4 
INTRODUZIONE: 
IL PROCESSO PENALE COME LUOGO DI RICONOSCIMENTO 
DELL’IDENTITÀ DELLA VITTIMA: STIMOLI INTERNAZIONALI E 
PROSPETTIVE FUTURE 
 
Nell’ambito del processo penale italiano il ruolo della persona offesa 
dal reato è stato - e per molti aspetti continua ad essere - quello di un 
semplice interlocutore occasionale nella dialettica processuale. 
Tradizionalmente la vittima del reato è oggetto di ben poca 
considerazione non solo da parte del legislatore ma, più in generale, da 
parte di tutta la società: si è formato un clima culturale indifferente, per non 
dire ostile, nei confronti dell’offeso; al contrario, nei riguardi del carnefice, 
l’attenzione è quasi morbosa, al punto che l’opinione pubblica, come 
affascinata da questa figura, focalizza tutte le proprie riflessioni su 
caratteristiche, diritti e bisogni del reo.  
Parallelamente, nel processo penale, la presenza dell’offeso è mal 
tollerata: l’atteggiamento è quello di considerarlo come elemento di 
appesantimento del rito, a costo di lasciare senza risposta le istanze di 
giustizia e riconoscimento di chi ha subito un reato. 
Un generale mutamento nella percezione sociale della vittima potrà 
avvenire attraverso il riconoscimento all’offeso della titolarità di specifiche 
situazioni giuridiche soggettive: a tal fine, i diversi organismi internazionali 
(ONU, Consiglio d’Europa, Unione Europea) impongono ora di abbandonare 
la visione reocentrica del processo penale, per prendere in considerazione 
anche il soggetto titolare dell'interesse protetto dalla norma penale violata. 
Il presente elaborato prende il via proprio dalla considerazione che la 
realizzazione di un sistema penale più soddisfacente rispetto ai bisogni 
attuali della società trova il proprio presupposto nel rispetto delle esigenze 
della vittima: rispetto, che si traduce in una partecipazione effettiva ed 
efficace al procedimento. Se i vari documenti internazionali che, ormai da 
più di vent’anni, si occupano di tale problematica sono rimasti per lo più 
lettera morta, ora un nuovo obiettivo deve muovere il legislatore e
5 
l’operatore giuridico: la ricerca di politiche penali e sociali attente alla 
posizione e al ruolo, ai bisogni e alle aspettative di giustizia delle vittime. 
Certo, la spinta all’approfondimento di queste tematiche è da 
ricercarsi più nelle sollecitazioni europee ed internazionali che in una 
consapevolezza autonomamente maturata nella società italiana. Anzi, 
soprattutto nella nostra realtà nazionale, l’esigenza di rimodellare il sistema 
acquisendo le numerose (e datate) istanze vittimologiche nasce in tempi 
recentissimi: sotto la spinta dalla decisione quadro del Consiglio d’Europa 
2001/220/GAI, nel 2003, è stata presentata in Parlamento la Proposta di 
legge quadro per l'assistenza e la tutela delle vittime del reato. 
Dall’Unione Europea giunge un preciso obbligo di adottare strumenti 
giuridici per la realizzazione di quegli standard minimi di tutela della vittima 
nel processo penale che la decisione stessa configura. Dunque, domandarsi 
oggi se sia opportuno o meno intervenire per tutelare la persona offesa non 
è più solo una questione di opportunità: nella Relazione della Commissione 
della Comunità Europea del 2004 relativa alla decisione quadro, si specifica 
che <<ciascuno Stato membro è tenuto a recepire le disposizioni della 
direttiva nella legislazione nazionale con disposizioni aventi carattere 
vincolante>>, e che <<la formulazione lascia agli Stati membri un ampio 
margine di manovra per il suo recepimento>>, vincolando gli Stati 
<<quanto al risultato da ottenere>>. L’obiettivo da raggiungere è quello di 
stabilire e garantire, in tutta l'Unione Europea, un <<livello elevato e 
comparabile di protezione per le vittime>>. 
