Ben presto arrivò il 1926 e gli schermi di tutte le sale furono invase dal primo film sonoro, Don
Juan, che vedeva l’intera colonna sonora registrata su un disco a parte, fatto partire in sincrono
insieme al proiettore. L’anno dopo fu la volta de Il cantante di jazz, sonorizzato solamente in parte e
finalmente nel ’29 Lights of New York, primo film completamente sonoro. Come molte nuove
tecnologie l’ingresso del sonoro all’interno del mondo cinematografico fu più problematico del
previsto, soprattutto per gli stessi addetti ai lavori. Molti attori furono sostituiti da colleghi
provenienti dal mondo di Broadway, altri, di straordinaria fama all’interno del ventennio del muto,
non riuscirono a conservare il loro successo (Buster Keaton); stessa sorte toccò a numerosi registi,
scartati perché ritenuti incapaci di girare una scena con un dialogo vero e proprio; infine vi erano gli
spettatori, abituati ai momenti di sospensione delle didascalie dove potevano ottenere la spiegazione
degli eventi narrati. E inoltre vi erano i problemi dei costi di lavorazione. Il filone del cinema
d’animazione, costi a parte, fu l’unico ad ottenere univocamente un immediato miglioramento dalla
nuova tecnologia del sonoro. Da sempre l’animazione aveva fatto a meno delle didascalie e quindi
dei dialoghi, risolvendo il racconto squisitamente sul piano figurativo e ritmico; il nuovo mezzo
aiutò a rafforzare le immagini laddove il ritmo visivo lo richiedeva, di ottenere anche dal sonoro
quegli effetti drammatici, comici, “poetici” che le immagini suggerivano, di sottolineare i momenti
di maggior tensione spettacolare. La formula fu da subito vincente, tanto che rimase la stessa per un
lunghissimo periodo, se si fa eccezione per i lungometraggi. Fu nel ’33, grazie alla composizione di
Max Steiner per King Kong (Cooper - Schoedsack), che nel cinema tradizionale divenne ben presto
chiaro a tutti quali risultati si potevano ottenere grazie ad una colonna sonora originale montata in
stretta sincronia con le immagini. Così l’industria degli Studios iniziò a mettere sotto contratto
compositori provenienti dalle più diverse aree musicali: da Broadway come dalla radio, passando
addirittura per l’opera.
Ovviamente non si fecero attendere le prime osservazioni teoriche sulle capacità espressive del
nuovo mezzo come il lavoro di Adorno ed Eisler. Ma fu il manifesto pubblicato da Ejzenstejn,
Pudovkin e Aleksandorv il primo a cercare di determinare le regole d’utilizzo della tecnologia
sonora. I tre cineasti russi condannarono l’uso, tipicamente hollywoodiano, di una colonna sonora
abusata per soddisfare il bisogno di novità degli spettatori. Definirono “cinema parlato” i film dove
la voce coincideva nella maniera più esatta e più realistica con i movimenti delle labbra, un tipo di
cinema che ben presto avrebbe conosciuto la decadenza non appena il pubblico si fosse abituato al
nuovo mezzo (o almeno questo i tre cineasti prefiguravano), e che minacciava letteralmente di
invadere la scena del teatro, poiché da questo non tanto si discostava. Così utilizzato il sonoro era
visto come una minaccia per il montaggio, la vera fonte cinematografica per Ejzenstejn e compagni.
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Il contrappunto invece avrebbe offerto alle immagini nuove e più perfette forme proprio al
decoupage.
