17
La follia poteva guarire del tutto, oppure si poteva manifestare a
intervalli. In proposito si è soliti ricordare il caso di Lucrezio che avrebbe
scritto il suo poema: “De Rerum Natura” “per intervalla insaniae.”
2
Essa era considerata una misteriosa malattia mentale e come tale
veniva studiata nel suo sorgere e nel suo decorso.
Proprio l’averla considerata una malattia mentale ha portato i giuristi
a designarla con i diversi termini di dementia, non sanae mentis, insania.
Di qui le conseguenze giuridiche di una simile condizione: il pazzo è
da considerarsi un essere che non ha la capacità d’intendere e volere e
come tale non può essere incolpato dei danni che abbia provocato.
Per questo motivo non può detenere il possesso di una “res”, perché
gli manca il senso del possedere; un’eccezione riguarda l’usucapione che
può essere realizzata, qualora una persona sia divenuta folle dopo che
l’abbia iniziata.
In oltre, il folle non si può sposare, ma il matrimonio di una persona
divenuta folle non viene meno e non viene meno nemmeno la patria
potestà.
La giustificazione di una simile norma viene data da Ulpiano (D. I, 6,
8: “Quasi voluntatis reliquiis in furiosis manentibus”) che vede nella
concezione di un figlio un barlume di volontà da parte del padre e della
madre, se, ad es., tutte e due siano pazzi.
2
Lucrezio, De Rerum Natura.
18
La patria potestà, però, non era valida nel caso che un figlio o una
figlia di un folle avesse voluto sposarsi, perché a sostituire il padre veniva
chiamato l’avo.
Il folle non poteva essere accusato di dolo, perché mancava in lui la
disposizione dell’animo.
Essendo il furor una malattia mentale, e non organica, chi fa un
testamento deve essere sano di mente, mentre può essere ammalato di
corpo.
Di qui la distinzione tra vitia corporis e vitia animi: nel primo caso
era consentita la restituzione di un servo; mentre ciò non era possibile nel
secondo caso, a meno che il vitium corporis non fosse penetrato fino
all’animo
3
.
La distinzione tra malattia organica e mentale portava ad una diversa
considerazione di chi avesse ucciso (D. 49, 16, 6, 7) spinto da un dolore
violento della vita o malattia o follia o senso di vergogna.
Questi due ultimi termini (furore aut pudore) sembrano alludere ad
un male diverso da quelli enumerati precedentemente: il senso di vergogna
non è un male organico, ma una specie di follia.
E’ da notare che i vari termini denotanti la pazzia sembrano a poco a
poco confondersi.
3
PESCANI P., B.I.D.R., Giuffrè Editore, vol.LXXXVI – LXXXVII, 1984.
19
Infatti demens in Proculo (D. 3I, 48, I) è adoperato come sinonimo
di furiosus, mentre in altri casi sembra si possa postulare una differenza tra
furiosus e demens, tra persona furiosa e persona squilibrata.
La stessa supposizione si può fare nei riguardi di furiosus e mente
captus, come sembra si possa dedurre da una Costituzione di Marco
Aurelio, citata da Ulpiano e riportata in C. 5, 4, 25, 2-3.
Che ci fosse una tendenza a separare il furor (pazzia furiosa) da
forme di pazzia diversa (demens, insanus, mente captus) risulterebbe anche
da C. 50, I, I, in cui Antonino Pio parla di un tale impiccatosi “aut furore
aut insania”.
Il furor, cioè la pazzia furiosa, quando era pericolosa per sé e per gli
altri, doveva essere frenata ad opera dell’autorità con la carcerazione del
malato, se i parenti non erano in grado di controllarlo.
L’ordine era stato dato con un rescritto di Antonino Pio
4
, ma, rimane
un po’ misterioso come si siano comportati i parenti e le autorità
anteriormente ad Antonino Pio.
Si potrebbe supporre, proprio in base al rescritto di Antonino Pio,
che fosse compito esclusivo della famiglia di provvedere al pazzo senza
che venisse coinvolta l’autorità.
Normalmente il furiosus doveva sottostare ad un curatore che doveva
4
Ulpiano (D. I, 18, 13, I.): “Furiosi, si non possint per necessarios contineri eo rimedio per praesidem
obviam eundum est: scilicet ut carcere contineantur”.
20
salvaguardare non solo il patrimonio, ma anche il corpo e la salute del
furioso.
Se c’erano dei parenti stretti, come fratelli o sorelle, oppure il marito
nei confronti della moglie, questi erano tenuti a dare ai congiunti la loro
assistenza.
