6
nell’individuazione dei significati sottesi a questi racconti della cultura folklorica.
Si prende in considerazione anche la produzione di dicerie popolari tipiche
dell’Europa preindustriale, al fine di permettere un raffronto tra immaginario
antico ed immaginario moderno.
Il passo successivo, rappresentato dal secondo capitolo, è quello di individuare le
proprietà caratteristiche delle leggende contemporanee, sovente denominate
anche “metropolitane”, in quanto la città rappresenta per l’uomo di oggi una sorta di
teatro metaforico entro il quale si materializzano anche paure ed angosce; le
stesse rappresentate dalle storie prese in esame. Vengono identificati i filoni
tematici più rilevanti, fornendo spunti interpretativi ed esempi di racconti
particolarmente rappresentativi e diffusi, con l’intento di dimostrare che molto
spesso nel presente si diffondono rielaborazioni di leggende, fiabe e miti antichi.
Tutto ciò, senza propositi utopisticamente esaustivi, in quanto esiste una casistica
vasta ed estremamente fluida di varianti e sottovarianti costruite attorno alle
matrici narrative principali.
L’area di maggior approfondimento di questa sezione riguarda un tema di grande
rilevanza sociale: la rappresentazione della diversità attraverso l’analisi delle
leggende sull’AIDS e sugli stranieri immigrati.
Il terzo capitolo propone una riflessione sui perché dell’esistenza delle leggende
metropolitane, ossia sulle funzioni psicologiche e sociali che esse assolvono.
I tentativi di spiegazione che qui vengono avanzati sono accompagnati da
esemplificazioni tratte dal materiale presentato nel secondo capitolo, al fine di
poter avanzare conclusioni generalizzabili quanto meno a particolari famiglie di
narrazioni tra loro assimilabili.
Le pagine del quarto capitolo approfondiscono le modalità di diffusione delle
leggende contemporanee, individuate sia nella circolazione orale diretta, oggi
facilitata dalle grandi possibilità di spostamento delle persone, sia nell’azione
operata dai mass media., in grado di aumentare notevolmente il potenziale di
credibilità delle curiose storie che appartengono al folklore contemporaneo.
7
Si forniscono elementi di psicologia sociale che esplicitano le dinamiche relazionali
che si sviluppano tra narratore ed ascoltatori nella narrazione orale.
8
I. LA LEGGENDA COME OGGETTO DI STUDIO
I.1. Che cosa sono le leggende? Una definizione preliminare
Lo studio delle leggende rientra in quello più generale che ha come oggetto
d’attenzione il folklore, sviluppatosi a partire dalla metà del XIX secolo.
Il termine folklore, derivato dall’unione dei termini inglesi folk e lore, si
riferisce alle tradizioni ed alle credenze popolari ed investe la vasta
fenomenologia della produzione culturale orale, comprendente anche poesia,
canto, fiabe, miti, conoscenze tecniche e onomastica.
La materia folklorica si costituisce attorno ad un tema necessariamente
condiviso tra i membri di una comunità, all’interno della quale non risulta
peraltro possibile distinguere tra produttori e fruitori come ruoli separati.
Essa si presenta sempre in forma labilmente definita, in quanto, a causa della
modalità orale di trasmissione, si modifica continuamente attorno ad un nucleo
centrale fisso.
Italo Calvino
1
, a proposito delle sue ricerche sulle fiabe italiane, si riferisce a
questa peculiarità parlando della natura tentacolare di fenomeni che si
presentano in infinite varietà, ripetendosi infinitamente.
Nell’ambito delle narrazioni folkloriche, le storie che potrebbero essere vere
vengono chiamate leggende. Queste sono efficacemente definite da Toschi
2
come: “nuclei di verità creduta o effettiva che vengono trasfigurati dalla
fantasia”.
Esse si sviluppano quindi in un processo di rifinizione narrativa di voci, scarne
notizie (vere o false che siano), delle quali esprimono una sorta di
rappresentazione scenica.
A differenza di manifestazioni contigue, come miti, racconti fantastici e fiabe,
le leggende presentano circostanze ambientali e storiche circoscritte, sono
1
Italo Calvino, introduzione in “Fiabe italiane”, Milano, Mondadori, 1968, p. 13.
9
maggiormente vincolate ai principi di coerenza logica e pressione sociale, hanno
come protagonisti uomini normali in cui l’ascoltatore possa riconoscersi;
possiedono elementi di credibilità più o meno convincenti.
