INTRODUZIONE
Il cervello è il motore che permette a tutti noi di agire nel mondo: la
sua attività è alla base di qualsiasi azione, pensiero, comportamento o
emozione di cui possiamo avere esperienza. Come ogni motore anche il
cervello ha bisogno di combustibile per funzionare: il principale è
l’ossigeno. I neuroni sono, tra tutte le cellule del nostro corpo, quelle che
ne utilizzano di più; basti pensare che di tutto l’ossigeno utilizzato dal
nostro organismo, circa il 20% è consumato dall’encefalo (Masamoto e
Tanishita, 2009). L’apporto continuo di questa sostanza è garantito dalla
più fitta rete di arterie, arteriole e capillari del nostro organismo.
In particolari situazioni patologiche questo rifornimento può venire
a mancare o risultare interrotto: la conseguenza è una rapida
modificazione strutturale e funzionale dell’area cerebrale interessata.
Bastano pochi minuti d’insufficiente perfusione sanguigna, perché la
popolazione neuronale inizi a morire e subentri un danno funzionale. Il
mancato apporto di sangue può essere l’esito di eventi distinti, tra i più
comuni vi sono: ischemia focale, emorragia cerebrale, anossia cerebrale
globale.
L’ischemia è causata dall’ostruzione di un’arteria che irrora il
tessuto cerebrale a causa di un trombo o di un embolo. L’emorragia
consiste, invece, nella fuoriuscita ematica a causa della rottura di un vaso
sanguigno cerebrale. In questo caso il danno avviene sia per il mancato
rifornimento ai tessuti cerebrali che si trovano oltre l’emorragia, sia per lo
spandimento di sangue intracranico. Questi eventi vascolari patologici
prendono il nome di accidenti cerebrovascolari o ictus; solitamente
interessano un’area circoscritta del cervello e portano alla necrosi del
tessuto neuronale interessato e di parte di quello perilesionale. L’entit{
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del danno strutturale e funzionale dipende dalle dimensioni dell’arteria
colpita, dalla quantità di flusso ematico residuo e dalla localizzazione
dell’area interessata.
L’interesse della neuropsicologia per gli accidenti cerebrovascolari
è sempre stato molto elevato, perché la selettività delle aree cerebrali
colpite coincide spesso con una selettività delle abilità deficitarie. È quindi
possibile, in molti casi, distinguere tra abilità compromesse e conservate e
stabilire una connessione causale tra aree cerebrali lesionate e deficit
cognitivi. Per questo motivo, dalla nascita della neuropsicologia a oggi, i
pazienti colpiti da ictus sono stati tra i principali soggetti di studio in
questo campo e hanno fornito preziose conoscenze riguardo
all’organizzazione funzionale del cervello e portato evidenze a favore o
sfavore di molti modelli teorici dei processi mentali.
Una situazione diversa occorre nel caso di anossia cerebrale
globale, in cui l’intero encefalo subisce un’interruzione della perfusione
sanguigna o dell’ossigenazione. Questa condizione è sopportata dal
cervello per un periodo che varia dai quattro agli otto minuti, oltre il
quale si verificano infarti cerebrali e diffusa morte neuronale. La mortalità
per questo tipo di eventi è molto elevata e la possibilità di sopravvivere è
fortemente legata alla rapidità con cui il paziente viene rianimato ed è
ripristinato il circolo regolare. A differenza di quanto avviene per i vari
tipi di ictus, il quadro neuropatologico delle aree cerebrali colpite è molto
variabile. Il cervello di questi pazienti ha subito una generale sofferenza
dovuta alla mancanza di ossigeno e nella maggior parte dei casi è presente
un danno globale, caratterizzato da morte di popolazioni di neuroni in
svariate aree corticali e sottocorticali. Diversi studi hanno cercato di
individuare quali siano le regioni più sensibili al mancato apporto di
ossigeno; oltre alle cosiddette “watershed areas”, sembra che l’area CA1
dell’ippocampo, alcune popolazioni di cellule del caudato, del talamo, dei
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nuclei della base, della neocorteccia e del cervelletto siano selettivamente
vulnerabili a brevi periodi di ischemia (Back e Hemmen, 2004). Rimane
comunque difficile fare un’analisi quantitativa per stabilire le dimensioni
delle lesioni, considerato che queste consistono principalmente in danni,
talvolta ultrastrutturali, selettivi a piccole popolazioni di neuroni e non a
intere aree cerebrali.
