appurare la presenza
giapponese nel territorio della provincia di Torino: ne è emersa una situazione
piuttosto mediocre. Le aziende presenti sono poche, e il giudizio dato a vari elementi
relativi alla scelta della loro localizzazione è medio-basso. Un motivo, questo,
riflesso a livello nazionale da un’analisi condotta precedentemente dalla Camera di
Commercio e Industria Giapponese in Italia, dalla quale ho preso spunto per la
realizzazione del questionario sottoposto alle aziende. Molto resta da fare per rendere
l’Italia una meta privilegiata degli investimenti esteri, attraverso soprattutto una
politica di marketing territoriale e di diffusione informativa.
Mi piacerebbe concludere questa introduzione con le parole di Hanabusa
Masamichi,
2
ex-ambasciatore giapponese in Italia per il quale:
“Japan and Italy are birds of a feather,
3
although the color
of wings and the ways of flying […] might be different”.
2
Hanabusa (2002).
3
Letteralmente, “uccelli della stessa piuma”, fuor di metafora “gente della stessa sorta”. L’espressione
deriva dal proverbio inglese “birds of a feather flock together”.
13
1.
Aspetti degli investimenti diretti esteri
1.1
Internazionalizzazione, investimenti diretti esteri e imprese
multinazionali: un’introduzione
1.1.1 Globalizzazione ed economia globale: alcune linee di indagine.
Gli anni Novanta possono essere classificati, tra i vari modi possibili, come
quelli della globalizzazione: non perché nata in questo decennio, ma perché è proprio
in questo periodo che ha attirato su di sé sempre più l’attenzione dell’opinione
pubblica. I dibattiti in merito sono ormai all’ordine del giorno, e la formazione di
numerosi gruppi contrari a tale fenomeno ha radicalizzato la contrapposizione tra
fautori e oppositori della crescente internazionalizzazione e interdipendenza dei
mercati. Si tratta però di un fenomeno complesso e certamente non univoco, che
pone il problema di una sua definizione. Il termine può assumere una doppia valenza:
da un lato si riferisce alla crescente integrazione dei mercati mondiali, dall’altro
corrisponde alla diffusione di fenomeni sociali e culturali a livello planetario.
Thomas Friedman la definisce come:
"The inexorable integration of markets, nation-states, and
technologies to a degree never witnessed before - in a way
that is enabling individuals, corporations and nation-states
to reach around the world farther, faster, deeper and
cheaper than ever before […] the spread of free-market
capitalism to virtually every country in the world”.
4
4
Friedman, (2000), pp.7-8.
14
Robertson la vede come un processo di identificazione del mondo nella sua
completezza:
“The compression of the world and the intensification of
consciousness of the world as a whole […] concrete
global interdependence and consciousness of the global
whole in the twentieth century”.
5
McMichael afferma che la globalizzazione corrisponde a un’integrazione basata su
un progetto specifico: quello cioè di perseguire la regola del mercato su scala
globale
6
. La globalizzazione si riferisce quindi, in linea generale, all’espansione dei
collegamenti, all’organizzazione della vita sociale su scala mondiale, alla formazione
di una coscienza “globale”. Numerose sono le possibilità di approccio a un tema così
vasto: oltre che nelle scienze sociali
7
e negli studi politologici,
8
ha goduto sempre di
grande rilevanza in campo economico. Ed è proprio da questo punto di vista che si
cercherà di darne una definizione.
Il Fondo Monetario Internazionale la individua sotto forma di un processo
storico, risultato sia dell’innovazione umana che del progresso tecnologico. È un
fenomeno strettamente legato all’integrazione crescente delle economie mondiali,
principalmente attraverso due canali: quello commerciale e quello finanziario.
9
Secondo Hill
10
la globalizzazione corrisponde alla spinta verso un’ economia
mondiale maggiormente integrata e interdipendente. L’analisi di Hill si concentra
maggiormente su due componenti fondamentali: la globalizzazione dei mercati e la
globalizzazione della produzione. La prima si riferisce alla convergenza di mercati
nazionali storicamente distinti verso un unico grande mercato transnazionale. La
5
Robertson (1992), p. 8.
6
Cfr. McMichael (1996), p. 149.
7
Un’interessante sintesi degli studi sociali a proposito della globalizzazione è contenuta in: Sklair
(1999).
8
Madison ha presentato in una sua ricerca gli elementi economici, politici e culturali della
globalizzazione, sostenendo che questi stiano conducendo verso una nuova forma di capitalismo,
qualitativamente differente sia dal capitalismo liberista del sec. XIX, sia da quello “manageriale” del
sec. XX; cfr. Madison (1998).