I generi folklorici non sono facilmente separabili in modo netto: si fondono con
estrema facilità. Paiono utilizzare una sostanza comune, come sostiene Lévi
Strauss
3
a proposito di mito e fiaba, senza che nessuno dei due possa vantare la
priorità, avendo tra loro un rapporto di complementarità.
Se la fiaba è considerabile come “Mito in miniatura, in cui le stesse opposizioni
sono riportate in scala ridotta”
4
, ci sentiamo di estendere l’osservazione anche
alla leggenda, avendo con questa molti punti di contatto.
L’interesse scientifico verso la leggenda deriva storicamente proprio dagli studi
sul mito, nell’ambito di due scienze gemelle, etnologia e folklore, che esaminano
un oggetto comune (la cultura orale) con comuni metodologie. La distinzione tra
le due si rileva sui confini tra le società prive di scrittura ed il mondo europeo –
occidentale.
L’interpretazione di questa fenomenologia sociale è oggi analizzabile attraverso
quella che risulta essere una scienza di sintesi, la quale si avvale del contributo
di numerose discipline, tra cui sociologia, linguistica, semiotica, psicoanalisi,
storia ed etologia.
Verso queste materie si indirizza perciò la ricerca di strumenti analitici atti ad
intraprendere un efficace percorso di comprensione dell’oggetto in questione.
2
Paolo Toschi, Guida allo studio delle tradizioni popolari, Torino, Boringhieri, 1962, p.125.
3
Claude Lévi Strauss, La struttura e la forma. Riflessioni su un’opera di V. Propp, in V. Propp,
“Morfologia della fiaba”, Torino, Einaudi,1966, p.183.
4
Ibidem.
10
I.2. Strumenti teorici per l’interpretazione delle leggende
I.2.1. Gli studi di Propp sulla fiaba
Nel precedente paragrafo si è accennato alla sfumata demarcazione esistente
tra i diversi tipi di narrazione folklorica. Si avverte pertanto la necessità di
fare riferimento all’autore maggiormente citato negli studi che trattano il
genere fiaba, considerato un precursore nell’ambito delle scienze
antropologiche: Vladimir Propp (1895–1970), folklorista russo, che compì diverse
ricerche sulle letterature popolari.
Delle sue opere senz’altro la più importante risulta essere Morfologia della
fiaba (1928) dove, prendendo le distanze dagli studi precedenti, ricerca un
sistema di classificazione che permetta di chiarire cosa sia l’oggetto d’analisi in
questione, prima di valutarne le origini.
L’autore
5
critica le precedenti indagini che individuano ripartizioni viziate da
classi non esclusive né esaustive, basate su raggruppamenti per motivi o per
intrecci.
Ciò che lo studioso russo propone è un’analisi di tipo morfologico in cui vengono
identificati gli elementi costitutivi o strutturali della fiaba, che ha definito
“funzioni”, identificabili con i significati o con i valori delle azioni compiute dai
personaggi in base alle conseguenze che queste producono nella trama.
Le funzioni narrative sono fattori costanti che restano tali pur nel variare delle
azioni dei personaggi, delle circostanze narrative, degli intrecci; sono limitate e
si succedono sempre nello stesso ordine, anche in assenza di alcune di esse.
Sostiene Propp
6
che: “…le funzioni sono straordinariamente poche e i personaggi
straordinariamente numerosi. Ciò spiega l’ambivalenza della favola: la sua
sorprendente varietà, la sua pittoresca eterogeneità, da un lato, la sua non meno
sorprendente uniformità e ripetibilità, dall’altro.”
5
Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, Torino, Einaudi, 1966, p.12.
6
Vladimir Propp, op. cit., pp. 26, 27.
11
Tutte le favole di magia hanno perciò struttura monotipica: è possibile costruire
una narrazione con tutte le parti morfologiche ed altre che ne sono dei
sottotipi.
La specifica analisi che viene operata sulla fiaba rivela l’imposizione di un
determinato ordine nel suo sviluppo narrativo, con la presenza di un margine di
libertà. Questo si manifesta nella scelta dei personaggi che sorreggono le varie
funzioni, negli attributi dei personaggi stessi, nelle motivazioni degli intrecci.
Risulta possibile, ai fini del presente lavoro, scegliere tra le 31 funzioni
individuate dall’autore
7
quelle che a nostro avviso potrebbero trovare riscontro
anche nella fenomenologia della leggenda contemporanea:
• Funzione I: uno dei membri della famiglia si allontana da casa.
