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CAPITOLO II: Dalle teorie motivazionali alla
progressista work-life balance
2.1 Analisi storica del rapporto uomo–compito: dall’organizzazione
scientifica alla teoria dei sistemi socio–tecnici
La rivoluzione industriale è comunemente distinta in due fasi: la prima negli
ultimi decenni del Settecento e nei primi decenni dell‟ Ottocento si sviluppò in
Inghilterra con la manifattura tessile. Adam Smith, in quell‟epoca, con il libro La
ricchezza delle nazioni (1776) scoprì che la prestazione degli operai in una
fabbrica era influenzata dal modo di organizzare la produzione. Nella produzione
di spilli, per esempio, egli osservò che se il compito era frammentato in parti più
piccole e assegnato a un gruppo di operai, si potevano realizzare 48.000 spilli al
giorno; se invece ogni lavoratore completava individualmente tutti i compiti
necessari alla produzione di uno spillo, si poteva arrivare solo al 10% di quella
quantità
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. Fu tuttavia con la seconda fase della rivoluzione industriale, nella
seconda metà dell‟Ottocento, sviluppatasi prima negli Stati Uniti e poi in Europa,
che nacque il concetto di organizzazione, anche grazie alle maggiori dimensioni
delle „aziende‟ in questa seconda fase. Nel 1911, Frederick Winslow Taylor
pubblicò l’organizzazione scientifica del lavoro. Partendo dallo studio dei
movimenti e dei gesti fisici lavorativi, essi vennero scomposti e semplificati
(eliminando gesti superflui e inessenziali). Questo intervento permise la
misurazione del tempo e la standardizzazione del lavoro. Taylor realizzò un
insieme di principi di produzione, qui di seguito riassunti:
studi del tempo e dei movimenti: misurare la quantità di tempo necessaria
a ciascuna persona per svolgere ciascun compito, allo scopo di aumentare
la specializzazione. La finalità di questo procedimento è di scegliere
l‟operaio più idoneo a svolgere un determinato lavoro (esplicitato dal motto
“the right man to the right place” );
documentazione delle prestazioni ottimali per standardizzare le
procedure e assicurarsi da parte di ognuno risultati dello stesso livello in
ogni compito. Per fare ciò, ci si prefigge l‟obiettivo di scomporre il ciclo
del lavoro in elementi analitici e riassemblarli sperimentalmente al fine di
individuare la modalità di esecuzione di un compito, nel modo più
efficiente, economico e razionale possibile (principio del “one best way”);
apprendimento delle abilità per ottimizzare la conoscenza del compito da
parte dei lavoratori: l‟operaio viene dunque addestrato a lavorare seguendo
le istruzioni indicate per l‟esecuzione dei compiti e rispettando i tempi di
pausa prefissati (principio dell‟analytical training);
Schemi di incentivi con cui riconoscere i lavoratori per i processi di lavoro
più efficienti. L‟operaio viene retribuito in misura maggiore rispetto alla
media abituale, necessaria al raggiungimento di un rendimento massimo
prefissato.
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M. Ashleigh – A. Mansi, Psicologia del lavoro e delle organizzazioni, Pearson, 2014
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A questo sistema di incentivi viene applicato il principio delle quote
differenziali (differential rates) ovvero una quantità di incentivo
economico „adeguato‟ e differente per i diversi tipi di mansioni svolte.
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I principi dell‟organizzazione scientifica hanno sicuramente avuto il pregio di
migliorare le prestazioni e sono stati usati per riprogettare i processi di lavoro;
senza di essi non si sarebbero avuti la produzione e il consumo massa. Tanto
questa teoria ha guadagnato in efficienza, quanto ha perso nel rispetto dei fattori
umani. Friedmann (1946) sintetizza così i limiti del taylorismo:«…il
cronometraggio dei tempi unitari, l’assimilazione del lavoro a un gioco di
meccanismi inanimati, il misconoscimento del modo di funzionare fisico e mentale
dell’organismo e delle sue esigenze specifiche, il procedimento di stimolazione e
remunerazione dello sforzo, […] infine l’empirismo delle generalizzazioni elevate
a dignità di “leggi”»
31
. Nei decenni successivi, all‟aumentare delle dimensioni
medie delle aziende, dello sviluppo di nuovi settori industriali e all‟emergere di
aziende commerciali e di servizio, oltre alla crescente importanza di funzioni di
supporto alla produzione (acquisti, progettazione, amministrazione, distribuzione,
programmazione etc.), emerse l‟esigenza di superare l‟approccio tradizionale e di
focalizzare l‟attenzione sulle relazioni umane. Tra gli studiosi interpellati in questa
fase, uno tra i protagonisti fu certamente Elton Mayo, sociologo e psicologo
australiano, docente alla Harvard Graduate School of Business dal 1926 al 1947.