9
“Economic "globalization" is a historical process, the result of human innovation and technological
progress. It refers to the increasing integration of economies around the world, particularly through
trade and financial flows” in IMF, (2000).
10
Cfr. Hill, (2000), p. 2.
15
seconda si rifà alla tendenza, presente tra le imprese, di rifornirsi di beni e servizi in
luoghi diversi. Risulta però riduttivo non considerare anche la globalizzazione
finanziaria, la prima a essersi sviluppata dopo la caduta dei sistemi a economia
socialista, grazie alla libera circolazione dei capitali e al collegamento in tempo reale
tra le diverse piazze, e quella tecnologica, caratterizzata da programmi congiunti di
ricerca e sviluppo (R&S) e dal flusso delle conoscenze. Da non trascurare inoltre la
globalizzazione del lavoro, con notevoli fenomeni migratori.
Per quanto riguarda la globalizzazione finanziaria, finora il processo di
internazionalizzazione maggiormente riuscito,
11
si può notare come l’accelerazione
dei movimenti di capitale sia dovuta sia alla deregolamentazione degli stati, sia ai
mutamenti tecnologici che permettono la diffusione istantanea delle informazioni.
Ciò ha numerosi effetti sulle economie: ripercussioni sull’andamento dei tassi di
cambio, nonché l’influenza della speculazione sulle attività immobiliari nei singoli
paesi.
Ma quali sono le cause sottostanti a questa integrazione e convergenza
mondiale? Sembrerebbero essere due: da un lato il declino nelle barriere alla libera
circolazione di beni, servizi e capitali
12
a partire dalla fine della seconda guerra
mondiale, dall’altro il cambiamento tecnologico, in modo particolare nelle
comunicazioni, nell’informatica e nei trasporti. Nel primo caso l’obiettivo venne
concretizzato nell’accordo conosciuto come GATT (General Agreement on Tariffs
and Trade),
13
che ha permesso una riduzione significativa dei tassi medi delle tariffe
(tab. 1.1), attraverso una serie di negoziati commerciali multilaterali, denominati
“round”,
14
a cui si sono aggiunte le decisioni di molti paesi di rimuovere le
restrizioni agli investimenti diretti esteri. Ciò ha facilitato sia la globalizzazione dei
mercati che quella della produzione: le imprese possono così considerare il mondo
intero, e non solo una singola nazione, come potenziale obiettivo. Ma è stato
soprattutto il cambiamento tecnologico a permettere la realizzazione effettiva della
globalizzazione. A partire dalla fine del secondo conflitto mondiale, si è assistito a
11
Cfr. Waters (1995), pp. 86-89; Wade (1996), p. 74; Lafay (1996), p. 54; Valli (1999), pp. 36-38.
12
Soprattutto negli anni Venti e Trenta del sec. XX presero la forma di tariffe all’importazione di beni
manufatti.
13
Nel 1995 si è avuto il passaggio dal GATT al WTO (World Trade Organization o OMC).
14
Nella fattispecie: Ginevra 1947, Annecy 1949, Torquay 1950-51, Ginevra 1955-56, Dillon Round
1960-62, Kennedy Round 1964-66, Tokyo Round 1973-79, Uruguay Round 1986-93, e il Doha
Development Round, tuttora in corso.
16
giganteschi passi in avanti nei settori delle comunicazioni, dell’informatica e dei
trasporti, e, più recentemente, all’emergere di Internet e del World Wide Web:
“Telecommunications is creating a global audience.
Transport is creating a global village. From Buenos Aires
to Boston to Beijing, ordinary people are watching MTV,
they're wearing Levi's jeans, and they're listening to Sony
Walkmans as they commute to work”.
15
Tutto ciò ha quindi permesso anche una maggiore delocalizzazione produttiva delle
imprese, controllate facilmente dalla casa madre. È convinzione che la maggiore
facilità di comunicazione e di trasporto stia in qualche modo creando gusti e
aspettative comuni (una sorta di globalizzazione culturale
16
), ma è anche vero che
numerose sono le differenze nazionali che permangono nella cultura, nelle preferenze
dei consumatori, e nelle pratiche aziendali.