Obiettivo di questo lavoro è l’esame delle linee di intervento che la 
politica giudiziaria penale europea impone ai soggetti del processo negli 
Stati membri, al fine di salvaguardare gli interessi della persona offesa 
prima, durante e dopo il procedimento penale: il riconoscimento di più ampi 
ed effettivi poteri processuali (tanto sotto il profilo probatorio ed 
informativo, quanto sotto quello della assistenza legale e della protezione); 
il diritto di ottenere il risarcimento da parte dell’autore del reato; la 
promozione della mediazione nell’ambito del procedimento penale; 
l’istituzione di servizi specializzati per l’assistenza della vittima; l’intervento 
di esperti con specifica formazione per gestire il contatto con le vittime, sia
6 
nella fase invesitigativa che in quella processuale; la creazione di un 
sistema di cooperazione volto a facilitare alle vittime di reato l'accesso 
all'indennizzo nelle situazioni transfrontaliere. 
In particolare, si opererà l’analisi delle due relazioni della 
Commissione, quella del 2004 e quella del 2009, al fine di trattare del livello 
di recepimento della decisione quadro: balza agli occhi una sostanziale 
situazione di inottemperanza da parte di tutti gli Stati membri. Nel 2004 
solo dieci Paesi avevano inviato contribuiti relativamente completi sul 
recepimento nella legislazione nazionale; alla data del 20 aprile 2009 la 
Commissione può analizzare la situazione in tutti e ventisette i Membri: 
nella Conclusione la Relazione denuncia un <<livello di attuazione 
insoddisfacente>>, sottolineando che <<molte disposizioni sono state 
attuate tramite orientamenti non vincolanti>> e che <<la legislazione 
nazionale trasmessa alla Commissione presenta numerose omissioni, oltre a 
riflettere, in gran parte, prassi esistenti già prima dell'adozione della 
decisione quadro. L'obiettivo di armonizzare la legislazione in questo settore 
non è raggiunto in quanto sussistono ampie disparità tra le normative 
nazionali>>. 
Alla luce delle istanze della comunità internazionale, i tempi devono 
ritenersi maturi, per lo meno per recuperare il gap che da anni divide il 
nostro Paese dalle altre realtà europee. Allo stato attuale il nostro 
ordinamento non ha affatto recepito la necessità di un sistema organico di 
norme a tutela della vittima del reato: la normativa vigente in materia è 
lacunosa e faraginosa, prevedendo misure assistenziali di tipo settoriale e, 
soprattutto, prendendo in considerazione solo alcune categorie di vittime.  
Con ricorso del 26 febbraio 2007 (causa C-112/07, Commissione delle 
Comunità Europee contro Repubblica Italiana) la Commissione Europea ha 
chiesto alla Corte di giustizia di accertare l’inadempimento, da parte della 
Repubblica Italiana, dell’obbligo di dare attuazione nell’ordinamento interno 
alla direttiva comunitaria n. 2004/80/CE, relativa all’indennizzo delle vittime 
di reati. Un simile atteggiamento era, d’altronde, prevedibile, dato che 
l’Italia non ha neppure mai ratificato la Convenzione del Consiglio d’Europa 
relativa al risarcimento delle vittime di reati violenti del 1983,
7 
distinguendosi rispetto a ben ventuno degli altri Paesi membri del Consiglio 
(tra cui il Regno Unito, la Germania, la Francia, i cui atti di ratifica risalgono 
al 1990). 
Attualmente, in Italia, è previsto che il risarcimento danni avvenga da 
parte dell’autore del reato il quale, però, spesso non è in grado di farlo: il 
decreto legislativo n.204 del 2007, in espressa attuazione della direttiva del 
2004, non ha eliminato il problema e sarà necessario sottoporre a verifica la 
correttezza dell’intervento di ricezione della direttiva. Successivamente, 
saranno oggetto di studio i timidi tentativi di avvicinamento del nostro 
sistema ai parametri europei: per questo la considerazione sarà rivolta ai 
quei rari segnali di attenzione verso la vittima che il nostro ordinamento ha 
mostrato, a partire dalla XIV legislatura. In ambito parlamentare si sono 
susseguite varie proposte di legge, sulla scia delle indicazioni provenienti 
dalla comunità internazionale; purtroppo, dalla presentazione della Proposta 
di legge quadro per l'assistenza e la tutela delle vittime del reato, nel 2003, 
nulla è ancora cambiato: la stessa proposta è stata più volte reiterata, 
anche da opposti schieramenti politici; altri disegni di legge ancora si sono 
aggiunti; tuttavia per quella che è stata definita la svolta storica nel sistema 
della giustizia penale italiana non c’è ancora spazio e la vittima rimane 
immobile nella sua posizione di subalternità rispetto alla pretesa punitiva 
dello Stato. 