• Funzione II: all’eroe è posto un divieto.
• Funzione III: il divieto è infranto.
• Funzione IV: ricognizione dell’antagonista.
• Funzione VI: l’antagonista tenta di ingannare la vittima per impadronirsi di
lei o dei suoi averi.
• Funzione VII: la vittima cade nell’inganno e favorisce involontariamente il
nemico.
• Funzione VIII: l’antagonista arreca danno o menomazione ad uno dei membri
della famiglia.
8
• Funzione XII: l’eroe è messo alla prova.
• Funzione XII: l’eroe regge/non regge alla prova.
• Funzione XVI: l’eroe e l’antagonista ingaggiano la lotta.
• Funzione XVII: all’eroe è impresso un marchio.
• Funzione XVIII: l’antagonista è vinto.
• Funzione XIX: è rimossa la sciagura o la mancanza iniziale.
Pur trattando un genere differente, l’analisi operata da Propp fornisce uno
strumento utile soprattutto nel momento in cui è necessario effettuare
7
Vladimir Propp, op. cit. pp. 31-75.
8
Riguardo le funzioni VI, VII e VIII, da notare che sia fiabe che leggende sono dense di episodi che
narrano di rapimenti attuati attraverso forme d’inganno.
12
comparazioni tra leggende differenti tra loro per contenuto, ambientazione e
provenienza.
I.2.2. Lévi Strauss e l’antropologia strutturale
Le ricerche compiute dall’etnologo francese Claude Lévi Strauss (1908, vivente)
si sono indirizzate prevalentemente sulle società prive di scrittura, in
precedenza definite come “primitive”. Il lavoro di questo autore è centrato
sull’analisi dei meccanismi mitopoietici, visti come schema di base dell’attività
culturale esposta all’osservazione dell’antropologo.
Elaborando una prassi estrapolata dalla linguistica, egli applica una metodologia
di tipo strutturale allo studio delle realtà umane. Le costanti universali delle
società non devono essere individuate, secondo questa prospettiva, in ciò che le
culture hanno in comune, ma nel carattere delle relazioni intercorrenti tra le
variabili che le qualificano.
Secondo lo stesso Lévi Strauss
9
, lo strutturalismo essenzialmente consiste nella
ricerca di elementi invarianti in mezzo a differenze superficiali, osservando che
il numero dei procedimenti a cui ricorre la natura è limitato e che le sue leggi
sono traducibili in formule e schemi riscontrabili in vari livelli di realtà.
Le “strutture dello spirito umano”, denominate anche come “inconscio”, sono
pertanto individuabili a prescindere dalle variazioni meramente contingenti dello
sviluppo storico.
Nell’analizzare le manifestazioni folkloriche l’etnologo francese si preoccupa
però di prendere le distanze dal formalismo e da Propp, colpevole di indirizzarsi
erroneamente solo sulle regole che governano la concatenazione delle parti,
trascurando i personaggi, gli attributi e le motivazioni che sorreggono le
funzioni.
9
Claude Lévi Strauss, Mito e significato, Il Saggiatore, Milano, 1980, p. 22.
13
Nelle favole come nei miti nulla può restare estraneo alla struttura, essendo
questi considerabili come metalinguaggio, un codice dove la scelta del lessico è
portatrice di significato.
Lévi Strauss
10
esemplifica questa impostazione chiarendo che: “…in una fiaba un
re non è soltanto un re e una pastora, pastora, ma che queste parole e i
significati che esse rivestono diventano mezzi sensibili per costruire un sistema
intelligibile formato dalle opposizioni maschio/femmina (a livello naturale) e
alto/basso (a livello sociale).”
Se dunque ci si trova di fronte ad una forma di linguaggio, il compito del
mitologo è quello di interpretare, cioè tradurre il significato in un altro codice,
comprensibile al pensiero razionale.
Il mito stesso assume quindi la valenza di sistema simbolico, senza che le sue
regole siano postulate dall’esterno, capace di dare significazioni comuni ad
elaborazioni inconsce. Caratteristica infatti è la creazione a carattere
collettivo, e la fruizione individuale di un messaggio che sembra non provenire da
nessuna parte, ma che si proietta oltre la percezione cosciente attivando
riorganizzazioni psichiche.
Si insiste particolarmente sul paragone esplicativo tra mito e musica, i quali
chiamano in causa strutture mentali comuni a tutti gli uomini, pur sviluppandosi
in direzioni diverse: il primo sottolinea l’aspetto del senso, la seconda mettendo
in rilievo l’aspetto sonoro.