17
Tab. 1.1 – Tassi medi delle tariffe su prodotti manufatti in termini percentuali
1913 1950 1990 2000
Francia 21 18 5,9 3,9
Germania 20 26 5,9 3,9
Giappone 30 -- 5,3 3,9
Italia 18 25 5,9 3,9
Paesi Bassi 5 11 5,9 3,9
Regno Unito -- 23 5,9 3,9
Stati Uniti 44 14 4,8 3,9
Svezia 20 9 4,4 3,9
Fonte: The Economist (1995), pp. 3-4; per i dati relativi al 2000, Hill (2000), p. 3.
Particolare importanza assumono i cambiamenti apportati dalla
globalizzazione nella geografia mondiale: nel giro di quarant’anni la predominanza
degli Stati Uniti nel commercio internazionale e nella quota di investimenti
15
Così si è espresso Renato Ruggiero, direttore generale dell’OMC dal 1995 al 1999; cfr. World
Trade Organization, (1996).
16
Cfr. Waters, (1995), p. 89.
17
Per quanto riguarda la realtà giapponese, un interessante approfondimento è costituito dalle “note
psicologiche” all’inizio di ogni capitolo presenti in: Yagi, (1998).
17
internazionali è stata scalfita dalla crescita sia delle vecchie potenze economiche
europee (Francia, Germania, Regno Unito), che dall’emergere prima del Giappone, e
ora della Cina. Ad esempio, nel 1952 gli Stati Uniti producevano il 27,8 % della
ricchezza mondiale, nel 1992 tale quota è scesa al 19,7 % (v. tab. 1.2).
18
È interessante notare l’andamento negli ultimi dieci anni: si è avuto un
aumento del peso sul PIL mondiale dell’economia nordamericana (Stati Uniti, +
1,5% e Canada, + 0,1%) mentre si è registrato un lieve calo delle quote di tre
economie europee (Regno Unito, - 0,2%, Italia, - 0,5% e Francia, - 0,7%).
Decisamente più consistente la perdita su scala mondiale del Giappone (- 1,4%).
Per quanto riguarda invece la quota di esportazioni estere, si può notare come
gli Stati Uniti detengano sempre il predominio mondiale, sebbene non sia più
incontrastato come negli anni Sessanta.
19
I concorrenti più prossimi sono infatti la
Germania e il Giappone. Ma per tutti e tre questi paesi si può notare, dalla tab. 1.2,
una perdita della quota sulle esportazioni mondiali. In effetti anche le altre economie
considerate, escluse quella canadese e quella cinese, hanno registrato un declino delle
proprie quote tra il 1997 e il 2001. Il calo più evidente tra le economie avanzate è,
anche in questo caso, quello del Giappone (-1,1%), seguito dal Regno Unito (-0,8%)
e dagli Stati Uniti (-0,7%). Forte anche quello della Corea del Sud (-1,4%). Un peso
sempre più notevole verrà assunto dalle economie dell’Asia-Pacifico, in modo
particolare dalla Cina e dall’India, con forti conseguenze a livello di opportunità
economiche.
20
Come già ricordato all’inizio di questo paragrafo, quello della globalizzazione
è un tema ampiamente discusso. Molti sono i sostenitori, i quali affermano che,
grazie sia alla caduta delle barriere al commercio internazionale, sia all’aumento
degli investimenti, si avrà un abbassamento dei prezzi di beni e servizi. La
globalizzazione stimola la crescita economica, innalza il reddito dei consumatori,
stimola la creazione di nuovo lavoro. Ma molti sono anche i detrattori e i critici, e
coloro che si oppongono strenuamente a questo andamento.
21
In generale è possibile
18
Bisogna comunque specificare che si tratta di un calo relativo, non assoluto.
19
Gli Stati Uniti detenevano infatti il 20% delle esportazioni mondiali di beni manufatti; cfr. Hill,
(2000), p. 6.
20
Ibid.
21
Cfr., ad esempio: Ravi, (1993); Martin e Schumann, (1996); Greider, (1997); Klein, (2000); Soros,
(2002).
18
suddividere le critiche in tre filoni principali: quelle riguardanti l’erosione del
mercato del lavoro (i paesi in via di sviluppo possono offrire manodopera, anche
altamente qualificata, a prezzi più competitivi, con conseguente delocalizzazione e
aumento della disoccupazione nei paesi avanzati); quelli riguardanti gli alti costi
connessi alle politiche di tutela del lavoro e dell’ambiente (per cui la
delocalizzazione permette lo sfruttamento delle risorse naturali locali e del lavoro
minorile); quelli riguardanti la diminuzione di sovranità degli Stati nazionali (per cui
le decisioni più importanti vengono assunte da organismi come l’OMC, l’Unione
Europea o le Nazioni Unite). Eppure sia gran parte della teoria economica, sia
l’evidenza empirica, pendono a favore della globalizzazione.