All’esito di una disamina delle proposte di legge agli atti del 
Parlamento, risulta chiaro che l’imprescindibile presupposto di ogni ipotesi di 
riforma vada rinvenuto nella modifica dell’art. 111 della Costituzione, che, 
delineando i principi del cd. giusto processo, inspiegabilmente omette ogni 
esplicito ed autonomo riferimento al soggetto passivo del reato. La lacuna 
della disciplina si riverbera proprio nel processo penale, ove la vittima trova 
un proprio spazio solamente in seguito alla costituzione di parte civile. E 
proprio a quest’ultima si dovrà fare riferimento (a lei, e ai suoi rapporti di 
tale figura con la persona offesa che non si costituisce parte civile) per 
constatare la marginale attenzione che la legislazione vigente riserva in 
generale alla vittima, platealmente espulsa dalla giustizia penale nel caso di 
scelta di quei procedimenti speciali che eliminano il dibattimento penale.
8 
Sotto altro profilo, sembra opportuno sottolineare l’importanza 
dell’apertura che la decisione quadro impone verso un modello alternativo di 
giustizia, quello della mediazione penale, modello che coinvolge la vittima, il 
reo e la comunità nella ricerca di soluzioni al conflitto generato dal fatto 
delittuoso, in modo da promuovere la riparazione del danno, la 
riconciliazione tra le parti e il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo. 
Nella prospettiva della vittima, la mediazione viene incontro ad alcune 
esigenze connaturate al suo stato: il bisogno di ascolto, la necessità di 
esternare la propria sofferenza e, infine, il riconoscimento sociale del torto 
subito. Le diverse realtà nazionali, anche quella italiana, hanno sviluppato 
così i percorsi della restorative justice (o giustizia riparativa), come concreta 
alternativa alla punizione per i reati di minore allarme sociale. Nel nostro 
Paese, soprattutto nella seconda metà degli anni Novanta, magistratura 
minorile e servizi sociali hanno iniziato a sperimentare la mediazione penale 
attivandone il ricorso attraverso i Tribunali per i minorenni. Un ulteriore 
laboratorio di sperimentazione è stato costituito dal decreto legislativo sulle 
competenze penali del giudice di pace, n. 274/2000, che prevede, tra l’altro, 
la possibilità che il giudice sospenda il processo e deleghi l’attività 
conciliativa ad un centro di mediazione presente sul territorio. A tale 
strumento vanno riconosciuti effetti di responsabilizzazione dell’autore del 
reato, ma soprattutto di soddisfazione della vittima, che si troverà in prima 
persona a contatto col reo. Tutto il sistema ne trarrà vantaggio, 
beneficiando dell’effetto deflattivo della mediazione. Non solo: alla parte 
offesa viene riconosciuto il potere - assolutamente inedito nella storia del 
nostro ordinamento - di citare direttamente in giudizio l'autore del reato per 
ottenere la punizione del colpevole, potere esercitabile solamente nei reati 
perseguibili a querela.  
Questo, dunque, sembra il percorso da doversi seguire: nel nostro 
sistema, a struttura retributiva, le vittime sperimentano innanzitutto la 
difficoltà di essere ascoltate e l’impossibilità di vedere in qualche modo 
appagato il loro fondamentale bisogno di riconoscimento. Il riscatto della 
persona offesa dal suo ruolo di mero <<postulante>> (volendo usare le
9 
parole di Cordero
1
) nella liturgia del processo, è un’esigenza di giustizia 
umana; bisogna quindi tentare di accrescere, rendendoli effettivi, quei diritti 
e facoltà che il titolo sesto del primo libro del codice dell’88 le attribuisce. 
Solo così potrà essere ridotto il <<danno secondario>>, determinato 
dall’indifferenza e dalla sofferenza che la persona offesa patisce a causa del 
procedimento, danno amplificato, sia dal comportamento inadeguato delle 
forze di polizia e dell’apparato giudiziario, sia da lunghi e penosi processi, i 
quali, anziché rimuovere paure e traumi conseguenti al reato, 
continuerebbero solo a riproporre quel doloroso vissuto. La vittima non si 
aspetta solo che la giustizia stia dalla propria parte, perseguendo i colpevoli 
e garantendo risarcimenti, ma anche e soprattutto il proprio riconoscimento. 
