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Il presente lavoro risulta essere una ricerca teorica suddivisa in quattro sezioni,
ognuna delle quali caratterizzata da una precisa autonomia concettuale, ma
collegata all’altra da un importante elemento comune: il pensiero di Georg
Simmel.
Nel primo capitolo della prima sezione affronto il problema della natura delle
emozioni.
Nel primo paragrafo tratto quella fase della ricerca non ancora sociologica che si
è interessa di chiarire la funzione, la chimica e la sede delle emozioni, e, passando
in rassegna le teorie classiche più importanti giungo fino ai giorni nosrti,
riconoscendo Darwin, James, Cannon, Freud, Plutchick e Heider come i
principali teorici del problema, evidenziando le rispettive differenze e le
specificità d’approccio. Nel secondo paragrafo, invece, mi addentro nel campo
d’azione della Sociologia, dimostrando non solo la specificità d’interesse che il
tema delle emozioni rappresenta per tale Disciplina, ma anche le diverse
possibilità investigative e concettuali riscontrabili nei tre diversi modelli
d’indagine, quello fisiologico, quello interazionista e quello costruzionista,
differenti tra loro per l’importanza che attribuiscono all’influenza sociale delle
emozioni.
La Sociologia delle emozioni è una branca della Sociologia, molto vicina alla
Sociologia della conoscenza, che nasce, come disciplina autonoma, in America
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all’inizio degli anni ’70. Evidenziando le condizioni che hanno sia impedito che
favorito tale riconoscimento, specialmente la questione dell’attore razionale e del
soggetto emozionale, nel secondo capitolo cerco di chiarire in che modo le
emozioni possano e debbano essere considerate quali agenti sociali, spiegando
come e perché i sentimenti, quando sono condivisi da altri, possono diventare non
solo comprensibili, ma anche normativi, rifacendomi, soprattutto nel terzo
capitolo, ai più importanti studi in merito, quali ad esempio quelli di Peggy Thoits
e della Hochschild sulla controllabilità delle emozioni, piuttosto che quelli di
Wentworth e Ryan.
Nel quarto capitolo di questa sezione tratto invece quei sociologi che, a tutt’oggi,
possono essere considerati i precursori della Sociologia delle emozioni, vale a
dire tutti coloro i quali, prima del 1970, si sono occupati in maniera significativa
delle emozioni, guardando con attenzione alle loro conseguenze sociali e
comportamentali. Un’importante contributo d’impostazione per la Sociologia
delle emozioni viene dai due pilastri della Sociologia: Max Weber, che indica in
maniera esplicita l’importanza delle emozioni nella formazione del carisma e
dello spirito religioso, nonché del capitalismo derivante dalla pressione di
emozioni forti e pervasive quali l’ansia e la paura; ed Emile Durkheim, per il
quale senz’altro le emozioni costituiscono degli importanti fattori di coesione nel
formarsi della solidarietà sociale e della morale. David Hume, benché filosofo,
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non poteva essere escluso, vista l’importanza delle sue intuizioni sulle emozioni e
sulle passioni e sul loro rapporto con la realtà; Georg H. Mead è un autore
imprescindibile per questo discorso, non solo per la sua teoria del Sé, ma anche e
soprattutto perché, intendendo le emozioni come emergenti nell’ambito di atti,
Mead esclude una loro esclusiva riducibilità al mondo fisico, ma le considera
relative all’esperienza e da essa forgiate; Erwing Goffman, che con la sua
negazione dell’integrità del sé, offre spunti interessantissimi per riflettere sul
controllo sociale delle emozioni; Wright Mills rileva i rapporti tra mondo
emozionale e organizzazione sociale, mentre Norbert Elias utilizza l’analisi delle
emozioni per dimostrare la connessione fra gli aspetti naturali e quelli sociali
dell’esistenza umana.
Ma colui che spicca in maniera determinante è sicuramente Georg Simmel, a cui è
interamente dedicata la seconda sezione.