22
Tab. 1.2 – Quote sul Pil mondiale e sulle esportazioni di dieci economie
Paese Quota del
PIL
mondiale
1952
Quota del
PIL
mondiale
1992
Quota del
PIL
mondiale
2002
Quota
esportazioni
mondiali
1997*
Quota
esportazioni
mondiali
2001*
Stati Uniti 27,8% 19,7% 21,2% 12,6% 11,9%
Giappone 3,3% 8,6% 7,2% 7,7% 6,6%
Germania 4,3%
(RFT)
4,5% 4,5% 9,4% 9,3%
Francia 4% 3,7% 3,1% 5,3% 5,2%
Regno Unito 5,9% 3,3% 3,1% 5,2% 4,4%
Italia 3,1% 3,4% 2,9% 4,4% 3,9%
Canada 1,8% 1,8% 1,9% 3,9% 4,2%
Cina 7,1% 12,9% 11,6% 3,3% 4,3%
Corea (Sud) 0,3% 1,6% 1,9% 2,9% 1,5%
Fonte: per le esportazioni mondiali del 1996, WTO (1998); per le esportazioni mondiali del 2001,
WTO (2002). Le quote sul PIL mondiale del 1962 e del 1992 sono mie elaborazioni da Maddison,
(1995), pp. 192-195, 202-203, 243. Le quote sul Pil mondiale del 2002 sono mie elaborazioni su dati
CIA (2003).
* Le esportazioni si riferiscono ai beni manufatti.
Infine, c’è da chiedersi se l’economia mondiale sia veramente globalizzata:
una delle idee di base è che, almeno per i maggiori paesi industrializzati, ci si stia
muovendo verso forme di produzione e di organizzazione della vita economica
22
Cfr. IMF, (2000), e i capp. 5-7 in Hill, (2000).
19
comuni. Dore e Streeten spiegano che tale processo dipende dalla forza travolgente
del mercato, anche a causa della mancanza di una volontà politica che sostenga
istituzioni e valori diversi dall’efficienza e dalla crescita, mentre Kosai è convinto
della convergenza verso una commistione di modelli.
23
Alcuni economisti però se ne
discostano. Si potrebbe ad esempio pensare che una maggiore integrazione nel
settore monetario e fiscale conduca a una sostanziale convergenza, eppure Boltho ha
dimostrato che la politica micro e la configurazione istituzionale dell’economia tra
Francia e Germania è sostanzialmente diversa.
24
Per Wade
25
l’economia mondiale è
da considerarsi più “inter-nazionale” che “globale”: la quota del commercio sul PIL
nazionale è ancora piccola nelle economie mondiali, e il 90% della produzione è
diretta al mercato interno (bisogna comunque tener presente che questo vale per le
grandi economie; quelle piccole devono necessariamente avere un grado di apertura
maggiore). Per di più il commercio mondiale è concentrato nel Nord del mondo,
mentre quello tra Sud e Nord
26
appare fortemente regionalizzato.
27
Inoltre, sebbene
vi sia stata una diminuzione delle tariffe, in realtà i paesi del Nord stanno alzando
nuovi limiti sotto forma di quote e barriere non tariffarie.
28
Per quanto riguarda la
globalizzazione finanziaria, è vero che vi è stata una maggiore integrazione, ma i
mercati borsistici sono ancora poco collegati fra di loro (questo anche per la
mancanza di imprese dalla reputazione veramente mondiale, che possano essere
rappresentate su più piazze); inoltre nei Paesi Ocse l’investimento nazionale è
fortemente correlato con il risparmio interno, e non dipende da flussi di capitali
esterni.
Anche Waters, analizzando le varie “dimensioni” economiche (commercio,
produzione, investimenti, ideologia organizzativa, finanza e lavoro), osserva come in
realtà sia maggiormente plausibile parlare di economia “inter-nazionale” più che
“globale” (v. tab. 1.3).
23
Cfr. Dore (1996), Streeten (1996), e Kosai (1996).
24
Cfr. Boltho, (1996).
25
Cfr. Wade, (1996).
26
Secondo la suddivisione fornita dalla Banca Mondiale, il Nord corrisponde alle economie di
mercato avanzate, mentre al Sud appartengono i paesi in via di sviluppo, nonché le quattro “tigri”
asiatiche, di recente industrializzazione: Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan.