Il curatore del folle non era tale per tutta la vita del malato.
Se il folle guariva completamente il curatore perdeva il suo incarico,
viceversa, se il malato guariva momentaneamente il curatore perdeva il suo
incarico soltanto per quel determinato periodo.
Inoltre, la dichiarazione di infermità mentale veniva fatta dal giudice
senza che essa si fondasse su certificati rilasciati dai medici.
E’ molto probabile che i giudici ricorressero ai medici che erano i più
adatti a dare un parere sulla follia di un malato e sulla sua pericolosità, ma
le fonti non accennano mai a tali interventi.
Infine, è interessante osservare una delle leggi delle XII Tavole che
sembra designare gli agnati e i gentili quali potestativi sulla persona e sui
beni del furioso: “Si furiosus escit, agnatum gentiliumque in eo pecuniaque
eius potestas esto”.
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CAPITOLO PRIMO
FUROR
1.0 Premessa.
1.1 Concetto di pazzia: dall’antichità ad oggi.
1.2 “Furor e melancholia”.
1.3 I caratteri della malattia mentale nell’epoca antica: i rimedi e
la possibilità di guarigione.
1.4 Conclusioni.
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CAPITOLO PRIMO
FUROR
1.0 PREMESSA.
Prima di analizzare il concetto di pazzia nel diritto romano, è
interessante osservare il significato del termine persona.
In età classica, il termine persona nel senso di essere umano fu in uso
con valore tecnico tra i giuristi romani
5
.
In epoche più antiche, sempre in ambito giuridico si trova, con lo
stesso senso, “homo”.
Questo termine, che pur continua ad essere utilizzato con il suo
valore più ampio, tende ad assumere, presso i classici, un valore più
ristretto: con homo si indica di frequente la persona in condizione servile.
Il più probabile significato originario di persona, è per i romani,
maschera teatrale e successivamente è sinonimo di uomo in quanto tale,
senza alcun riferimento alla soggettività giuridica; ed anche se qualche
riferimento tecnico si è voluto cogliere in alcune fonti postclassiche, nella
23
Compilazione giustinianea il termine torna ad essere impiegato in modo
generico ed atecnico
6
.
La maschera teatrale, infatti, si presta bene a celare molte differenze
di coloro che la portano; e pertanto persona si prestava, meglio di homo
(che poteva essere distinto da mulier, da puer, etc.), a designare ogni essere
umano, indipendentemente da differenze di sesso, di età, di condizione
giuridica.
Infine l’essere umano nato con deformazioni gravi (contra formam
humani generis; monstrum; prodigium; ecc.) solo in certi casi fu
considerato persona.
Per quanto riguarda i furiosi, nell’esperienza romana, essi non
venivano considerati “personae”, ed erano assoggettati alla “potestas” del
pater familias o degli adgnati e gentiles
7
.
E’ interessante osservare come determinate terminologie siano state
introdotte in epoca piuttosto tarda.
5
Nelle Istituzioni di Gaio la prima parte è dedicata al ius, quod ad personas pertinet (Gai I, 8).
6
METRO A., “Personae e status” nell’esperienza giuridica romana , in Index. Quaderni camerti di studi
romanistici, 28, 2000, Jovene Editore, Napoli.
7
BONFANTE P., Corso di diritto romano, I².Diritto di famiglia, 1925, rist., Milano, 1963.
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1.1 IL CONCETTO DI PAZZIA: DALL’ANTICHITA’ AD
OGGI.
L’espressione “furiosus” che letteralmente sta a significare “pazzo”,
in realtà si riferisce ad un’ampia serie di concetti tra loro simili, ma nello
stesso tempo diversi (insanus, demens, mente captus, etc.).
La concezione ed il trattamento di tali soggetti ha subito col passare
dei tempi un'importante evoluzione: nell’esperienza romana i furiosi,
lontani dall’essere considerati “personae”, venivano assimilati piuttosto
alle “res” e assoggettati alla “potestas” del pater familias o degli adgnati e
gentiles, esclusivamente per fini di natura patrimoniale.
Per di più nell’antichità e presso i primitivi, la pazzia fu concepita a
volte come una vera e propria possessione demoniaca, altre volte come una
trasformazione psichica della persona (individuo pensante, senziente e
operante) ad opera di spiriti maligni, o della divinità che punisce, e
comunque come una colpa
8
.
Si assiste ad un normale uso dei termini riferiti alla follia con epiteti
ingiuriosi nei confronti dei nemici della religione cristiana come nel caso
del termine “empius”.