I danni funzionali associati all’anossia cerebrale sono molti, spesso
coesistono, sono di entità largamente variabile e riguardano sia la sfera
cognitiva sia quella comportamentale. Il disturbo cognitivo più studiato è
sicuramente l’amnesia, che colpisce circa la met{ dei pazienti; seguono i
deficit delle funzioni esecutive, anch’essi presenti in circa il 50% dei casi;
rallentamento ideo-motorio e problemi di attenzione; deficit visuo-
spaziali e rari disturbi del linguaggio (Caine & Watson, 2000; Hopkins &
Haaland, 2004; Anderson & Arciniegas, 2010). Inoltre sono spesso
presenti importanti cambiamenti comportamentali, emotivi e sociali
(Caine & Watson, 2000; Lim & Alexander, 2004). In campo clinico la
costellazione dei deficit cognitivi e neurologici che seguono un’anossia
cerebrale è chiamata comunemente encefalopatia post-anossica.
Nell’ambito della neuropsicologia clinica e sperimentale sono
presenti pochi studi riguardanti le sequele cognitive e comportamentali
dell’anossia cerebrale. Inoltre una parte consistente della letteratura per
anni si è focalizzata esclusivamente sui disturbi di memoria che possono
risultare da lesioni all’ippocampo conseguenti l’anossia, identificata per
decenni come la principale causa di sindrome amnesica isolata. Questa
convinzione ha portato in passato a ignorare o sottostimare la varietà
degli altri disturbi che coesistono nei pazienti post-anossici.
I motivi della carenza di studi neuropsicologici relativi alle sequele
dell’anossia cerebrale sono almeno due: presenza di un danno
generalizzato e non focale, alta variabilità della sintomatologia tra
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paziente e paziente. Per quanto riguarda il primo punto bisogna tenere in
considerazione che le alterazioni patologiche cerebrali sono spesso
relative a numerose popolazioni di neuroni localizzate in varie aree della
sostanza grigia, delle regioni sottocorticali e della sostanza bianca. Risulta
in questo modo limitata la possibilità di stabilire dei collegamenti tra basi
neurali e deficit funzionali riscontrati. In secondo luogo è presente una
consistente variabilità, quantitativa e qualitativa, dei disturbi cognitivo -
comportamentali che tendono a sovrapporsi e a creare un quadro clinico
spesso poco definito, nel quale la differenza tra abilità conservate e
compromesse è ridotta.
Se in parte queste ragioni limitano la portata di eventuali studi e
appaiono quindi comprensibili, non è chiaro invece come alcune delle
sintomatologie frequentemente presenti nei pazienti post-anossici, come i
disturbi delle funzioni esecutive, non vengano quasi mai prese in
considerazione nei lavori scientifici che trattano il disturbo specifico, a
favore di altre patogenesi (traumatica, neoplastica o ischemica focale).
Questa tendenza risulta ancora più criticabile, alla luce dei pochi studi che
hanno confrontato le prestazioni tra i pazienti post-anossici e quelli con
patogenesi differenti. Una ricerca di Cattelani (1998) mostra come
l’incidenza di comportamenti patologici osservati in un campione di 47
pazienti amnesici (tra i quali 12 post-anossici) non vari significativamente
secondo la natura eziopatogenica del deficit.
Una delle conseguenze dirette dello scarso interesse sperimentale
nei confronti di questa patologia è che alcuni domini cognitivi siano stati
raramente studiati in modo approfondito e formale. Ne risulta che una
buona parte delle conoscenze comuni sulle sequele cognitivo -
comportamentali nell’anossia cerebrale derivi dall’esperienza clinica,
basata sull’osservazione e sui resoconti di pazienti e familiari, più che
dalla letteratura scientifica. Ciò si riflette anche sulla valutazione dei
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deficit, per i quali, fatta eccezione per la memoria, sono poco utilizzati
strumenti formali e standardizzati.