Il sociologo delle forme e dei contrasti, che ha prestato attenzione a tutti quegli
aspetti più vissuti nella quotidianità e forse per questo scientificamente bistrattati,
è da considerarsi il primo vero sociologo delle emozioni e, sebbene la sua
produzione non contenga una precisa teoria a riguardo, è sicuramente colui che ne
ha colto pienamente l’essenza e la valenza sociale, nonché l’importanza
indiscutibile per il singolo soggetto. Ma per l’intento di questo lavoro, e cioè
investigare il rapporto tra moda ed emozioni e tentare di dimostrare che queste
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ultime hanno il potere di influenzare la prima, Simmel è risultato fondamentale
anche per il suo famosissimo saggio sulla moda.
La terza sezione è quella più articolata e complessa, vista la sua funzione di ponte
logico- concettuale tra la sociologia delle emozioni, la semiotica e la moda.
Il primo capitolo tratta le classiche teorie sociologiche sulla moda, quindi quelle
di Spencer, Sumner, Veblen, Tarde, lo stesso Simmel, Sombart, Sorokin e
Smelser, fino ad arrivare ai sociologi contemporanei, Alberoni, Eco, Morin.
L’elemento comune ai due filoni, quello classico e quello contemporaneo, risiede
nel fatto che, chi più chi meno, hanno sempre guardato al fenomeno moda non
solo come a un sistema di distinzione per le classi sociali, ma anche come
strumento per appagare, esclusivamente, o il bisogno di uguaglianza, o quello di
diversità. Ciò che invece tento di dimostrare è che, come aveva giustamente
notato Simmel, invece la moda è caratterizzata da entrambi questi momenti, e che
la sua anima è lo specchio dello psicologismo moderno, custodita nella dicotomia
imitazione- differenziazione.
Il secondo paragrafo studia i meccanismi che favoriscono la nascita di una moda,
e qui sono presenti i contributi di Renè Konig e di Edward Sapir, che servono,
principalmente, ad introdurre la mia tesi: la moda nasce grazie alla spinta
emozionale sociale.
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Nel secondo capitolo tratto la moda come forma di conoscenza, concentrando
l’attenzione prima sulla comunicazione non verbale e poi, invece, sulla semiotica
vera e propria, con riferimenti ai preziosi contributi di Ugo Volli e Umberto Eco.
Nel terzo capitolo mi addentro nel cuore del discorso, partendo dall’interrogativo
se la moda può realmente considerarsi specchio e prodotto delle emozioni, non
solo individuali, ma anche sociali. A tale fine riporto una dettagliata analisi sul
significato psico- emotivo dei principali colori, sottolineando la loro relatività
storico- culturale. Su questa scia arrivo ad ipotizzare un meccanismo sociale che
definisco contagio emotivo, sul quale baso la mia teoria.
L’ultima sezione è dedicata alle singole emozioni che, a mio avviso, dimostrano
come effettivamente la moda sia il risultato della concentrazione nel sociale di
emozioni prima soggettive e poi collettive. Dunque analizzo la fondamentale
emozione dell’invidia, che presenta evidenti analogie strutturali con la moda
stessa; poi tratto il caso dell’erotismo, pulsione diretta non alla semplice
seduzione dell’altro, ma protagonista di un meccanismo psicologico più
complesso e con altrettanto complesse conseguenze sociali; proseguo trattando la
paura, un’emozione che poche volte ha ricevuto la giusta considerazione in
rapporto alla moda; infine concludo con due emozioni che, invece, non diventano
moda, la gioia e il dolore. L’ultimo paragrafo risulta essere una considerazione
d’insieme sulla società attuale, e sulle conseguenze che l’inversione di ruoli che
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oggi sottende i rapporti uomo- donna sono chiaramente visibili proprio grazie alla
moda, attento indicatore di un insolito riconoscimento della nuova sensibilità
maschile.