Il processo, nel ripercorrere l’esperienza della vittima, istituisce <<questi 
esseri dolorosi in vittime>>
2
: esso svolge la funzione essenziale di 
trasformare un’esistenza negata dal reo in una identità di vittima. <<La 
facoltà di intervenire nel procedimento, [...] consente al soggetto di vedere 
inserite le proprie istanze di riconoscimento in un contesto ’’ufficiale’’>>
3
. 
<<Riconoscendo si attesta una identità, la quale, non è data 
antecedentemente al, e indipendentemente dal, riconoscimento stesso>>
4
.  
È attraverso una partecipazione attiva ed efficace al procedimento che la 
persona riuscirà a guarire, potendo riporre fiducia nel sistema-giustizia, così 
realizzandosi l’obiettivo della pacificazione sociale e in modo da vedersi 
mitigate le crescenti e irrazionali richieste di prevenzione generale. 
                                                           
1
 F. CORDERO, Procedura Penale, Giuffrè, 2006, 276 
2
 A. GARAPON, Des crimes qu’on ne pe ut ni punir ni pardoner, Paris, 2002, 164 
3
 B. PASTORE, Pluralismo, fiducia, solidarietà, Carocci, 2007, 34 
4
 B. PASTORE, Pluralismo, cit. 27
10 
CAPITOLO I:  
CAUSE ED EFFETTI DELL’ESCLUSIONE SOCIALE DELLA 
VITTIMA DI REATO 
 
1. Lingua e tempo della vittima 
 
<<Da molti segni, pare sia giunto il tempo di esplorare lo spazio che 
separa (non solo nei Lager!) le vittime dai persecutori>>
5
. Così Primo Levi 
auspica che finalmente si cominci a parlare la difficile lingua dei sommersi, 
ossia, la lingua della vittima, letteralmente impossibile da parlare davvero, 
come egli stesso ammonisce. 
Dopo gli orrori del Novecento, il secolo più violento della storia 
moderna
6
, questo sembra dover finalmente essere il tempo della riflessione: 
il nostro può essere il tempo della vittima. Con tale espressione si vuole 
sottolineare che il nostro non è semplicemente il momento in cui si debba 
estendere la difesa della vittime, in nome dei diritti umani, ma il tempo in 
cui si pratichi sempre più la cultura della vittima. L’indignazione per i 
soprusi patiti da persone, popoli, ma anche da animali non umani, 
dall’ecosistema, sta mettendo rapidamente radici nel nostro sentire 
comune. Le maggioranze appaiono sempre più permeabili ai sensi di colpa 
verso le minoranze discriminate, più inclini a legittimare il loro diritto ad 
essere riconosciute e risarcite. <<Il concatenarsi di indignazione, 
riparazione e perdono costituisce sempre più un nucleo coerente di 
significati che organizza la nostra quotidiana percezione del mondo e il 
nostro ethos condiviso>>
7
 e tale concatenazione <<incide così in profondità 
sulle nostre abitudini percettive e ideative, che non si limita a organizzare la 
nostra più ovvia rappresentazione del presente, ma si spinge a riorganizzare 
la nostra rappresentazione della storia umana, rendendo nostre 
                                                           
5
 P. LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1986, 62 
6
 Cfr. M. FLORES, Tutta la violenza di un secolo, Feltrinelli, 2005 
7
 A. BOSI- S. MANGHI, Lo sguardo della vittima, Nuove sfide alla civiltà delle 
relazioni. Scritti in onore di Carmine Ventimiglia, Franco Angeli, 2009, 15
11 
contemporanee intere epoche del passato.>>
8
. Così, i discendenti dei nativi 
centroamericani hanno chiesto allo stato spagnolo il risarcimento per i danni 
subiti secoli fa dalla colonizzazione; lo stesso avviene in Italia, dove si fanno 
avanti le richieste di risarcimento da parte della Libia per le ingiustizie patite 
in epoca fascista.  
La specificità del nostro tempo sta nel considerare la vittima nella sua 
dimensione universalistica; la condizione vittimaria è misurata rispetto a 
parametri uguali per tutti: i diritti umani. Nelle epoche storiche precedenti, 
la sofferenza delle vittime non era del tutto ignorata: tuttavia, queste erano 
vittime appartenenti alla famiglia, alla tribù, al clan, ad una etnia, alla 
comunità. Il quadro di riferimento per la condizione vittimaria non era 
un’astratta carta di diritti uguali per tutti, ma un insieme di parametri 
dichiaratamente particolari, quali sangue e suolo
9
. 