Questo lavoro di tesi si articola in tre parti. La prima sarà incentrata
principalmente sulla revisione degli studi passati e recenti riguardanti i
pattern lesionali e gli esiti neuropsicologici di anossia cerebrale. La
seconda tratterà nello specifico le funzioni esecutive e la cognizione
sociale e gli strumenti atti a valutarle. La terza parte descriverà uno studio
che abbiamo effettuato presso il Presidio Ospedaliero Villa Rosa di
Pergine, su cinque pazienti con diagnosi alla dimissione di encefalopatia
post-anossica, nella quale l’attenzione sar{ puntata in particolare sulle
alterazioni delle funzioni esecutive e della cognizione sociale.
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CAPITOLO 1
Anossia Cerebrale
Abbiamo gi{ definito l’anossia cerebrale come quella situazione in
cui l’encefalo subisce un disturbo globale della perfusione o
dell’ossigenazione. I neuroni svolgono un’attivit{ metabolica incessante,
ma non sono in grado di immagazzinare ossigeno (Kuroiwa & Okeda,
1994). Perché l’encefalo funzioni correttamente, è necessario perciò un
costante rifornimento di questa sostanza: il mancato apporto conduce in
brevissimo tempo allo stato di coma e, nel giro di quattro – otto minuti,
alla progressiva morte di popolazioni di neuroni e al conseguente
danneggiamento irreversibile del tessuto cerebrale.
Il termine anossia si utilizza per indicare una cessazione
dell’apporto di ossigeno al cervello a prescindere dalle cause che l’hanno
scatenata. La mortalità si attesta intorno al 67% e la patogenesi principale
è l’arresto cardio-circolatorio; gli uomini sono generalmente più colpiti
rispetto alle donne con un rapporto di 2:1 e l’et{ media di insorgenza è di
65 anni (Nadkarni e Larkin, 2006). Molto è stato investito negli ultimi
anni per cercare di aumentare il tasso di sopravvivenza. Si sono affinate le
tecniche di rianimazione, cercando di renderle sempre più rapide ed
efficaci. Si è introdotto l’uso dell’ipotermia, nel tentativo di rallentare il
metabolismo e diminuire la massiccia morte neuronale precoce. Si è
affermato l’utilizzo dell’ossigenoterapia iperbarica, per il trattamento
degli avvelenamenti da monossido di carbonio.
Gli esiti tra i sopravvissuti ad anossia cerebrale variano da un
completo recupero cognitivo a una cessazione permanente della
consapevolezza e di tutte le altre funzioni cognitive, secondo la causa e la
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gravit{ del danno cerebrale, l’et{ e la presenza di condizioni di
comorbidità (Greer, 2006).
Nel corso di questo capitolo saranno descritte in dettaglio le
principali cause d’insorgenza e i meccanismi patofisiologici alla base del
danno cerebrale; sarà proposta una rassegna degli studi che hanno
cercato di individuare le principali sedi lesionali e infine si farà luce sullo
stato dell’arte dell’argomento in ambito neuropsicologico.
1.1 Tipologie di anossia cerebrale
L’anossia cerebrale può essere causata da qualsiasi evento che
interferisce in maniera significativa con la capacità del cervello di ricevere
e utilizzare ossigeno. La natura di questi eventi può essere interna o
esterna all’organismo e determina il tipo di anossia.
L’anossia ischemica si verifica con un’interruzione del flusso ematico
all’encefalo, dovuta principalmente ad arresto cardiaco. In questa
situazione avviene una cessazione dell’attivit{ di pompaggio del cuore.
Spesso l’arresto cardiaco è il risultato di gravi disturbi della generazione o
della conduzione dell’impulso elettrico, che non consentono più le
funzioni cardiaca e/o cerebrale. La maggior parte dei casi (70-75%) è
legata a tachiaritmia ventricolare o a severe bradiaritmie (25-30%). I
substrati patofisiologici possono essere acuti, come nel caso di infarto
miocardiaco o ischemia, oppure cronici, come nel caso di cardiomiopatia o
ipertrofia ventricolare (Waldstein, 2001). La mortalità per arresto cardio-
circolatorio è di circa 80-85% (Osborn, 1996; Lombardi e Gallagher,
1994), questa diminuisce nel caso in cui l’evento si presenti all’interno di
una struttura ospedaliera (70%) e aumenta se si presenta fuori
dall’ospedale (90-95%; Herlitz e Andersson, 2000).