Le inflazionate considerazioni economiche sulla macchina consumistica che
riesce a mettere in moto la moda, non trovano in questo lavoro un posto di primo
piano; ciò che intendo dimostrare, infatti, è che la Moda non solo è
comunicazione, ma è un vero e proprio linguaggio di cui si servono le emozioni
per comunicarsi, ed ancora, che forse oggi, più che in passato, c’è la possibilità di
rendersi conto che, nonostante le apparenze, nonostante l’informatizzazione della
società, nonostante il nuovo capitalismo e la globalizzazione, ciò che ancora
conta, più di tutto, è l’uomo e il suo essere in società.
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LA SOCIOLOGIA DELLE EMOZIONI
1- COSA SONO LE EMOZIONI
Quasi tutti sono convinti di intendere il senso della parola “emozione”, e forse a
ragione. Ma coglierne consapevolmente il significato e le implicazioni è cosa
assai diversa e ben più complessa. Sebbene le emozioni facciano parte della vita
quotidiana e siano state descritte in opere letterarie di tutte le culture, vi è ancora
una notevole confusione sulla loro natura. Per secoli si è ritenuto naturale che il
loro studio fosse esclusiva competenza della biologia, della zoologia, della
medicina addirittura. Un’apertura diversa nel senso di un approccio allargato alle
altre discipline si trova negli ultimi cento anni, in cui molte definizioni
autorevoli si sono succedute e accompagnate e, da una rassegna di alcune di loro
emerge che, si parli di approcci biologici o psicologici, fondamentalmente, ci
troviamo sempre davanti a due classi di emozioni: quelle primarie o basilari o
basiche, e quelle secondarie, combinazioni o miscugli delle primarie.
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Ancora prima Cartesio ipotizzò che vi fossero solo sei emozioni primarie o ,
meglio, passioni e che tutte le altre fossero di loro derivazione. Cartesio si era
reso conto che esistevano due categorie di entità: esseri mentali (i miei pensieri)
ed esseri reali (ciò che esiste al di fuori dei miei pensieri), e concluse che per
l’uomo gli esseri più reali, più affidabili, erano i pensieri: qualunque sia la realtà
esterna della cosa, nessuno può negare la mia realtà della cosa stessa, cioè il mio
pensare di quella cosa.
Purtroppo Cartesio non seppe attribuire la giusta importanza e il giusto valore alle
sensazioni e le scomunicò dalla chiesa laica del sapere come confusi status
mentis. Il filosofo non riuscì a scoprire il continente delle sensazioni, che è un
continente diverso da quello delle idee, il più importante, il più intimo e il più
vitale per l’essere umano. Cartesio, Kant ed altri filosofi, operarono una
distinzione tra l’ ens rationis (esseri della ragione, esseri mentali, idee) e l’ens
reale (esseri reali, esseri esistenti con pensiero indipendente). Tuttavia questi
filosofi hanno dimenticato una terza categoria di esseri, impossibile da ricondurre
ad altre: l’ens sentendi ,ens sentimentale, gli esseri emozionali, i nostri sentimenti
e le nostre sensazioni, sentio, ergo sum. Ciò che conta per l’essere umano è ciò
che sente, qualunque sia la causa scatenante il suo sentimento, la sua sensazione;
ciò che conta è che questi oggetti o persone, reali o mentali, si traducono in
sensazioni (Jàureguj, 2000). Pascal coniò la celebre frase “ Sono solo una canna,
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ma una canna che pensa”; e ancora “Ho giorni di sole radioso e di neve dentro di
me: la mia fortuna o la mia disgrazia non hanno niente a che vedere con questo
stato di cose. A volte, quanto più sono costretto a combattere con la mia sorte
avversa mi sento felice sperando di vincere la partita; invece altre volte mi sento
abbattuto, quando la vita mi sorride e tutto mi riesce bene” (Pascal, tr. 1991). Il
pensare sarebbe la frontiera esistenziale tra due categorie di esseri: quelli che
pensano e quelli che non pensano. "L’universo può annientarmi, però lui non lo
sa, io sì” (Pascal). Ecco la chiave della superiorità del nostro essere, secondo
Pascal ed altri pensatori. Non è il fatto che sappiamo, che conosciamo ciò che ci
rende superiori a un sasso; ciò che conta è che questo pensiero (“io penso, il sasso
non pensa") ci faccia sentire superiori. Il pensiero è ancora una volta il mezzo, e
la sensazione è il fine .