E proprio sulla capacità di realizzare il cinema attraverso l’uso sapiente del montaggio sonoro, e in
special modo della musica, che si concentra l’attenzione di queste pagine. Ejzenstejn e compagni
dividevano le capacità del montaggio sonoro all’interno di due singole sfere ben separate l’una
dall’altra, il film parlato e il contrappunto, e, vista la standardizzazione dei processi produttivi del
periodo il discorso sulle potenzialità della musica all’interno del mondo cinematografico poteva
dirsi pressoché concluso. Ma già dal 1949 il compositore Aaron Copland suggeriva cinque tipologie
diverse di funzioni della musica da film. L’autore di Fanfare for the common man attribuiva
innanzitutto alla colonna sonora le capacità di restituire un’impressione più convincente sul luogo e
sull’epoca in cui le vicende narrate dal film erano ambientate: oriente/occidente,
contemporaneo/vecchio/antico, colto/popolare e via dicendo. Successivamente era elogiata la dote
principale della musica di sottolineare le raffinatezze psicologiche dei pensieri dei personaggi e le
loro implicazioni sentimentali; infine seguivano tre operazioni fondamentali che una colonna sonora
permetteva (e permette) all’interno della costruzione della narrazione cinematografica: il silenzio, la
continuità e la costruzione teatrale di una scena. Famoso l’aforisma di Bresson secondo cui il
cinema sonoro ha introdotto il silenzio: ogni luogo ha il proprio silenzio specifico (la casa, la strada,
il parco) ed è necessario registrarlo “in loco” per non rischiare di snaturare la visione naturalistica
che si cerca di restituire. Un silenzio inquietante è quello di Psycho, quando continuiamo a sentire il
rumore dell’acqua che cade dopo l’omicidio di Marion nella doccia; alla furia omicida fa seguito
una calma (e un silenzio) irreale. Le capacità della colonna sonora di costituire un riempitivo neutro
di sottofondo, permettendo così la creazione del silenzio, sono le stesse che avevano portato ai
tempi dei nickelodeon i gestori delle sale ad ingaggiare musicisti per intrattenere i fruitori dei propri
spettacoli, con la sola differenza che, mentre prima il discorso valeva per la realtà della sala, quella
che esisteva davanti allo schermo cinematografico, fuori da esso, ora invece si spostava anche
all’interno della realtà diegetica, dentro lo schermo. Senza fare troppi salti indietro pensiamo a film
contemporanei come The hours (Daldry), Carrington (Hampton) o il nostrano Le conseguenze
dell’amore (Sorrentino). Film dai tempi molto dilatati, che lasciano spazio alle riflessioni dei
personaggi, riflessioni che non sempre ci vengono proposte da una voce over, ma che spesso invece
vengono lasciate all’interpretazione espressiva degli attori. E anche quando i dialoghi sono presenti,
sembrano quasi come sussurrati, come se non si volesse spezzare quell’atmosfera introspettiva
portata avanti dalla musica over presente in scena. La continuità proposta da Copland si riferisce
non solo alla capacità di sutura della colonna sonora all’interno di un’ellissi spaziale o temporale (i
ricordi sono ellissi temporali; un film come Amadeus di Milos Forman è costruito tutto su questa
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tecnica, così come Il marito della parrucchiera di Patrice Leconte), ma anche alla presenza di un
leitmotiv che, ridondante all’interno di un testo, fornisce coesione là dove al contrario la vicenda
può complicarsi e lo spettatore perdersi nel seguirla. Un esempio invece, sempre contemporaneo, di
costruzione teatrale di una scena può essere dato dalla caccia all’alce che apre L’ultimo dei
Mohicani di Michael Mann: gli attori escono ed entrano di scena a destra e a sinistra, molte volte
senza nessun rispetto dei raccordi visivi di montaggio, effetto questo che normalmente produrrebbe
una sorta di confusione nello spettatore; ma una musica dal ritmo concitato, unita alla rapidità che
contraddistingue i movimenti degli attori, non permettono al fruitore l’insorgere del dubbio. Sono
elementi questi che causano suspance e che portano quindi lo spettatore ad interrogarsi più che altro
sull’esito delle gesta dei protagonisti (o che cosa le ha determinate) più che su come queste
avvengono; inoltre una musica identica, in progressione, che accompagna i differenti personaggi
impedisce l’insorgere del dubbio di un eventuale scontro fra i tre protagonisti. Un esempio ancora
ulteriore può essere l’intera costruzione di American Graffiti di George Lucas, dove le vicende di
tanti ragazzi della stessa città sono tenute insieme dalle canzoni trasmesse da una stazione radio
sulla quale tutti gli eroi della serata sono sintonizzati.
Tutti questi comunque sono ruoli che vedono la musica in posizione sempre subordinata rispetto
alle immagini. Le risposte di cui la gente in sala ha bisogno vengono fornite principalmente dalla
stimolazione visiva, con un piccolo supporto da parte di quella sonora.