8
Voce “Pazzia”, in Enciclopedia del diritto, Giuffrè Editore, vol. XXVI, 1962.
25
Essi venivano altresì accusati di essere nemici di Cristo, e come tali
da perseguitare.
Nonostante le molteplici e divergenti teorie di pazzia, tutti la
consideravano come un’affezione cerebrale più o meno intensa, congenita
o acquisita, che conduce ad un'alterazione nella sensibilità, nell’intelligenza
e nella volontà dei malati
9
.
La disputa sul problema “Qui est furiosus?” vedeva come
protagonisti medici e filosofi ed aveva ad oggetto l’alternativa “furiosus vel
demens”.
In particolare la scienza medica voleva evitare che l’infelice
trattamento riservato ai furiosi venisse esteso anche ai dementes, cioè a
coloro che, benché incapaci mentalmente, non erano tali da poter rientrare
nella categoria dei furiosi.
Al contrario, i giuristi tendevano ad unificare le due categorie di
infermi di mente, prevedendo per loro un’unica regolamentazione.
In età postclassica si assiste ad un’inversione di tendenza, in quanto,
sulla base della constatazione che nel furiosus ricorrono momenti di
lucidità, si riconobbe rilevanza agli atti da questi compiuti, purché
temporaneamente capace d’intendere e di volere
10
.
9
VERGA A.,Studi anatomici, psicologici e freniatrici, vol. 3, Milano.
10
Giustiniano, nel 530, sancì al riguardo che la curatela non venisse a cessare, se ne sospendesse
l’esercizio: “Per intervalla, quae perfectissima sunt, nihil curatorem agere, sed ipsum posse furiosum,
dum sapit, et hereditatem adire et omnia alia facere, quae sanis hominibus competunt” (C, 5, 70, 6, 1).
26
Nel difficile confinium tra furor e sanitas e nella impossibile
sicurezza di una guarigione permanente, Giustiniano sembra essere risoluto
a trasformare la malattia mentale in una sorta di implicito status personale
definitivo, ove il libero alternarsi di lucidi “intervalla” e di periodi di
onnubilamento muta sensibilmente nella visione di una perdurante
situazione patologica, soltanto a tratti interrotta da parentesi di normalità e
dove, nel tendenziale rovesciamento del rapporto tra regole ed eccezione,
l’individuo risulta per sempre consegnato ad una curatela che lo segnerà
fino alla morte.
La persecuzione tocca anche la sfera lavorativa oltre che strettamente
personale cosicché si potrebbe parlare di interdizione; interdizione dallo
svolgere una qualsiasi attività di pubblico interesse.
Si pensi a quella di giudice o quella di tutore.
Nel diritto romano, lo stato di alienazione mentale non viziava la
nomina al tutore e nemmeno faceva venir meno la carica di praetor o di
praeses provinciale, tanto che la designazione di un giudice era considerata
valida anche “Cum furiosus index addicitur” nell’ipotesi di furor
superveniens, perché una volta ritornato in senno, il giudice poteva rendere
normalmente la sentenza.
L’evoluzione legislativa, dottrinale e giurisprudenziale nel periodo
del 4° secolo E.V., aveva esorcizzato la malattia mentale dalla ratio
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sacrale-punitiva, ma l’avvento del potere cristiano sugli atti di governo
ripristinò alcuni elementi sacrali nella considerazione del folle.
Le varianti al concetto di alienazione mentale con l’andare dei tempi
si sono moltiplicate, ma non furono così radicali come in generale si
ritiene.
Aumentate le conoscenze anatomiche e fisiologiche del sistema
nervoso, nessuno più dubitò dei rapporti necessari fra pazzia e cervello.
In Italia prevalse, l’opinione che nella definizione della pazzia
dovesse essere implicito il concetto di personalità.
La pazzia, dunque, è un’alterazione di tutta la personalità psichica,
dipendente da una originaria anomalia.
Il pazzo, avendo compromessa l’intera personalità, porta in sé come
contrassegno specifico la “necessità dell’azione”.
Non si ammettono in psichiatria pazzie parziali, come accadeva un
tempo.
Il pazzo può compiere azioni logiche, utili per sé stesso ed
armonizzate con la comune esperienza; però nell’insieme della sua
condotta appare non integra la disposizione seriale degli atti e quindi
l’azione nel suo complesso risulta disarmonica rispetto a quella degli altri e
comporta un'imprevedibile perdita dell’autonomia.