1.1-CHARLES DARWIN E LA TRADIZIONE EVOLUTIVA
A metà del XIX secolo Charles Darwin propose la teoria dell’evoluzione per
spiegare l’origine della specie, giungendo alla conclusione che la diversità
biologica era associata anche alla diversità comportamentale e che un aspetto di
quest’ultima fosse la molteplicità delle forme di espressione emozionale
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osservabile in tutti gli animali. La concezione darwiniana del comportamento
espressivo scaturita da molti esempi ed esperimenti, risulta essere perciò di tipo
funzionale: le espressioni emozionali agiscono come segnali e come preparazione
all’azione. Nonostante fosse convinto del carattere non appreso di molte di esse,
comprese bene che alcune erano invece il risultato di una interiorizzazione
naturale e spontanea, come le parole di una lingua, usate come mezzo di
comunicazione e riteneva probabile che gli animali avessero un’innata capacità di
riconoscere le espressioni emozionali negli altri. Dunque una prima conclusione
delle sue concezioni è che gli schemi comportamentali sono caratteri della specie
altrettanto stabili e affidabili della forma delle ossa; una seconda è che la storia
delle espressioni emozionali conferma in una certa misura la discendenza
dell’uomo da qualche forma animale. Darwin fu il primo a riconoscere che il
concetto di evoluzione dovrebbe applicarsi non soltanto allo sviluppo di strutture
fisiche, ma anche all’evoluzione della mente e delle emozioni. Nel suo libro
L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872), fornì molti
esempi dei modi paralleli in cui animali diversi esprimono le emozioni. Darwin
riteneva che tali osservazioni avrebbero fornito la base per operare
generalizzazioni sulle origini di vari tipi di comportamenti espressivi poiché, a
differenza degli esseri umani, è improbabile che gli animali basino le proprie
espressioni sulle convenzioni sociali. I progressi della ricerca hanno confermato
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l’intuizione darwiniana della fondamentale unità dei sistemi viventi. Sembra
indubbio che esistano processi fondamentali comuni a tutti i livelli di sviluppo
biologico. Per poter comprendere appieno le emozioni, è necessario riconoscerne
le origini nell’evoluzione filogenetica oltre che nello sviluppo biologico
(Plutchik, 1994). Da allora lo studio delle emozioni venne esteso dallo studio
delle sensazioni soggettive allo studio del comportamento in un contesto
biologico evolutivo.
1.2-WILLIAM JAMES E LA TRADIZIONE PSICOFISIOLOGICA
Nel 1884 lo psicologo americano William James pubblicò un articolo in cui
propose in nuovo modo di guardare le emozioni, considerando il problema della
sequenza. James sottolineava che normalmente quando si verifica un’emozione, si
pensa che la “percezione” di una situazione origini una “sensazione di emozione”,
che è poi seguita da varie modificazioni fisiologiche interne ed esterne. Secondo
lo psicologo questa sequenza era scorretta in quanto le modificazioni fisiologiche
seguono direttamente la percezione di un evento eccitante, e la sensazione di
queste modificazioni è l’emozione. A suo avviso un’ emozione sconnessa da ogni
sensazione fisica era inconcepibile. James, considerando le emozioni “reazioni
innate o istintive”, modificabili con l’addestramento e l’abitudine, precisava che
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la sua teoria dovesse essere applicata solo alle emozioni “grezze”, quali
sofferenza, paura ,rabbia e amore. L’importanza di questa che oggi difficilmente
definiremmo teoria ,stava allora nel dare un’aurea di scientificità a quella che era
un’idea di senso comune, riprendendo il concetto che un’emozione è uno stato
introspettivo, soggettivo, personale, idiosincratico.