27
Gli Stati Uniti dominano il commercio con l’America Latina, l’Europa con l’Africa e il Medio
Oriente, il Giappone con l’Asia. Si veda a proposito Lafay, (1996).
28
Cfr. Wade, (1996), p. 69.
20
In realtà risulta importante comprendere che il processo è tuttora in atto, ed è
quindi maggiormente corretto parlare più di “integrazione internazionale”
29
che di
semplice “economia inter-nazionale”. I legami internazionali si sono sicuramente
rafforzati negli ultimi decenni, e sarebbe alquanto miope pensare che ciò non
conduca a una reale globalizzazione e interdipendenza dei mercati.
Tab. 1.3 – Globalizzazione “ideale” e stato effettivo dell’economia
Dimensione Globalizzazione “ideale” Stato effettivo
COMMERCIO Libertà assoluta di scambio tra
regioni.
Flussi indeterminati di servizi e
materie prime.
Barriere tariffarie minime, ma
sostanziali barriere non tariffarie
e culturali.
“Neomercantilismo” regionale.
PRODUZIONE La bilancia dell’attività
produttiva in ogni regione è
determinata soltanto da vantaggi
fisici e geografici.
La divisione sociale
internazionale del lavoro viene
sostituita dalla divisione
“tecnica” del lavoro. Sostanziale
decentralizzazione della
produzione.
INVESTIMENTI IDE minimi: vengono sostituiti
da alleanze commerciali e
produttive.
Si assiste ad accordi di alleanza
tra imprese, ma gli IDE
rimangono in misura
considerevole.
IDEOLOGIA
ORGANIZZATIVA
Flessibilità nei confronti dei
mercati mondiali.
Il paradigma della flessibilità è
generalmente accettato, ma
rimangono ancora pratiche di
tipo “fordista”.*
MERCATI FINANZIARI Decentralizzato, istantaneo e
slegato dalle realtà statali.
In questo caso la globalizzazione
è stata in gran parte raggiunta.
MERCATO DEL LAVORO Libero movimento dei
lavoratori. Non esiste
identificazione permanente con
la realtà locale.
Sempre più regolato dallo Stato.
Fonte: mio adattamento da: Waters, (1995), tab. 4.1.
* Per pratiche di tipo “fordista” si intendono quelle finalizzate alla produzione di massa di articoli
standardizzati destinati al mercato “di massa”. Scopo principale è quello di abbattere il costo per unità
di prodotto tramite la meccanizzazione intensiva e l’utilizzo di economie di scala.
Un ultimo punto interessante su cui soffermarsi è il dibattito riguardante la
valutazione della novità di tale fenomeno. Vi sono infatti autori, come Greider
30
, che
vedono negli sviluppi degli ultimi anni la nascita di un mondo nuovo. La logica di
mercato sembra aver travolto l’inerzia della politica, e sembra aver inaugurato una
nuova stagione di grandi trasformazioni sociali. Altri studiosi negano invece la
novità del fenomeno, e in ciò si rifanno a quanto accaduto tra la fine del XIX secolo
29
Il concetto di “integrazione internazionale” è ampiamente trattato in Basevi, Calzolari, Ottaviano
(2001).
30
Cfr. Greider, (1997).
21
e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Entrambe le visioni estreme appaiono
però falsare il reale status quo. Non è vero che il recente intensificarsi delle
interazioni economiche sia senza precedenti, come non è neppure vero che il
processo non sia nuovo. Baldwin e Martin
31
mettono in luce l’esistenza di due
“ondate di globalizzazione”, una dal 1820 al 1914, l’altra a partire dal 1960; tuttavia
si tratta di fenomeni abbastanza diversi. Gli scambi di prodotti industriali dominano
infatti la seconda ondata, caratterizzata anche da notevoli flussi di capitale a breve
termine.
1.1.2 L’impresa multinazionale (IMN)
L’impresa multinazionale è spesso identificata come qualsiasi impresa che
detenga attività produttive in due o più paesi.
32
Un’interpretazione più restrittiva è
quella che la fa coincidere con un’impresa che opera investimenti diretti in aree ad
alto sviluppo economico e nei comparti avanzati dell’industria.
33
Ma una simile
definizione non ne rende la reale complessità. È vero che le prime imprese
multinazionali, di origine nordamericana, operavano in aree non arretrate (gli
investimenti statunitensi erano infatti per lo più diretti in Europa dopo la seconda
guerra mondiale). Ma è vero anche che i paesi in via di sviluppo giocano un ruolo
essenziale nella delocalizzazione produttiva. In maniera più generale è possibile
definirla come un’impresa che ha realizzato investimenti diretti esteri (IDE) o che ha
la proprietà o il controllo di attività che creano valore aggiunto
34
in più di un paese.