I tempi debbono considerarsi maturi per abbandonare la 
<<grammatica dei vincenti>>
10
, dei signori, che relega sullo sfondo il 
processo vittimario, occultandolo; è tempo di cominciare a parlare la lingua 
della vittima, in modo che si configuri come umanamente pensabile la triade 
indignazione - riparazione- perdono.  
Di pari passo con tali consapevolezze e trasformazioni culturali, le 
scienze sociali e giuridiche sono di fronte alla sfida ineludibile, finora solo 
parzialmente affrontata, di alimentare la cultura della vittima, compensando 
anni di mancanza di interesse. Proprio perché si possa cominciare a parlare 
la lingua della vittima, per non cadere negli stessi errori, sarà necessario 
esaminare le cause alle quali possono essere ricondotte sia la scarsa 
percezione sociale della vittima sia il conseguente formarsi di una cultura 
per lo più indifferente rispetto ai suoi bisogni.  
Nel linguaggio comune vi sono un’infinità di situazioni estremamente 
differenti tra loro che possono portare un soggetto a subire un processo 
                                                           
8
 A. BOSI- S. MANGHI, Lo sguardo, cit., 16 
9
 S. Manghi a questo proposito parla di vittima di parte. <<Anche Hitler, com'è ben 
noto, perseguì i suoi disegni criminali dipingendo la (presunta) razza ariana come 
vittima innocente - bersaglio privilegiato della (presunta) congiura giudaica. Ma il 
suo quadro di riferimento […] era la “concreta” realtà di parametri - sangue e suolo 
- dichiaratamente particolari.>> in A. BOSI- S. MANGHI, Lo sguardo, cit., 17 
10
 A. BOSI- S. MANGHI, Lo sguardo, cit., 21
12 
detto di vittimizzazione. In altre parole, le situazioni vittimogene sono varie 
e diverse, per nulla omogenee: è considerata vittima sia chi si trova a 
vivere in una situazione di sofferenza per causa altrui, sia chi si trova a 
patire a causa di eventi naturali, calamità, motivi religiosi. L’unico elemento 
che accomuna tutti i tipi vittima sembrerebbe essere la sofferenza.  
Se prendiamo la definizione che un comune vocabolario di lingua 
italiana fornisce alla voce <<vittima>>, troviamo appunto una diversità di 
situazioni per la quale un soggetto possa dirsi tale. L’elemento che permette 
di ricondurre una tale varietà all’unicità della definizione è il fatto della 
ricorrenza del verbo subìre: <<Nel rito sacrificale, animale o uomo, offerto, 
per uccisione, alla divinità; chi perde la vita o subisce gravi danni personali 
o patrimoniali in seguito a calamità, sventure, disastri, incidenti e simili; chi 
soggiace ad azioni ingiuste, a prepotenze, violenze, soperchierie, 
sopraffazioni e simili; chi subisce, anche senza averne piena coscienza, le 
conseguenze negative di errori, vizi, difetti propri o altrui;[…]>>
11
. 
Questa l’accezione generale di vittima nella lingua italiana: qui, 
invece, ci si occuperà in particolare della vittima di reati, figura che più di 
ogni altra è stata relegata ai margini della socialità. 