Negli anni ’60 Zofia Lissa con il suo Estetica della musica per film (Asthetik der filmmusik)
aumenta ad undici gli stilemi d’utilizzo della colonna sonora fra i quali emergono ruoli
maggiormente attivi adibiti alla musica per film come il simbolismo, l’immedesimazione,
l’anticipazione e la solita espressione delle vicende psichiche dei personaggi. Ma gli anni ’60 sono
il decennio durante il quale escono cinque dei più importanti film di Sergio Leone (Giù la testa è
del 1971) dove con l’aiuto di Ennio Morricone si portava avanti un discorso nuovo e, da un punto di
vista tecnico, sperimentale sulla colonna sonora. Riprendiamo la citazione all’inizio di queste
pagine. La musica come dialogo, le note al posto delle parole
E’ per questo che ricorro ai primissimi piani, per sottolineare gli sguardi, gli
occhi, perché spesso uno sguardo è molto più significativo di tante parole
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e per sostenerlo c’è bisogno di una colonna sonora efficace. Ecco che quindi le paure di Ejzenstejn e
degli altri cineasti russi si concretizzano invece in un film dove trova spazio un nuovo tipo di
montaggio, un “montaggio musicale”, pensato e creato già in fase di sceneggiatura, come nella
migliore tradizione sovietica. Ma Leone non sarà l’unico regista a pensare musicalmente ai propri
film, a costruire le proprie scene partendo da una musica a volte già esistente, a volte
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semplicemente pensata ma non ancora composta. Il 1964 è l’anno d’uscita del Dottor Stranamore
seguito quattro anni dopo da 2001 Odissea nello spazio. Nel 1971 sarà poi la volta di Arancia
meccanica e così via. Ma già i produttori si erano interessati all’argomento e avevano spinto i propri
compositori a comporre temi musicali che, sotto forma di canzoni, potessero essere venduti anche
come dischi. Uno dei primi successi fu la canzone Moon River, scritta da Johnny Mercer e Henry
Mancini per Colazione da Tiffany (1961) di Blake Edwards, che vendette più di un milione di copie.
Nel frattempo il cinema aveva già conosciuto gli effetti della “cura” Hitchcock che erano culminati
proprio nel 1960 con la scena dell’omicidio della doccia di Psycho, una scena che deve moltissimo
alla colonna sonora di Bernard Herrmann sia da un punto di vista emozionale sia da un punto di
vista formale. In Italia si rispondeva con la coppia Fellini – Rota. Non a torto Miceli definisce le
opere di Rota per il regista romagnolo dei veri e propri personaggi della narrazione: i brani del
compositore non solo marcano il racconto felliniano, ma, proprio come i protagonisti di questo
racconto, sono presenti quasi sempre a livello interno nel racconto del cineasta, guidando gli
intrecci dei personaggi (La strada), con effetti comici, come la fanfara dei bersaglieri ne Lo sceicco
bianco, o metafore dell’euforia e del fallimento disegnati in scena (I vitelloni). Proprio però per
questa loro costante caratteristica interna nel testo filmico, le sequenze musicali di Fellini-Rota non
verranno prese in considerazione in questo lavoro.
Con gli anni ’70 e successivamente con gli ‘80, la musica prese sempre più piede ad Hollywood. Fu
la volta di registi come Woody Allen in primis, accompagnato successivamente dai vari David
Lynch, Michael Mann e tutti gli esponenti del nuovo genere horror. Da un punto di vista
strettamente musicale, troviamo il compositore John Williams (stretto collaboratore di Spielberg),
proveniente non a caso dal mondo televisivo dove la produzione di motivetti orecchiabili in telefilm
o programmi di varietà aveva il compito di creare un maggior rapporto di filiazione nel pubblico.
Hollywood comprese l’antifona e diede vita alla formula blockbuster: azione + violenza + sesso +
effetti speciali + musica, prendendo sempre più come referente il giovane spettatore.
Contemporaneamente nel mondo della musica nascevano i videoclip e stazioni televisive come
Mtv. Infine cinema e musica si fusero insieme con l’obbiettivo di far fruttare sempre più soldi dai
loro prodotti.
Riassumendo quindi le poche nozioni storiografiche di queste pagine si evince come il ruolo della
musica nel mondo del cinema ha avuto un’importanza sempre più in crescendo, per un pretesto o
per l’altro. Per questo motivo in questo trattato si parlerà soprattutto di film contemporanei, molte
volte grandi blockbuster proprio per il ruolo strategico, artistico, ma anche commerciale riservato
alla colonna sonora. Non sarà un lavoro che procederà cronologicamente al contrario di quanto si
possa pensare, ma sarà un lavoro impostato sul rapporto immagine/musica seguendo i dettami
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