Un’impresa multinazionale consiste di una “casa madre” (localizzata nel
paese d’origine) e di “affiliate”, localizzate nei paesi ospiti. Queste ultime possono
essere di tre tipi: “associate”, quando la casa madre detiene una quota del capitale fra
il 10 e il 50 per cento, “sussidiarie”, se la quota detenuta supera il 50 per cento,
“branches” se controllate al 100 per cento.
Dal punto di vista geografico, si è assistito anche in questo caso a variazioni
nella composizione nazionale a partire dalla fine degli anni Sessanta. Se prima la
31
Cfr. Baldwin, Martin (1999).
32
Cfr. Hill, (2000), p. 7.
33
Cfr. la voce “Multinazionale” in La nuova enciclopedia del diritto e dell’economia.
34
Ovvero attività produttive, di marketing, di ricerca e sviluppo (R&S).
22
maggior parte delle grandi imprese transnazionali proveniva dagli Stati Uniti, si è
assistito alla crescita sia di imprese di altre nazionalità, sia all’arrivo di “mini-
multinazionali”.
35
Negli ultimi anni si è assistito a una ripresa del peso delle multinazionali
statunitensi: nel 1990 fra le prime cento, ventisei erano americane, e undici anni più
tardi sono salite a ventotto (v. tab. 1.4). Tra il 1990 e il 2001 si è assistito inoltre al
declino del peso delle imprese giapponesi, svedesi, svizzere, italiane e francesi, e
all’ascesa di quelle britanniche e tedesche. Stabile quello delle aziende canadesi,
australiane e olandesi. È interessante notare anche la scomparsa, fra le prime cento,
della presenza belga, norvegese e neozelandese, a favore di Spagna e Finlandia. Si è
inoltre registrata la presenza di quattro imprese appartenenti a paesi in via di
sviluppo: Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Messico (sebbene le prime tre
economie siano ormai equiparabili a quelle dei paesi avanzati). Da notare anche
l’aumento di imprese binazionali: se nel 1990 troviamo due consorzi anglo-olandesi
(Royal Dutch/Shell e Unilever), nel 2001 queste sono ben cinque (oltre alle due già
citate, una terza anglo-olandese, la Reed Elsevier, una tedesco-statunitense, la
Daimler Chrysler, e una anglo-australiana, la Rio Tinto).
Se restringiamo la nostra analisi alle prime trenta nel 2001 (v. tab. 1.6), sei
sono statunitensi, cinque francesi, cinque tedesche, due inglesi, due anglo-olandesi,
due giapponesi, due italiane e due svizzere. Le restanti hanno la propria casa madre
in Spagna, Australia, Paesi Bassi e Hong Kong. Abbastanza diversa la composizione
nel 1990 (v. tab. 1.5): otto erano statunitensi, cinque giapponesi, quattro tedesche, tre
francesi, due inglesi, due anglo-olandesi, due svizzere e due italiane. Le restanti
appartenevano a Paesi Bassi e Australia. Appare quindi netta la diminuzione del peso
delle multinazionali nipponiche.
Per quanto riguarda le “mini-multinazionali”, bisogna considerare il fatto che
sono sempre di più le piccole e medie imprese che stanno delocalizzando parte della
propria produzione al di fuori dei confini nazionali. È comunque vero che buona
parte degli IDE rimane concentrata nelle mani di un piccolo numero di compagnie.
Infatti circa l’80% è condotto dalle 500 aziende più importanti del mondo.
36
35
Cfr. Hill, (2000), p. 7.
36
Ibid., p. 6.
23
Tab. 1.4 – La composizione nazionale delle 100 più grandi multinazionali
Paese 2001 1990
Stati Uniti 28 26
Regno Unito 13 11
Francia 13 14
Germania 10 9
Giappone 812
Svizzera 46
Regno Unito/Paesi Bassi 32
Canada 3
Italia 24
Spagna -
Australia 22
Paesi Bassi
Svezia 25
Finlandia -
Hong Kong (Cina) 1
Germania/Stati Uniti -
Regno Unito/Australia 1
Singapore -
Messico 1
Corea del Sud -
Belgio -2
Nuova Zelanda 1
Norvegia -
100 100
Fonte: mia elaborazione su dati UNCTAD, (1990), (2003).