<<Negli ultimi decenni si sono accumulati grossi debiti da parte della 
società (e del sistema giustizia) nei confronti delle vittime del reato>>
12
: 
esse non hanno la possibilità di partecipare, se non marginalmente, al 
procedimento che le dovrebbe riguardare. Non solo la tutela processuale è 
molto limitata, quando non del tutto inesistente: anche il sentire comune 
nei confronti delle vittime è assolutamente inadeguato e la loro 
considerazione e comprensione è limitata ai minimi termini. Basta pensare a 
ciò che avviene subito dopo la commissione di un reato, magari 
particolarmente efferato: dopo un primo breve momento di solidarietà nei 
confronti della vittima, opinione pubblica e mass-media rivolgono la loro 
attenzione alle indagini e alla ricerca dell’autore del reato; la vittima verrà 
presto dimenticata abbandonata alla sua solitudine. Quando, poi, verrà 
individuato un presunto colpevole, tutta l’attenzione si sposterà su di lui: a 
                                                           
11
 ZINGARELLI, Dizionario della lingua italiana, 2000 
12
 G. PONTI, Tutela della vittima e mediazione penale, Giuffrè, 1995, 3
13 
questo verranno –giustamente– garantiti un processo equo e un pieno 
diritto di difesa; alla vittima, invece, sarà riservata la possibilità di costituirsi 
ai margini del processo, in ruolo limitato che riguarderà la possibilità di 
ottenere un risarcimento meramente civilistico da parte del reo. Sul piano 
pratico, poi, si deve tener conto della circostanza che il colpevole non 
sempre viene identificato, o comunque la sua eventuale condanna 
interviene di regola a molta distanza dal fatto; se si pensa, in aggiunta, al 
fatto che egli è quasi sempre non abbiente e quindi non in grado di 
effettuare risarcimenti, si comprende che la vittima del reato è <<votata ad 
un oblio sociale ben più radicale di quello che incombe su vittime di altro 
genere, come quelle di un terremoto, di un’alluvione o di un disastro 
ambientale>>
13
. Le stesse dimenticanze, poi, si riconfigurano nella fase 
successiva al processo, dove l’attenzione si concentrerà sulla mitezza 
dell’esecuzione della pena, avente finalità riabilitative e rieducative: la 
vittima non potrà affatto intervenire e nulla potrà fare contro sconti di pena 
o indulti, tranne che assistere passivamente. Certo, garanzie e attenzioni 
per l’autore del reato sono senza dubbio il segno di una civiltà giuridica 
avanzata: abbandonarle significherebbe tornare alle aberrazioni di un 
passato in cui il reo era affidato all’arbitrio della vittima, alla vendetta.  
Ciò che si vuole affermare è, invece, che la stessa tutela e uguali 
forme di attenzione devono essere garantite anche alla vittima del reato, la 
quale, dopo aver subìto danni di vario tipo dal reato stesso, si trova 
completamente abbandonata da società ed istituzioni. 
Ciò che viene auspicato, qui, è una sorta di rivoluzione culturale: la 
sensazione di paura e insicurezza che viene a generarsi in un ordinamento 
che non garantisce un’effettiva tutela per la vittima non può far altro che 
provocare il sorgere di effetti distorti in termini di richieste di pene 
esemplari o di accertamenti sommari, peraltro capaci di forte consenso 
sociale. 
La scarsa percezione sociale della vittima, in Italia, è particolarmente 
evidente: ciò è stato determinato, in parte, da ragioni specifiche del nostro 
                                                           
13
 P. MARTUCCI, La posizione della vittima nella società e nell’ordinamento giuridico 
italiano, in Rivista di Polizia, 2001, 306
14 
ordinamento, quali le chiusure normative ad una presenza processuale della 
vittima in quanto tale (a prescindere cioè dalla sussistenza di danni 
patrimoniali) e gli ostacoli giurisprudenziali posti ad una estensione 
significativa delle possibilità di costituzione di parte civile; dall’altra parte, si 
deve rilevare che ad operare in tale direzione siano anche alcuni caratteri 
strutturali del diritto e del processo penale moderni.  
Solo di recente hanno trovato posto le riflessioni teoriche della 
scienza vittimologica, o vittimologia: così, alla vittima si è finalmente 
affacciata la possibilità di rivestire il ruolo che le spetta, quello di uno dei 
protagonisti immancabili (anche se involontari) del fatto delittuoso. 
Parallelamente, oggi sembra essere diventata un po’ più presente, sia sui 
media che in attività politiche, ampiamente intese, grazie soprattutto alle 
spinte, in questo senso, dei diversi organismi internazionali.  
Le intuizioni della vittimologia, a partire dagli anni Cinquanta del 
Novecento, hanno dunque giocato un ruolo fondamentale nell’abbandono 
della prospettiva criminale come unico piano di riferimento. Tuttavia, il 
ritardo culturale e le mancanze del nostro ordinamento in materia 
rimangono notevoli. Qui di seguito, si cercheranno di analizzare le possibili 
cause storiche, culturali e psicologiche che hanno portato ad un simile 
atteggiamento. In seguito, saranno esaminate alcune delle maggiori 
intuizioni teoriche della vittimologia, che hanno dato il via alla formazione di 
una società più sensibile alle esigenze della vittima. In ultimo, saranno 
analizzati alcuni degli effetti generati da una così scarsa percezione sociale 
del soggetto offeso: effetti, che si ripercuotono non solo sull’individuo e sui 
suoi familiari, ma sulla comunità sociale stessa. 