Afferma l’autore
11
che: “sono soprattutto gli aspetti neuropsichici che la
mitologia chiama in causa, grazie alla lunghezza della narrazione, alla ricorrenza
dei temi, alle altre forme di parallelismi e ritorni che esigono che la mente
dell’uditore spazi nel campo del racconto, a mano che esso si dispiega di fronte a
lui.”
Caratteristiche simili sono individuabili nelle forme del linguaggio musicale, il
quale si pone verso l’uditore manifestando un forte potenziale d’attrazione,
10
Claude Lévi Srauss, La struttura e la forma. Riflessioni su un’opera di V. Propp, in V. Propp,
“Morfologia della fiaba”, Torino, Einaudi, 1966, p.197.
11
Claude Lévi Strauss, Il crudo e il cotto, Mondadori, Milano, 1992, p. 33.
14
esattamente come le narrazioni folkloriche, che assolve la funzione di agevolare
il contatto comunicativo.
La natura iperbolica, mutevole, e ridondante del pensiero mitico ne riflette
l’incapacità a fondersi con l’oggetto del suo discorso. Non ha un punto di
partenza, non effettua percorsi interi; si deve comunque manifestare in modo
ripetuto, come una liturgia.
“L’unità del mito è solo tendenziale e proiettiva: non riflette mai uno stato o un
particolare momento”, osserva Lévi Strauss
12
.
Risulta impossibile quindi comprendere il mito come una sequenza continua; non
bisogna cercare di leggerlo come un romanzo, bensì come la partitura di un tema
orchestrale con variazioni, la quale si sviluppa in senso sia longitudinale, sia
trasversale.
La scienza che si occupa di queste fenomenologie studia innanzitutto i raggi
riflessi e rifratti che da esse si propagano, utilizzando quale strumento ogni
manifestazione dell’attività mentale e sociale che si riveli idonea ad integrarle
ed illuminarle.
Considerando le espressioni folkloriche come caratterizzate da un rapporto di
intelligibilità reciproca, gli aspetti delle narrazioni che risultano oscuri vanno
trattati in modo ipotetico e preliminare come trasformazioni di aspetti omologhi
di altre manifestazioni mitiche.
Appare chiaro come gli strumenti proposti da Lévi Strauss costituiscano un
significativo passo avanti rispetto all’analisi morfologica di Propp, la quale risulta
utile solo ai fini della semplice comparazione.
L’etnologo francese introduce ad un metodo di analisi interpretativa, la cui
portata è a nostro avviso estendibile a tutte le forme di narrazione folklorica,
perché guidate dalla stessa forma di pensiero. Una forma di pensiero che si
sviluppa nell’uomo a sua insaputa, ed esige che le sue proprietà rimangano celate:
il mitologo non può credere ai miti, in quanto si applica a sezionarli e metterli in
relazione con la vita sociale ed interiore dell’essere umano.
12
Claude Lévi Strauss, op. cit. p. 19.
15
I.2.3. Il mito è parola. Riflessioni dei linguisti riguardo il folklore
Nel paragrafo precedente si è posta in evidenza la concezione di Lévi Strauss,
secondo la quale il mito è da considerarsi come sistema di comunicazione.
L’autore sviluppa a proposito temi propri della linguistica, la quale considera la
mitologia come frammento della semiotica, in quanto attraverso essa viene
studiata la produzione, la trasmissione e l’interpretazione dei segni.
Questa scienza
13
postula l’equivalenza nel materiale mitico tra significato e
significante, dove quest’ultimo, caricato di valenza definitiva, diventa un segno
portatore di senso.
In questo processo il linguaggio codificato assume il ruolo di attività simbolica
modellizzante che funge da supporto per il sistema di segni proprio della
mitologia.
Jakobson, mettendo in rilievo che la nascita del tema folklorico si realizza solo
con l’avvenuto suo accoglimento da parte di una comunità, considera la cultura
orale popolare come luogo di conservazione di una memoria spontanea e
originaria.
“Ci si accorge… di come le testimonianze folkloriche affondino le loro radici in
un tempo molto più lontano ed abbiano una diffusione nello spazio molto più
ampia di quanto non si credesse”, nota il linguista russo
14
.
Il patrimonio tradizionale formato da modelli e credenze agisce quindi
all’interno dei testi comunicativi determinando assetti tematici ed organizzando
le parti del discorso.