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L’anossia anossica è associata al mancato apporto di ossigeno ai
polmoni e si verifica in episodi di annegamento, strangolamento o
incidenti durante l’anestesia, episodi acuti di asma o sindrome delle apnee
ostruttive del sonno.
L’anossia anemica è dovuta a un’importante riduzione della
concentrazione di emoglobina nel sangue, principalmente per eventi
emorragici.
L’anossia tossica si riscontra quando sono presenti metaboliti tossici
nel sangue. Questi possono provocare l’anossia legandosi all’emoglobina
al posto dell’ossigeno, come nel caso del monossido di carbonio, oppure
impedendo ai tessuti di metabolizzare l’ossigeno presente nel sangue,
come nel caso del cianuro (Wolstenholme e Moore, 2010).
Alcuni studi hanno cercato di comparare gli esiti delle varie tipologie
di anossia. Mentre inizialmente si supponeva che le uniche variabili
significative fossero la gravit{ e la durata dell’anossia, studi più recenti
hanno evidenziato come anche l’eziologia sia legata alle manifestazioni
cliniche. Uno studio di Garcia Molina et al. (2006) ha evidenziato come i
sopravvissuti ad anossia anossica ottenessero delle performance migliori
ai test neuropsicologici rispetto a pazienti con eziologia ischemica, in
particolare per quanto riguarda la memoria verbale e l’apprendimento.
Altri studi hanno supportato questi risultati (Peskine, 2004) ed hanno
suggerito di considerare le diverse eziologie di anossia come responsabili
di diverse disfunzioni cerebrali. Questa differenza potrebbe essere
causata da un certo livello di compensazione che è possibile nell’anossia
anossica, nella quale alcuni nutrienti, come il glucosio, sono ancora
disponibili e in grado di raggiungere le cellule cerebrali. Nell’anossia
ischemica questo tipo di compensazione non è possibile e la cessazione
riguarda sia l’ossigeno che gli altri nutrienti. All’oggi non sono però
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presenti abbastanza evidenze per confermare con certezza le differenze
negli esiti neuropsicologici tra i vari gruppi di pazienti post-anossici.
1.2 Meccanismi alla base delle lesioni cerebrali
anossiche
Il cervello necessita di circa 3,3 ml di ossigeno per 100 g di tessuto
cerebrale per minuto. Nel caso in cui vi sia una riduzione di ossigeno nel
sangue, l’organismo risponde reindirizzando più sangue all’encefalo e
incrementando il flusso ematico cerebrale, che può crescere fino a
raddoppiarsi. Queste autoregolazioni riescono a impedire uno stato di
ipossia cerebrale nei casi in cui le fluttuazioni dell’ossigenazione
sanguigna siano limitate. Se invece la deprivazione è troppo elevata
(inferiore a 0,5ml/100g/min) o nel caso in cui il flusso sanguigno sia
completamente interrotto e questi sistemi di autoregolazione non
possano essere messi in atto, inizia un processo che porta al
danneggiamento del tessuto cerebrale.
I meccanismi che portano al danno anossico sono diversi e complessi.
Questi includono una cascata di alterazioni tempo-dipendenti nel
funzionamento neuronale, nel metabolismo e nella morfologia delle
cellule interessate (Haddad, 1993). Il danno ipossico acuto è prodotto dal
rilascio di neurotrasmettitori eccitatori, che portano a eccessivo afflusso
di sodio, edema e lesione cellulare (Hansen, 1985; Rothman & Olney,
1986). Lesioni permanenti del SNC sono collegate sia all’incremento
dell’eccitabilit{ neuronale, che causa un afflusso di calcio (Gibson et al.,
1988; Haddad & Jiang, 1993), sia alla formazione di radicali liberi
dell’ossigeno: molecole instabili che, a causa della loro configurazione
contenente un elettrone spaiato, tendono a reagire e a trasformare la
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