Egli, insieme ai suoi collaboratori, fondò il Movimento delle relazioni umane,
corrente organizzativa e socio-lavorista tesa a recuperare gli aspetti umani e sociali
delle organizzazioni produttive, fra i quali le motivazioni e le relazioni, sia formali
che informali. Un esperimento particolarmente rilevante fu svolto presso la
Western Electric Company a Hawthrone nel 1927. Mayo, insieme al suo gruppo di
Harvard, venne interpellato per risolvere il problema del dilagante turnover che
affliggeva il reparto dei filatoi intermittenti: esso arrivava al livello critico del
250% durante i periodi di massimo sforzo produttivo, con evidenti sprechi, e la
direzione si vedeva costretta ad assumere circa cento nuovi operai l‟anno per
poterne impiegare una quarantina appena. Il tipo di lavoro implicava una
sorveglianza continua sulle macchine che, inevitabilmente, si tramutava in
tensione continua per i soggetti coinvolti nel processo produttivo. Un primo
intervento, proposto da Mayo ed effettuato su un terzo del reparto, fu quello di
introdurre una pausa di dieci minuti al mattino e di due pause altrettanto lunghe al
pomeriggio, di cui ogni lavoratore poteva disporre quando lo riteneva più
opportuno. Le conseguenze si resero subito evidenti e il turnover scese con un
relativo aumento della produttività non soltanto dei soggetti presi in esame ma di
tutto il reparto. A questo punto, la direzione fece un passo indietro e pretese che le
pause fossero concesse unicamente in seguito al raggiungimento di obiettivi
prefissati. Con questa scelta, però, il turnover e la produttività ritornarono ai livelli
insostenibili e tutti, quindi, compresero che riposi fossero funzionali alla continuità
del processo. Nella seconda indagine, probabilmente quella più famosa, venne
predisposta una test room (separata dal reparto a mezzo di un separé) dove i
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M. Ashleigh – A. Mansi, Psicologia del lavoro
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F. Novara – G. Sarchielli, Fondamenti di psicologia del lavoro, Il Mulino, 1996.
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ricercatori potevano monitorare l‟effetto dei mutamenti nelle condizioni lavorative.
Prima di trasferire un gruppo di operaie nella „stanza‟, si registrarono le
produttività di ogni operaia all‟interno del reparto, a loro insaputa, per due
settimane, in modo da ottenere un riferimento rispetto alla produttività di base.
Una volta trasferite nella test room, furono introdotte le seguenti condizioni
sperimentali:
nuovo sistema di pagamento, non più calcolato sulla base della
produzione complessiva di un gruppo di circa cento operaie ma
maggiormente proporzionale allo sforzo del singolo;
introduzione di pause concordate con le operaie stesse;
uscite anticipate;
settimana corta (anche se quest‟ultimo tentativo non sortì gli effetti
desiderati poiché l‟aumento della produttività non compensava le ore di
lavoro perse).
Tutti questi interventi furono effettuati in un periodo molto lungo e altrettanto
lunghi furono i tempi di verifica dei ricercatori prima di poter valutare eventuali
incrementi o decrementi di produttività. Da quando le ragazze erano entrate nella
test room, il turnover era calato dell‟80% e la produzione era nettamente
aumentata. Uno dei motori di questo cambiamento di mentalità delle operaie fu la
creazione di un gruppo di lavoro coeso, alimentato da una partecipazione libera e
senza coercizione dall‟alto. Mayo spostò, dunque, l‟attenzione dalla psicologia
meccanicistica individuale alla psicologia dei gruppi, e questo favorì la
produzione. In particolare, egli concluse che ad avere maggiore influenza
sull‟aumento della produttività dei lavoratori non erano i cambiamenti fisici, ma
fattori psicosociali, quali il senso di appartenenza a un gruppo, la coesione
sviluppatasi attorno ad un obiettivo condiviso e un senso di gratificazione legato
all‟essere al centro delle attenzioni dei ricercatori. Proprio quest‟ultimo aspetto ha
portato alla definizione dell‟effetto Hawthrone. Gli individui osservati pensavano
che, se valeva la pena di trascorrere del tempo a osservarli, dovevano essere
speciali e si sentivano perciò apprezzati dall‟organizzazione. Mayo e i suoi
collaboratori, a seguito di numerose ricerche, individuarono il medesimo principio:
la produttività dei singoli operai, le loro prestazioni e il rendimento sul lavoro non
sono esclusivamente correlati a caratteristiche strettamente fisiche e fisiologiche;
piuttosto sono da mettere in relazione a variabili di tipo psicosociale, ovvero con il
tipo di rapporti interpersonali che i singoli individui costruiscono tra loro
all‟interno dei gruppi di lavoro. Le principali conclusioni cui Mayo pervenne sono
sintetizzabili nelle seguenti affermazioni
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:
1. Il bisogno di riconoscimento e di sicurezza, nonché il senso di
appartenenza svolgono un importante ruolo nel determinare il morale e la
produttività dell‟uomo;
2. Il lavoro è sostanzialmente una attività di gruppo che condiziona l‟intera
vita sociale dell‟adulto. Gli atteggiamenti e la produttività della persona sul
lavoro sono condizionati dagli equilibri che si istaurano nell‟ambiente di
lavoro ed in quello circostante;
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P. Nelli, La comunicazione nell’economia
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3. I gruppi non formali, che spontaneamente si formano nell‟azienda,
esercitano un forte controllo sociale sull‟atteggiamento e sul
comportamento dell‟individuo che ne fa parte.