 
2. Le ragioni storiche e culturali dell’esclusione sociale della vittima 
di reato  
2.1. Evoluzione della posizione della vittima nel sistema di giustizia 
penale 
 
La storia della giustizia penale coincide quasi con il progressivo 
declino dell'influenza della vittima sulla reazione sociale alla criminalità.
15 
Gli antichi sistemi giuridici, oggi considerati per lo più barbari e 
violenti, erano obiettivamente molto più attenti nei riguardi dei diritti della 
vittima di quanto non siano le moderne strutture della giustizia penale, tese 
prevalentemente a tutelare la posizione dell'imputato in applicazione dei 
principi garantistici di stampo liberale recepiti in numerose Carte 
Costituzionali moderne, tra cui quella Italiana (cfr. art. 24, 2° comma 
Cost.). Vi fu un'epoca, definita da S. Schafer come <<l'età d'oro della 
vittima>>
14
, in cui l’offeso, detenendo la legge nelle proprie mani, era 
vittima e giudice al contempo, decidendo la punizione da impartire 
all’offensore e, quando possibile, infliggendola personalmente. Non 
esistendo ancora strutture sociali organizzate, vigeva la legge del più forte: 
chi si sapeva difendere poteva farsi giustizia con le proprie mani; se la 
vittima non aveva la possibilità di vendicarsi doveva accettare suo malgrado 
la situazione. 
A partire dal codice di Hammurabi del 1750 a.C., tutti gli ordinamenti 
di stampo tradizionale assegnavano alla vittima un ruolo decisivo nella 
punizione del reo. L’esercizio dell'azione penale era, in antichità, una facoltà 
concessa alla discrezionalità della vittima: mancando un organo con funzioni 
accusatorie, nessuno meglio dell’offeso dal crimine poteva conoscere le 
circostanze e fornirne prove d 'accusa. L’atto criminale era considerato, 
nella valutazione sociale delle civiltà tradizionali, come un fenomeno avente 
una duplice natura: da un lato, esso produceva un danno patrimoniale e 
morale nella sfera dei diritti individuali: in tale prospettiva, la vittima poteva 
determinare con ampia discrezionalità i provvedimenti sanzionatori e 
risarcitori da infliggere al reo; dall'altro, il crimine turbava non solo la vita 
della comunità, ma anche e soprattutto una <<concordia universale, una 
Legge metafisica, nel contempo umana e divina, che imponeva un sacrificio 
espiatorio (il piaculum) per la restaurazione della pax deorum, cioè lo status 
di amicitia fra uomini e Dei infranto dall'atto arbitrario>>
15
. La punizione del 
reo assumeva pertanto un significato sacrale che riscattava l'intera 
comunità di fronte alla divinità: la commissione del delitto da parte di un 
                                                           
14
 S. SCHAFER, Victimology: the Vìctim and his Criminal, Virginia, 1977 
15
 M. M. CORRERA - D. RIPONTI, La vittima nel sistema italiano della giustizia 
penale, CEDAM, 1990, 20
16 
cives arrecava grave offesa agli dei, provocandone l'ira. Al fine di evitare la 
reazione divina, si rendeva necessaria la punizione del colpevole: in tale 
contesto la vittima poteva optare per una transazione patrimoniale con il 
reo, pretendendone legittimamente un risarcimento di contenuto variabile 
(parte del quale veniva consacrata a titolo di piaculum). In alternativa, 
poteva promuovere l'azione penale dinanzi ad un rappresentante della 
comunità particolarmente saggio ed autorevole, il quale aveva l'esclusivo 
compito di controllare che, nel contradditorio, le parti rispettassero le regole 
del gioco protoprocessuale, intervenendo solo qualora la reazione 
vendicativa della vittima oltrepassasse certi limiti di proporzione stabiliti 
dalle antiche leggi sia religiose che giuridiche, eccesso che avrebbe violato 
una seconda volta la pax deorum metafisica
16
. La sanzione penale, in 
definitiva, poteva consistere in una somma di denaro o altri beni (bestiame, 
terreni) oppure nell’applicazione di pene arcaiche, prevalentemente 
proporzionali, sancite da leggi tradizionali notissima quella del taglione e 
quella romana della noxae deditio
17
, aventi appunto la funzione di limitare la 