Esiste pertanto una sorta di scrittura sociale, il folklore, il quale si sviluppa
attraverso il parlato colloquiale, talvolta contrapponendosi alla cultura ufficiale
ed alla cultura di massa.
Osserva Caprettini
15
che: “la capacità di narrare la propria cultura prescinde
dalle opere letterarie e dalla presenza di un’élite colta. Ciò è garantito dal
13
Roland Barthes, Miti d’oggi, Torino, Einaudi, 1994, pp. 195-196.
14
Roman Jakobson, Magia della parola, Laterza, Bari, 1980, pp.13-14.
15
Gian Paolo Caprettini, Simboli al bivio, Palermo, Sellerio, 1992, p. 30.
16
carattere cooperativo del sistema di consuetudini e credenze, riflesso dalla
fenomenologia orale della ripetizione: uno stesso avvenimento può essere
raccontato più volte.”
Ed è proprio nel parlato colloquiale che per Barthes
16
si creano i luoghi comuni,
nati da esperienze storicizzate, a cui verranno ricondotti avvenimenti
successivi, per i quali l’interpretazione è bloccata dall’assegnazione ad un
repertorio stereotipato.
Oltre ad aver ispirato le metodologie proprie dell’antropologia strutturale, la
linguistica e la semiologia pongono il linguaggio al centro dei processi di
sedimentazione delle esperienze collettive e dunque lo considerano come il
depositario della tradizione e della memoria sociale.
I.2.4. L’interpretazione psicoanalitica di miti e simboli
La scuola psicoanalitica si è largamente dedicata allo studio delle figure mitiche
e fiabesche, considerando queste raffigurazioni, al pari dei sogni, come
manifestazione dell’attività inconscia.
Secondo tale concezione, processi soggettivi (pulsioni, angosce, esperienze
perdute o al di fuori della coscienza) vengono trasferiti su oggetti, attraverso
meccanismi proiettivi, rispondendo ad un bisogno psichico di funzionamento
espressivo.
Le forme comuni di rappresentazione si costituiscono, secondo Kaes
17
, grazie ad
organizzatori socioculturali, i quali risultano essere codici che permettono
l’elaborazione simbolica del nucleo psichico inconscio, operando quindi la
transizione del sogno verso l’immaginario collettivo.
Tanto il sogno, quanto miti, fiabe e leggende utilizzano quindi il linguaggio
simbolico, considerato da Fromm l’unico vero codice universale che sia mai stato
creato dall’uomo.
16
Roland Barthes, “Luogo comune”, in Enciclopedia, vol. VIII, Einaudi, Torino, 1979, pp.571-583.
17
René Kaes, Psicoanalisi e rappresentazione sociale, in “Le rappresentazioni sociali” (a cura di D.
Jodelet), Napoli, Liguori, p. 122.
17
Afferma lo psicoanalista tedesco
18
che: “nel linguaggio simbolico le esperienze
interiori, i sentimenti e i pensieri vengono espressi come se fossero esperienze
sensoriali, avvenimenti del mondo esterno.”
Le espressioni folkloriche, come le religioni e le ideologie, utilizzano simboli di
tipo universale, condivisi entro una comunità, nei quali esiste una relazione
intrinseca con gli oggetti che rappresentano o che sono radicati nel vissuto
percettivo di ogni essere umano. Per esemplificare, si può dire che l’immagine di
un deserto ha una relazione significativa con uno stato d’animo di smarrimento e
di ansietà. Nell’oggi, la stessa sensazione di turbamento è associata alla
rappresentazione della periferia di una città, deserto contemporaneo nel quale
l’uomo sperimenta e vive lo stato di solitudine in mezzo ad una folla anonima ed
impersonale.
È possibile a questo punto sottoporre alla nostra attenzione il modo in cui i due
maggiori autori della scuola psicoanalitica trattano le tematiche connesse
all’oggetto della nostra analisi.
Sigmund Freud (1856-1939) pone all’origine delle espressioni folkloriche, come
di quelle artistiche, angosce e paure di tipo primario (riferibili cioè alla prima
infanzia), pulsioni inconsce che si manifestano in forma contraffatta, aggirando
la censura morale. In molti casi mito, fiaba e leggenda sono quindi considerati
dal padre della psicoanalisi come espressioni simboliche arcaiche, una forma di
regressione a stadi precedenti dello sviluppo umano.
Nel saggio “Il perturbante”, del 1919, Freud tratta in modo specifico le paure
condivise che sono alla base di molte voci popolari di ogni tempo ed ogni luogo.