Un‟altra teoria molto significativa è quella delle neo-relazioni umane. Questa
corrente generò un cambiamento di prospettiva rispetto alle teorie precedenti. I
pensieri ritenuti maggiormente rappresentativi sono quelli degli psicologi Rensis
Likert e Chris Argyris. Attraverso l‟esame di varie ricerche empiriche, Rensis
Likert confutò la tesi che il maggior rendimento di un‟organizzazione dipendeva
sempre e unicamente dalla soddisfazione dei dipendenti
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, per cui, in presenza di
lavori ripetitivi, anche un approccio tayloristico poteva garantire livelli alti di
produttività. Il taylorismo era un sistema manageriale completo che, nella misura
in cui obbligava gli uomini ad azioni standardizzate, riusciva ad ottenere risultati
apprezzabili subordinando la variabile umana. Tuttavia, Likert notò che non tutti i
lavori potevano rientrare in schemi tayloristici. C‟erano tipi di lavoro in cui la
creatività, l‟autonomia e l‟iniziativa non potevano mancare. Questi lavori
smentivano le regole dell‟organizzazione scientifica. Per essi l‟efficienza era tanto
più alta quanto più il controllo gerarchico fosse distaccato, la pressione esercitata
dall‟alto minore e le reazioni, in caso di errori, non fossero orientate alla punizione
ma alla comprensione dei motivi che avevano determinato lo sbaglio. Da queste
osservazioni, Likert apprese che una delle variabili strategiche per il rendimento
dell‟impresa fosse il tipo di leadership adottata. Inoltre, egli enfatizzò l‟importanza
della comunicazione interna, in particolare della comunicazione bottom-up (logica
secondo la quale i collaboratori subordinati possono influenzare i capi e fornire
tutta una serie di input al management). Argyris, invece, contrastò in maniera
sistematica l‟approccio tayloristico, affermando che esso comprimeva la
personalità del singolo lavoratore e non promuoveva la sua crescita individuale. Il
taylorismo, secondo lo psicologo, non aveva bisogno d‟individui maturi, creativi,
autonomi, collaborativi, ma preferiva individui conformisti, conservatori,
disciplinati, incapaci di assumersi responsabilità superiori al necessario, bisognosi
dell‟autorità per sentirsi guidati e rassicurati
34
. I sistemi di direzione e gestione
furono quindi ritenuti responsabili delle frustrazioni e della demotivazione degli
individui maturi e dell‟adattamento senza sviluppo degli individui meno maturi, a
causa della struttura rigidamente formale dell‟organizzazione, di una direzione
autoritaria, di sistemi di controllo serrati, come quelli di budget, dei piani di
incentivi e dell‟analisi dei tempi e dei metodi. La soluzione che propose Argyris fu
quella di creare una dirigenza più sensibile e di promuovere la nascita di gruppi
„autonomi‟ o „semiautonomi‟ che si sarebbero autogestiti per trovare le soluzioni
più idonee. Nel 1950, presso il Tavistock Institute di Londra, venne a delinearsi il
concetto di sistema socio-tecnico. La ricerca che Eric Trist, scienziato britannico,
che condusse insieme a K. Bamforth, ex minatore, sulla riorganizzazione del
lavoro in una miniera di carbone, fu la prima in cui si avanzò il concetto di sistema
socio-tecnico. Nelle miniere di carbone erano state introdotte nuove attrezzature
meccaniche per il taglio e il traporto del carbone, assieme ad un nuovo
33
Cfr G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo, Franco Angeli, 2008
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M. Ashleigh – A. Mansi, Psicologia del lavoro