1.3-WALTER B. CANNON E LA TRADIZIONE NEUROLOGICA
Walter Cannon, un medico americano attivo all’inizio del XX secolo, studiò le
modificazioni fisiologiche che si verificano negli animali sotto stress, e utilizzò i
suoi dati per mettere in discussione le ipotesi di James, tentando poi di
individuare nel cervello la “sede delle emozioni”. Infatti, sulla base dei suoi tanti
esempi ed esperimenti, si convinse sempre di più di quanto fosse limitativo il
feedback viscerale nella produzione di sensazioni emozionali, riconoscendogli
ottimisticamente solo un ruolo secondario. Afferma Cannon: “quando i processi
talamici vengono eccitati, alla semplice sensazione si aggiunge la qualità
peculiare dell’emozione”. Invece di ipotizzare una sequenza lineare di eventi che
collegano la percezione alla sensazione, come supposto da James, Cannon
affermò che la scarica talamica produce simultaneamente un’esperienza
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emozionale e una serie di modificazioni corporee .Era inoltre convinto che quasi
tutte le emozioni si potessero considerare “emozioni di attacco-fuga”.
1.4-SIGMUND FREUD E LA TRADIZIONE PSICODINAMICA
Nel primo ventennio del XX secolo Sigmund Freud formulò una nuova
concezione della mente i cui processi restavano per la maggior parte sconosciuti
al soggetto. Egli considerava le emozioni non semplici sensazioni, ma stati interni
complessi soggetti a rimozione, a distorsione e modificazioni per cause consce e
inconsce.
Nel 1895 pubblica Studi sull’isteria in cui getta le basi di una teoria delle
emozioni. Studiando sintomi di paralisi delle pazienti isteriche che scomparivano
con l’ipnosi, giunse a inferire che i soggetti soffrivano a causa di ricordi che
avevano rimosso e tali ricordi erano proprio quelli ad alto contenuto emozionale,
fino a concludere che il sintomo isterico agiva come una rappresentazione
mascherata dell’emozione rimossa. La teoria freudiana delle pulsioni non era una
teoria delle emozioni, ma serviva per l’interpretazione psicanalitica di due affetti
importanti: l’ansia e la depressione.
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Con l’Interpretazione dei sogni, Freud si sposta dall’ambito della clinica delle
nevrosi, ai problemi legati alla vita psichica di ogni uomo, dunque dalla patologia
alla normalità. Con questo scritto la psicanalisi, nata come modello terapeutico
della nevrosi, assume la consistenza teorica di una scienza dell’uomo in generale.
Freud prosegue su questa strada, sempre più convinto della continua presenza-
influenza dell’inconscio nella quotidianità delle persone, e con Psicopatologia
della vita quotidiana approfondisce l’analisi di una serie di manifestazioni
(lapsus, dimenticanze, comportamenti superstiziosi) che, come il sogno, pur non
avendo nulla di patologico, sono in grado di dimostrare tale influenza. L’agire
umano così non appare più sorretto dal libero arbitrio, ma piuttosto da forme di
compromesso tra le istanze cognitive e razionali da un lato, e quelle emozionali e
pulsionali dall’altro. Lo scavo analitico mostra allora come la razionalità umana
sia continuamente frammista ad elementi affettivi e passionali spesso
inconsapevoli, a conflitti emotivi sempre operanti nel corso della vita.
Forse l’elemento innovativo più sconvolgente di tutto il lavoro freudiano consiste
nel fatto che la dimensione dell’inconscio introdotta dalla teoria psicanalitica
colpisce un’ulteriore illusione: l’uomo non è più interamente padrone neppure
della propria interiorità, l’ “ Io non è più padrone in casa propria”, dice Freud, la
coscienza e la razionalità umane sono sempre insidiate da emozioni e passioni che
ne relativizzano il ruolo.