Sulla base del presupposto secondo cui un’emozione relegata nell’inconscio
genera angoscia, con il termine “perturbante” l’autore identifica ciò che è
spaventoso, inquietante ed allo stesso tempo familiare. Questa sensazione si
verifica quando complessi infantili rimossi sono richiamati in vita da
un’impressione, o quando convinzioni primitive superate sembrano aver trovato
una nuova convalida.
18
Eric Fromm, Il linguaggio dimenticato, Milano, Bompiani, 1994, p.16.
18
Scrive Freud
19
: “Oggi abbiamo superato questi modi di pensare, ma non ci
sentiamo completamente sicuri di queste nuove convinzioni; le antiche
persuasioni sopravvivono ancora in noi e sono in agguato in attesa di conferma.
Ora, non appena nella nostra esistenza si verifica qualcosa che sembra
confermare questi antichi convincimenti, abbiamo il senso del perturbante.”
Vengono così individuate le situazioni, frutto di eventi casuali o di elaborazioni
fantastiche, che producono la sensazione di disagio interiore descritta dallo
studioso austriaco
20
:
♦ le condizioni di ambiguità tra animato e inanimato, quando ci si trova di
fronte ad automi, pupazzi e bambole particolarmente verosimiglianti;
♦ gli attacchi epilettici o di pazzia, nei quali si riconoscono forze irrazionali
presenti in sé stessi;
♦ gli eventi che causano lesioni o la perdita degli occhi, considerati come
sostituto della paura dell’evirazione;
♦ casi di sepoltura di persone vive, i quali richiamano i fantasmi dell’esistenza
intrauterina;
♦ il tema del doppio, il quale nel bambino costituisce una forma rassicurante di
narcisismo primario, ma che nell’adulto funge da osservatore critico della
personalità;
♦ stati in cui parti del corpo staccate agiscono indipendentemente, anch’essi
riferibili all’angoscia di castrazione;
♦ le ripetizioni di eventi, vissute come coazione generante senso d’impotenza;
♦ l’espressione di presentimenti, una sorta di paura dell’intenzione di nuocere,
considerato come residuo di forme di pensiero magico;
♦ il ritorno dei defunti, che richiama l’angoscia di morte.
Questi temi, rileva lo psicoanalista, sono largamente utilizzati nella letteratura,
al fine di creare effetti emotivi che coinvolgano il lettore.
19
Sigmund Freud, il perturbante, in “Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio”, Milano,
Boringhieri, 1969, p. 301.
20
Sigmund Freud, op. cit., pp. 306-309
19
Osserva, sul finire di quest’opera, che comunque ci troviamo maggiormente
esposti ad un effetto perturbante quando il confine tra fantasia e realtà si fa
labile; quando nell’esperienza tangibile si presenta un elemento che si credeva
immaginario.
Questa ultima osservazione ci pare particolarmente utile alla luce delle
peculiarità della leggenda come forma narrativa, la quale presenta una forte
caratterizzazione realistica, e che viene presentata come fatto vero.
Carl Gustav Jung (1875-1961) concepisce una visione della psiche umana
caratterizzata da un inconscio individuale costituito dai contenuti esperienziali
personali un tempo coscienti e poi rimossi, il quale si poggia su uno strato più
profondo rappresentato dall’inconscio collettivo, impersonale e universale che
deve la sua esistenza all’ereditarietà. Si tratta di una componente psichica
comune, geneticamente determinata dalla configurazione degli istinti che
trascende le esistenze individuali ed orienta i comportamenti degli uomini.
I contenuti dell’inconscio collettivo sono gli archetipi, forme definite di pensiero
presenti sia nei sogni, nella mitologia, nelle tradizioni religiose, che nei deliri
caratteristici delle malattie mentali; essi si rilevano in ogni cultura ed in ogni
epoca e, seppur celati da elaborati travestimenti, anche nella moderna civiltà
razionalistica.
Scrive Jung
21
: “Ogni fase storica deve portare con sé una nuova interpretazione
del copione di base degli archetipi per collegare la vita presente con ciò che
resta in noi della vita passata…Se ciò non avviene si producono coscienze
sradicate e disorientate, alla mercé di ogni suggestione.”
La natura di queste conformazioni mentali è dunque processuale; il loro è un
eterno gioco a formarsi e trasformarsi: si adattano nella loro apparenza alla
situazione del momento.
21
Carl Gustav Jung, Karoly Kerenyi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino,
Bollati Boringhieri, 1972, p.117.