reazione vendicativa della vittima e della sua gens in base a criteri ritenuti 
equi dalla comunità e, allo stesso tempo, rispettosi della pax deorum. La 
figura della vittima-accusatore privato, pertanto, corrisponde ad un concetto 
arcaico di Giustizia Penale, nell'ambito del quale non è distinto in modo 
netto l'illecito civile da quello penale, né l’illecito in generale dalla violazione 
di un precetto religioso. La pena si carica qui di aspetti simbolici, quasi 
magici: essa trascende la vicenda che lega il reo alla vittima, per attingere a 
significati religiosi. La condanna del reo da parte del Rex era una condanna 
alla sacertà, per cui il colpevole diveniva homo sacer; ciò significava, infatti, 
che chiunque poteva sacrificarlo, e dunque ucciderlo: il reo fungeva da 
vittima sacrificale in un rito di espiazione della colpa. In un tale sistema agli 
                                                           
16
 Cfr. F. CORDERO, Guida alla Procedura Penale, Torino, 1986, 315 
17
 Spettava al pater familias consegnare il proprio figlio, che si fosse reso autore di 
un delitto, alla persona offesa, attraverso il rituale della mancipatio. Uguale diritto 
spettava al dominus nei confronti dello schiavo autore di un delitto. In pratica il 
pater, nel caso in cui il figlio fosse responsabile del delitto, poteva o sopportare la 
condanna oppure effettuare la noxae deditio. Tale alternativa ci è tramandata dalle 
Istituzioni di Gaio: «Ex maleficio filiorum familias seruorumque, ueluti si furtum 
fecerint aut iniuriam commiserint, noxales actiones proditae sunt, uti liceret patri 
dominoue aut litis aestimationem sufferre aut noxae dedere»
17 
organi protogiudiziari erano conferiti poteri limitati, operando per lo più su 
iniziativa della vittima: spesso la definizione della ragione e del torto erano 
così affidati a soggetti non razionali (auspici, ordalie)
18
. Erano, infatti, 
estremamente rari gli atti criminali perseguiti in modo autonomo dalla 
comunità come ente organizzato: tali erano, per esempio, il rifiuto di 
difendere la Patria in guerra o il tradimento, in quanto atti direttamente 
rivolti contro il suo benessere o la sua sicurezza.  
Nel linguaggio giuridico romano dell'Età Repubblicana, che riflette una 
progressiva laicizzazione del diritto, i comportamenti criminali, direttamente 
lesivi di interessi pubblici o comunque della comunità, erano detti crimina, 
mentre gli atti illeciti rivolti contro l'individuo erano detti delicta e potevano 
in entrambi i casi essere perseguiti tramite l’actio poenalis, di natura 
civilistica. Considerando che i delicta (il furtum, la vis, l’iniuria e il damnum 
iniuriam datum) erano perseguiti nelle forme del processo privato fino 
all’esito risarcitorio nei confronti della vittima, si potrebbe dire che nel 
diritto romano si assiste ad una sorta di privatizzazione del diritto penale. 
Ma questa sarebbe, secondo alcuni
19
, una mera suggestione: i delicta 
all’epoca appartenevano naturalmente al diritto privato e quindi sarebbe 
sbagliato parlare di un diritto penale romano orientato dalla parte della 
vittima. Anzi, il rilievo da assegnare a quest’ultima sarebbe stato limitato al 
soddisfacimento di esigenze di tipo risarcitorio. 
Progressivamente, si passa da strutture processuali penali pubbliche, 
comunque imperniate sull'iniziativa privata (quali il processo per legis 
actiones), all'iniziativa pubblica, dapprima con la creazione di giurie 
permanenti in età classica (le cd. quaestiones perpetuae), poi, con la 
cognitio extra ordinem dell'Età Imperiale. 
La caduta dell'Impero Romano segna l'affermarsi della civiltà giuridica 
medioevale, dai caratteri estremamente diversi da quelli dell'ultimo periodo 
dell’Impero, marcatamente influenzato dal diritto germanico e dalla cultura 
giuridico - religiosa della Chiesa, espressa dal diritto canonico. L'intero 
apparato della giustizia medioevale è, infatti, dominato da una visione 
                                                           
18
 Cfr., F. CORDERO, Guida, cit., 40 e 312 ss. 
19
 In tal senso F. RAMACCI, Reo e vittima, in Indice Penale, 2001, 11